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Noam Chomsky
La colonizzazione del Medio Oriente:
le sue origini e il suo profilo




"Rifiuti umani e scarto della società"


La Dichiarazione dei principi e le sue conseguenze hano rappresentato un significativo passo avanti in direzione degli obiettivi degli espansionisti e dei negazionisti di Stati Uniti e Israele. Se fosse realmente possibile spazzare la questione palestinese sotto il tappeto, forse le relazioni tra le piincipali nazioni potrebbero divenire pubbliche e rafforzarsi, con Israele che diverrebbe un centro tecnologico, industriale e finanziario mantenendo il suo predominio militare con l'appoggio della potenza statunitense, e continuerebbe a sopravvivere su un sussidio degli Stati Uniti senza pari negli affari mondiali. Ufficialmente l'attuale appannaggio di 3 miliardi di dollari all'anno ammonta al 25 per cento del totale degli aiuti elargiti all'estero dagli Stati Uniti. L'analista del Medio Oriente Donald Neff stima che la somma reale ammonti a più del doppio, qualora si prendano in considerazione vari altri strumenti finanziari (garanzie di prestito, concessioni, pagamenti dilazionati, ecc.; i contributi deducibili dalle tasse, anch'essi unici, sono un'altra forma di sussidio pubblico). Gli aiuti a Israele non sono inoltre soggetti a condizioni o supervisione, a differenza di altri programmi, come gli oltre 2 miliardi di dollari versati regolarmente all'Egitto per mantenersi in linea con gli interessi statunitensi e israeliani.

D'altro canto, ai palestinesi vanno 100 milioni di dollari statunitensi, tutti attraverso il canale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) di Arafat, per lo più per finanziare le forze di sicurezza. L'amministrazione Clinton ha tagliato di 17 milioni di dollari il contributo statunitense all Unrwa, il più grande singolo datore di lavoro nella striscia di Gaza e responsabile del 40 per cento dei servizi sanitari e scolastici della regione. Può darsi che Washington abbia in programma di cancellare l'Unrwa, che "Israele ha storicamente combattuto", osserva il corrispondente Graham Usher, lasciando i palestinesi come un "problema" da affidare ad Israele e all'Anp, considerata un virtuale agente del governo israeliano. Rompendo con la precedente tradizione politica, l'amministrazione Clinton ha votato contro tutte le risoluzioni dell'Assemblea generale concernenti rifugiati palestinesi nel 1993 e nel 1994, sulla base del fatto che tali questioni "pregiudicano l'esito del processo di pace in corso e andrebbero risolte tramite negoziati diretti", ora saldamente nelle mani degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Un passo verso lo smantellamento dell'Unrwa, e il programmato spostamento del suo quartier generale a Gaza. Questo do vrebbe porre veramente termine al sostegno internazionale per il milione e ottocentomila rifugiati palestinesi in Giordania, Libano e Siria. Il passo successivo consisterà nel togliere i fondi all'Unrwa per metterli nelle mani dell'Anp, riportano fonti delle Nazioni Unite.

I fondi che vanno a Israele e all'Egitto, e i pochi spiccioli destinati ai palestinesi, sono la componente degli aiuti statunitensi maggiormente avversata dall'opinione pubblica. Ma la politica diverge nettamente dall'opinione su un'ampia gamma di questioni, non solo questa.

Si potrebbe osservare che le elargizioni statunitensi a Israele non sono solo straordinari nelle proporzioni, ma anche illeciti. Lo Human Rights Watch (Hrw) ha recentemente affrontato la questione, mettendo in rilievo ancora una Volta che la legge statunitense espressamente proibisce aiuti militari o economici a qualsiasi governo che pratichi la tortura sistematica. E come si evince nuovamente dal suo ampio rapporto, Israele "pratica un sistematico schema di maltrattamento e tortura", secondo standard internazionalmente accettati, e in proporzioni alquanto notevoli. Lo Hrw stima che "il numero di palestinesi torturati o gravemente maltrattati durante gli interrogatori al tempo dell'Intifada [dal dicembre del 1987] ammonta a decine di migliaia", su una popolazione maschile di adulti e adolescenti di meno di 3/4 di un milione, di cui solo una parte alla fine e stata posta in stato di accusa (e giudicata colpevole, di solito su "confessione"). Israele è evidentemente la sola democrazia industriale in cui la tortura e legalmente autorizzata, su raccomandazione dell'ufficiale Commissione Landau, la quale è giunta alla conclusione che i servizi di sicurezza hanno impiegato la tortura per sedici anni ma che solo certe misure di coercizione dovrebbero d'ora in poi venire consentite (indicate esplicitamente in una sezione segreta); le pratiche che sono state osservate e sono autorizzate vengono considerate torture dagli osservatori dei diritti umani. Lo Human Rights Watch fornisce dettagli, come l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem, e altre indagini compiute negli ultimi 20 anni.

E', comunque, ingiusto prendersela solo con Israele, dal momento che la maggior parte degli aiuti statunitensi sono -illeciti per lo stesso motivo; per esempio, la metà degli aiuti militari statunitensi al Sudamerica sono destinati alla Colombia, che non solo pratica la tortura ma compie anche massacri su scala imponente, ponendosi al comando dell'emisfero negli abusi dei diritti umani.

Gli estremi presupposti negazionisti dei governanti si rivelano ad ogni momento. Ne è esempio la reazione all'iniziativa di Arafat di invocare una "Jihad" per Gerusalemme; la quale suscitò una sorta di isteria negli Stati Uniti, poiché provava che non ci si poteva fidare dell'ambiguo terrorista. Nel frattempo Israele annunciò che la sua Jihad era compiuta: Gerusalemme sarebbe rimasta l'eterna e indivisa capitale di Israele, priva di qualunque istituzione palestinese (per tacere dei diritti). Questa dichiarazione è passata sotto silenzio negli Stati Uniti. La reazione (inesistente) alla decisione di Israele di affidare l'amministrazione dei luoghi santi al suo alleato giordano riflette la stessa posizione negazionista, così come la mancanza di preoccupazione riguardo all'espansione dei confini delle aree ambigue di Gerusalemme, ed il passo spedito al quale lì procedono edificazione e colonizzazione direttamente finanziate dall'ignaro contribuente statunitense.

Un ennesimo passo verso la realizzazione del negazionismo israeliano-statunitense è la cessazione del teorico diritto di ritorno e compensazione per i rifugiati palestinesi. Tale diritto era un elemento cruciale della Dichiarazione universale dei diritti umani: il suo articolo 13 afferma che "Tutti hanno il diritto di lasciare qualsiasi nazione, compresa la propria e di far ritorno alla propria nazione" (mio il corsivo). Il giorno dopo che la Dichiarazione venne approvata dal'Assemblea generale, si adottò all'unanimità anche la risoluzione 194 che applicava l'articolo 13 al caso dei palestinesi. La Dichiarazione è riconosciuta nei tribunali degli Stati Uniti e altrove in quanto "diritto internazionale consuetudinario e come "autorevole definizione" degli standard in fatto di diritti umani. L'articolo 13 è sicuramente la disposizione più famosa, invocata ogni anno per molti anni in occasione del giorno dei diritti umani, il 10 dicembre, con dimostrazioni e furiosi appelli all'Unione Sovietica per consentire agli ebrei russi di partire, loro sacrosanto diritto in base all'articolo 13. Quello che si è sempre nascosto e che coloro i quali lo invocavano con maggior passione erano i suoi più appassionati oppositori. Il trucco venne realizzato con semplicità: fu solo necessario sopprimere la frase in corsivo, col suo significato esplicitato dalla risoluzione 194. Questa ipocrisia, perlomeno, è un ricordo del passato. La prima parte dell'articolo 13 ha perso la sua importanza, e l'amministrazione Clinton ha tolto sostegno alla seconda parte nel dicembre del 1993 nella sua prima celebrazione del giorno dei diritti umani, votando, in contraddizione con la linea politica seguita ufficialmente per 45 anni, a sfavore della risoluzione 194, come seampre in solitudine (accanto ad Israele).

La vittoria dell'estremismo negazionista israeliano-statunitense è una conquista straordinaria. Costituisce un altro significativo passo verso la realizzazione delle aspirazioni della leadership sionista dei vecchi tempi, quando il padre fondatore del moderno sionismo, Chaim Weizmann, informò Lord Balfour che "il problema noto come la questione araba in Palestina sarà di carattere meramente locale e, in effetti chiunque sia al corrente della situazione non la considera un fattore estremamente significativo". La situazione attuale non si scosta dalle linee guida di fondo tracciate dall'ex presidente Haim Herzog nel 1972, quando dichiarò che non nega ai palestinesi alcun luogo o posizione o opinione su ogni questione" anche se "certamente non sono preparato a considerarli come partner in alcun modo in una terra che è stata consacrata nelle mani della nostra nazione per migliaia di anni. Per gli ebrei di questa terra non possono esservi partner". Come ho detto, ricade ben all'interno della gamma delle varie proposte israeliane avanzate dalla sinistra all'estrema destra, a partire dal 1968.

E' vero, i risultati sono ancora inferiori all'atteggiamento espresso da Weizmann quando rilevò, 70 anni fa, che i britannici lo avevano informato del fatto che in Palestina "ci sono alcune centinaia di negri, ma si tratta di una questione senza importanza". La situazione attuale, tuttavia, dimostra che gli specialisti del governo israeliano nel 1948, ebbero vista lunga nel prevedere che i rifugiati palestinesi si sarebbero assimilati altrove o "si sarebbero dispersi": "alcuni di loro moriranno e per lo più si tramuteranno in rifiuti umani e scarto della società, entrando nei ranghi delle classi più povere delle nazioni arabe". E vista lunga ebbe anche Moshe Dayan - forse il leader che si mostro più comprensivo nei confronti dei palestinesi - quando, prima della guerra del 1973, dichiarò che il controllo israeliano sui territori era "permanente" e consigliò che Israele dicesse ai palestinesi "che non abbiamo alcuna soluzione, continuerete a vivere come cani e chi vuole può partire - e vedremo a cosa porta questo processo [...]".

Ovviamente, Israele non avrebbe mai potuto raggiungere tali scopi con i suoi soli mezzi, e probabilmente non avrebbe rnai osato perseguirli. Lo poteva fare solo alleandosi col dominatore del mondo. La convinzione che la potenza statunitense sia guidata da una qualche sorta di "obbligo morale" nei confronti di Israele è troppo ridicola per meritare commento, cosa di cui Israele si accorgerebbe immediatamente se facesse l'errore di scavalcare il padrone. Fintantoché si mantiene il rapporto strategico e la dominazione statunitense permane senza grave rischio interno per gli Stati Uniti stessi, le questioni concernenti la giustizia e i diritti umani possono essere tranquillamente archiviate.

Ri cordate come fonti ufficiali abbiano riconosciuto che il budget del Pentagono deve rimanere alto, con forze di intervento puntate principalmente contro il Medio Oriente, dove "minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Con questa visione del mondo reale, vi sono buone ragioni di accettare il giudizio di Shlomo Gazit secondo cui dopo la guerra fredda, il principale compito di Israele non è cambiato affatto, e rimane di cru- ciale importanza. La sua ubicazione al centro del Medio Oriente arabo musulmano predestina Israele ad essere un devoto guardiano della stabilità di tutte le nazioni che la circondano. Il suo [ruolo] è di proteggere i regimi esistenti: prevenire o arrestare i processi di radicalizzazione e bloccare l'espansione del fanatismo religioso fondamentalista.

Per comprendere le sue parole si deve solo operare la consueta traduzione dal gergo odierno al linguaggio comune. Il termine "stabilità" significa controllo statunitense, "radicalizzazione" significa inaccettabili forme di indipendenza e "fanatismo religioso fondamentalista" è un caso particolare del crimine di indipendenza. Non ha importanza che i criminali preferiscano il nazionalismo laico, il socialismo democratico, il fascismo, la teologia della liberazione o il "fanatismo religioso fondamentalista". Sicuramente il compito di Israele non è di minare il regime più estremista del fondamentalismo islamico, quello dell'Arabia Saudita - almeno non per ora - così come Israele non venne chiamata a "bloccare" le forze estremiste fondamentaliste islamiche di Gulbuddin Hekmatyar, il prediletto degli Stati Uniti ne- gli anni ottanta, che fece a pezzi i resti dell Afghanistan dopo il ritiro sovietico mentre espandeva il suo narcotraffico; o i gruppi fondamentalisti islamici che Israele finanziava nei territori occupati alcuni anni fa, per controbattere l'Olp. Né, se è per questo, ci si aspetta che Israele "controlli" gli Stati Uniti, una delle più estremiste culture religiose fondamentaliste del mondo.

Se Israele reagisce in modo intelligente di fronte a quella che Thomas Friedman, specialista del Medio Oriente del New York Times, ha chiamato la "bandiera bianca" di Arafat, farà cadere le restrizioni imposte per impedire qualsiasi sviluppo nei territori, La posizione razionale sarebbe di incoraggiare un flusso di fondi stranieri che possono essere usati per fondare un settore di servizio per l'industria israeliana e produrre benefici per gli investitori israeliani e i loro partner palestinesi e stranieri. Sarebbe sensato per Israele spostare impianti di assemblaggio di alcune miglia in una zona dove non ci si deve affatto preoccupare di questioni come i diritti dei lavoratori, l'inquinamento e la presenza di indesiderati arabi (o anche dei lavoratori thailandesi e romeni) all'interno delle aree coloniche ebraiche. Impianti a Gaza e dintorni, oltre che nei cantoni della sponda occidentale, possono fornire manodopera a basso costo e facilmente sfruttabile, generando profitti per gli investitori e aiutando a controllare la popolazione. Settori ricchi di Israele dovrebbero ottenere considerevoli profitti se i territori venissero sfruttati in modo intelligente sul modello che Washington adotta nei propri dintorni.

Quanto alla forza di sicurezza, sarebbe sensato affidarla principalmente a forze locali asservite - il modello seguito dai britannici in India, dagli Stati Uniti nella regione dei Caraibi dell'America centrale, e in genere dalle potenze razionali. I vantaggi sarebbero molteplici, e uno di questi venne evidenziato dall'ultimo vincitore del premio Nobel per la pace poco dopo l'annuncio della Dichiarazione dei principi. Parlando al consiglio politico del partito laburista, il primo ministro Rabin spiegò che le forze palestinesi sarebbero state in grado di "occuparsi di Gaza senza i problemi provocati dagli appelli all'Alta corte di giustizia, da B'Tselem, e da tutti i teneri di cuore, dalle madri e dai padri". Questo è più o meno vero, sebbene a volte possa tornare utile anche l'ostentazione della forza come nel tradizionale schema imperiale.

Con una buona pianificazione, le cose dovrebbero svilupparsi secondo le linee tracciate da Asher Davidi sulla stampa del partito laburista nel febbraio del 1993, pochi mesi prima dell'accordo Israele-Arafat a Oslo. Egli descrisse l'"accordo completo tra rappresentanti dei vari settori (delle banche, dell'industria e del commercio su larga scala) e il governo sul fatto che la dipendenza economica dell'en- tità palestinese deve essere preservata" ma con "una transizione dal colonialismo al neocolonialismo", intrapresa congiuntamente con una ricca frangia di investitori e subappaltatori palestinesi, come nel modello comunemente applicato nel terzo mondo.

Non è chiaro quali implicazioni potrebbe avere questa situazione per la società israeliana al suo interno. Uno specialista israeliano di spicco, Sami Smooha, predice che un accordo di pace "accrescerebbe in modo significativo l'ineguaglianza", danneggiando i cittadini ebrei di seconda classe di origini orientali e migliorando lo status dei cittadini palestinesi di terza classe. Può darsi, anche se l'ineguaglianza può crescere per altre ragioni. Israele rimane estremamente dipendente dalle elargizioni e dagli aiuti americani, ed è percio più predisposta di altri a seguire il modello statunitense, abbandonando il suo tradizionale contratto sociale. Dal momento che l'economia e "liberalizzata", si può prevedere che l'ineguaglianza insolitamente elevata all'interno di Israele sia destinata a crescere, rispecchiando l'ordinarnento interno del padrone che continua a foraggiarla in cambio dei servizi resi.

Dopo la guerra del 1967, mi sembrava che il corso più saggio e umano per i vincitori sarebbe stato di far rivivere le tradizionali idee sioniste sulla federazione di aree amministrate da ebrei e da arabi, che avrebbe forse condotto a una conclusiva integrazione binazionalista man mano che si intrecciavano scambi tra le comunità a cavallo dei confini nazionali. Questa opzione si fece particolarmente appropriata, secondo me, dopo il rifiuto da parte di Kissinger delle disposizioni di ritiro della risoluzione 242, lo divenne ancora di più dopo che gli Stati Uniti dovettero frettolosamente schierarsi accanto ad Israele nel respingere la nozione dei due Stati quando quest'ultima entrò nell'agenda internazionale intorno alla metà degli anni settanta, e lo divenne più che mai negli anni che seguirono. Con l'avvento della Dichiarazione dei principi, dovrebbe ormai essere ovvio che l'opzione dei due Stati ha perduto qualsiasi (dal mio punto di vista limitata) possibilità di realizzazione, e da allora la cosa si è fatta ancora più chiara. Agli israeliani, ai palestinesi e agli esterni simpatizzanti che hanno a cuore i temi della pace e della giustizia, il momento appare più che maturo per cominciare a preoccuparsi di questioni concernenti i diritti umani e la democrazia invece di sempre più irrealistiche illusioni politiche, e per tornare, parallelamente, a considerare alternative che sono state a lungo disponibili e lo sono tuttora. Tali alternative avrebbero potuto prevenire la guerra del 1973, che si presentò come una necessita ineluttabile per Israele, la terribile invasione del Libano con le sue conseguenze, e molte altre distruzioni e sofferenze, che non sono in alcun modo terminate.

In tutta la faccenda, osserviamo chiaramente in azione i principi guida dell'ordine mondiale: gli affari mondiali sono gestiti dalla Regola della Forza, mentre si fa affidamento sugli intellettuali affinché dissimulino la realta per assecondare le esigenze del potere. Ci vuole una certa disciplina per non rendersene conto. Gli accordi che vengono attualmente messi in pratica sono degradanti e vergognosi, ma non più del simile modello che viene adottato in buona parte del mondo dal momento che gli ideali operativi - non quelli delle favole - hanno superato molti ostacoli popolari alla loro realizzazione. Alcuni si sono spinti più in là degli altri nel "tramutarsi in rifiuti umani e scarto della società" ma questa è la direzione nella quale sta andando, e andrà, buona parte del mondo, se ai padroni viene permesso di progettare un ordine mondiale in cui "si fa quello che diciamo noi".


La colonizzazione del Medio Oriente: le sue origini ed il suo profilo


tratto da Noam Chomsky - "Il potere; Natura umana e ordine sociale" - Editori Riuniti 1997


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