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Noam Chomsky
La colonizzazione del Medio Oriente:
le sue origini e il suo profilo



"Si fa quello che diciamo noi"


Ben più di un anno è trascorso dall'accordo tra Israele e Arafat del settembre del 1993, suggellato dalla Dichiarazione dei principi (Ddp). I firmatari hanno ricevuto i loro premi Nobel per la pace. Il significato sostanziale di ciò che hanno firmato si è fatto più chiaro nel tempo, man mano che le ambiguità si andavano diradando. E un buon momento per riflettere sull'accaduto e sul perché, e per chiederci quale sarà il probabile esito del "processo di pace".

Presi alla lettera, i termini della Ddp aderiscono strettamente alle posizioni che Stati Uniti e Israele hanno sostenuto costantemente e, per oltre vent'anni, in isolamento praticamente totale. Gli Stati Uniti e i loro protetti-alleati che dominano la regione, interpretano i termini rigorosamente alla lettera, come mostrano successivi sviluppi – e la cosa non sorprende più di tanto se si considera che sono stati loro a fabbricare ad arte e imporre questi termini. Questa posizione si colloca all'interno di una più ampia concezione statunitense riguardo al modo in cui la regione andrebbe organizzata, concezione che risale alla seconda guerra mondiale. Pur avendo mantenuti fermi a lungo i propri principi, è stato solo in anni recenti che Washington ha potuto metterli effettivamente in pratica. Mi sembra questa la sostanza dell'attuale "processo di pace".

La stessa espressione "processo di pace" è un orwellismo standard, impiegato acriticamente negli Stati Uniti e adottato in buona parte del mondo, data l'enorme influenza e potenza degli Usa. In pratica, il termine si riferisce a qualunque cosa la leadership degli Stati Uniti è impegnata a fare sul momento – che, spesso, consiste proprio nel minare il processo di pace nel senso letterale dell'espressione, come un analisi dei fatti rende piuttosto chiaro.

La guerra del Golfo ha stabilito il dominio degli Stati Uniti nel Medio Oriente a un livello mai raggiunto prima, dando la possibilità a Washington di organizzare il "processo di pace" in accordo con le proprie linee guida, a partire dagli incontri di Madrid nell ottobre del 1991. E proprio da qui che bisognerebbe iniziare una seria analisi della recente attività diplomatica.

Mentre bombe e missili piovevano su Baghdad e i soldati di leva iracheni si nascondevano nel deserto, George Bush annunciò orgogliosamente lo slogan del Nuovo Ordine Mondiale, in quattro semplici parole: "What We Say Goes", ossia "si fa quello che diciamo noi". "Quello che diciamo noi" venne presto esplicitato con non minore chiarezza quando le armi tacquero, e Bush torno alla vecchia prassi di prestare aiuto e sostegno a Saddam Hussein mentre quest'ultimo impietosamente soffocava le rivolte sciite e crude sotto gli occhi delle vittoriose forze alleate, che non si degnarono di alzare anche un solo dito. Il sostegno a Saddam era così estremo che il comando degli Stati Uniti non fu disposto nemmeno a concedere ai generali iracheni ribelli di impiegare gli armamenti sequestrati per difendere la popolazione dalla carneficina del dittatore. Un piano saudita per sostenere la rivolta degli indigeni sciiti venne rapidamente soffocato dall'amministrazione Bush.

Il significato del Nuovo Ordine Mondiale non avrebbe potuto essere espresso in modo più chiaro. La reazione che gli è stata tributata getta anche luce sull'attuale stato della cultura occidentale: per lo più applausi per la politica dei nostri leader.

Le ragioni della tollerante posizione di Washington nei confronti della carneficina vennero spiegate per grandi linee, all'epoca, da eminenti analisti: le atrocità di Saddam ci addoloravano, certamente, ma erano necessarie al fine della "stabilità" – altro utile termine del discorso politico, che va letto come "qualunque cosa sia nell'interesse del potere".

La posizione ufficiale venne delineata da Thomas Friedman, allora capo corrispondente diplomatico del New York Times. Washington aveva sperato nel "migliore dei mondi possibili", spiego Friedman: "una giunta irachena dal pugno di ferro senza Saddam Hussein". Tale giunta avrebbe restaurato il precedente status quo, in cui il "pugno di ferro [di Saddam] [...] teneva unito l'Iraq, con grande soddisfazione degli alleati americani, Turchia e Arabia Saudita" – e, ovviamente, del boss a Washington. Ma questo auspicabile esito si era rivelato impraticabile, cosicché i padroni della regione avevano dovuto accontentarsi della seconda migliore alternativa a disposizione: lo stesso "pugno di ferro" al quale avevano dato forza mentre torturava i dissidenti e uccideva col gas i curdi, tutte cose perfettamente accettabili finché il criminale al potere si era attenuto agli ordini sulle questioni fondamentali. Solo pochi mesi prima che Saddam conquistasse il Kuwait, George Bush colse l'occasione della sua invasione di Panama per annunciare l'intenzione di sollevare il divieto sui prestiti all'Iraq, intenzione messa in pratica poco tempo dopo, per raggiungere l'"obiettivo di accrescere le esportazioni statunitensi e metterci in una migliore posizione per trattare con l'Iraq riguardo ai suoi precedenti in fatto di diritti umani [...]", come spiego il Dipartimento di Stato imperturbabile alle poche interrogazioni provenienti dal Congresso. I principali media e i giornali di maggior diffusione trovarono l'intera faccenda indegna di essere commentata o perfino riportata.

E' sicuro che non tutti considerarono la restaurazione della "Bestia di Baghdad" o di qualche suo accettabile clone come il "migliore dei mondi possibili": i dissidenti iracheni, per esempio. Ahmed Chalabi, banchiere residente a Londra, condanno aspramente la posizione di Washington: "gli Stati Uniti, coprendosi dietro alla foglia di fico della non interferenza negli affari iracheni, aspettano che Saddam massacri i rivoltosi nella speranza che egli possa in seguito venire rovesciato da un funzionario accettabile" – egli disse – un atteggiamento radicato nella prassi statunitense di "sostenere la dittatura per conservare la stabilità".

Il popolo degli Stati Uniti venne tenuto all'oscuro di queste note discordanti, come era avvenuto durante la crisi. Le voci dei dissidenti iracheni potevano essere ascoltate solo dai lettori della poco diffusa stampa dissidente, che pubblicò ciò che si poteva apprendere dalle fonti estere, e da quanti parteciparono a convegni pubblici organizzati da gruppi di pace e giustizia, che offrirono ai leader dell'opposizione irachena in visita dall'Europa un foro ben disposto. Anche questi sono fatti sgraditi, e perciò riposti come al solito nel dimenticatoio in favore di una versione alquanto audace che capovolge completamente fatti facili da stabilire, una storia interessante sulla quale non starò qui a dilungarmi.

I portavoce ufficiali degli Stati Uniti confermarono che l'amministrazione Bush non era intenzionata a parlare con i leader dell'opposizione: "Abbiamo reputato che un incontro politico con loro [...] non sarebbe al momento appropriato per la nostra linea", affermò il 14 marzo Richard Boucher, portavoce del Dipartimento di Stato. Il sistema dell'informazione ne convenne e continuò a bandire gli autentici dissidenti iracheni dai principali mezzi di informazione. Fu solo in aprile, ben dopo la fine delle ostilità, che il Wall Street Journal, – di questo gli va dato atto – ruppe i ranghi e offrì spazio a un portavoce dell'opposizione democratica irachena – sempre Chalabi – il quale descrisse la situazione che si era venuta a creare come "il peggiore dei mondi possibili" per il popolo iracheno, la cui tragedia è "spaventosa".

Secondo la versione standard, tracciata per grandi linee, alcuni giorni dopo, da Alan Cowell, corrispondente dal Medio Oriente del New York Times, i ribelli avevano fallito perché "pochissime persone fuori dell'Iraq volevano che vincessero". Gli Stati Uniti e i "loro partner della coalizione araba" erano giunti a "una visione eccezionalmente unanime", spiegò: "qualsiasi siano le colpe del leader iracheno, egli offriva all'Occidente e alla regione una più consistente garanzia di stabilità per il suo paese di coloro che avevano subito la sua repressione". La conclusione è sostenibile se intendiamo escludere dal novero delle "persone" di cui parlava Cowell i dissidenti iracheni e la popolazione dei "partner della coalizione araba", almeno quella dell'Egitto, il solo paese abbastanza libero da permettere ad alcune di tali persone di far udire la propria voce. E' vero, tuttavia, che la "visione unanime" e condivisa dalle persone che contano: Washington, le redazioni dei notiziari e delle rubriche, e le dittature della regione. E' condivisa anche da Turchia e Israele, la prima preoccupata dalla propria popolazione curda sottoposta a brutale repressione, la seconda timorosa che l'autonomia curda in Iraq avrebbe potuto "creare una contiguità territoriale e militare tra Teheran e Damasco", venendo a costituire un potenziale "pericolo per Israele" (Mose Zak, caporedattore dell'importante quotidiano Ma'ariv, mentre spiegava per quale motivo parte dei vertici del comando militare e un ampio settore dell'opinione politica, compresi leader delle colombe, avessero accordato il loro sostegno a Saddam). Le preoccupazioni della Turchia hanno ricevuto qualche menzione, ma non la reazione di Israele, che contrasta troppo nettamente con l'immagine che si è voluta dare.

Ora si è ammesso, per inciso, che quando il suo amico disobbediente invase il Kuwait, l'amministrazione Bush prevedeva che si sarebbe ritirato, lasciando al potere un regime fantoccio – ossia, una replica di quello che gli Stati Uniti avevano appena fatto a Panama. Certo, nessun parallelo storico e mai del tutto esatto. In un incontro ad alto livello immediatamente dopo che Saddam aveva invaso il Kuwait, il capo di stato maggiore, Colin Powell, espresse parere sfavorevole a proposito dell'intervento militare sulla base del fatto che il popolo americano "non vuole che i suoi giovani muoiano per avere il petrolio a 1 dollaro e mezzo". "Nei prossimi giorni l'Iraq si ritirerà", disse, lasciando "il suo fantoccio al potere. Tutti nel mondo arabo saranno contenti". Al contrario, quando Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo aver messo il suo fantoccio al potere, molti furono tutt'altro che felici (nel sud del mondo). L'impresa criminosa di Washington a Panama suscitò grande rabbia in tutto l'emisfero, a tal punto che il regime fantoccio venne espulso dal Gruppo delle otto democrazie latinoamericane in quanto paese sottoposto a occupazione militare. Come osserva il latino americanista Stephen Ropp, Washington era pienamente consapevole del fatto "che rimuovere il manto della protezione americana avrebbe presto condotto al rovesciamento civile o militare di Endara e dei suoi sostenitori" vale a dire, il regime fantoccio di banchieri, uomini di affari e narcotrafficanti instaurato dall'invasione di Bush. Perfino la Commissione per i diritti umani di quello stesso governo ha denunciato la protratta violazione del diritto all'autodeterminazione e alla sovranità del popolo panamense attraverso lo "stato di occupazione da parte di un esercito straniero", quattro anni dopo l'invasione.

A parte simili fatti (non riportati), l'analogia può sussistere – o, almeno, potrebbe sussistere, se fosse possibile spiegarla o anche solo parlarne attraverso i principali mezzi di informazione.

Gli interessi di Washington spiegano perché ha dovuto bloccare ogni iniziativa che avrebbe potuto condurre a un ritiro negoziato iracheno, come in effetti ha fatto; e perché i mezzi di comunicazione internazionali hanno dovuto nascondere i fatti concernenti le opportunità di soluzione diplomatica, come in effetti hanno fatto, e con notevole efficienza, nonostante talvolta si sia ammesso tacitamente che i fatti erano noti. Vi è un'ampia letteratura critica riguardo al comportamento dei mezzi di informazione durante la guerra, ma anch'essa evita questo argomento, che evidentemente è quello cruciale. Quanto fosse importante tenere segreti i fatti diviene particolarmente chiaro quando scopriamo che alla vigilia del bombardamento, la popolazione americana, in proporzione di circa 2 a 1, era favorevole a un accordo basato sul ritiro delle truppe irachene in considerazione dei problemi della regione, non sapendo di una proposta irachena orientata in tal senso di qualche settimana prima, o del sommario rifiuto che essa aveva ricevuto a Washington. Sugli stessi standard si mantengono gli attuali studi accademici sulla vicenda, altra storia interessante che qui metterò da parte. In modo simile, gli archivi dei documenti sollevati dal segreto di Stato, pieni di informazioni in abbondanza sull'accaduto, vengono ignorati dagli studi accademici più ammirati come sono stati completamente ignorati dai media. Solo ai margini si trovano eccezioni allo schema.

Sulla scorta del ben assimilato principio di Tacito secondo cui "il crimine una volta scoperto non ha altro rifugio se non la sfrontatezza", questo misero comportamento viene ora generalmente considerato un esempio di come il sistema democratico promuova un'accurata, deliberata e sobria divulgazione di tutti gli aspetti delle questioni cruciali prima che vengano prese decisioni importanti.


La colonizzazione del Medio Oriente: le sue origini ed il suo profilo


tratto da Noam Chomsky - "Il potere; Natura umana e ordine sociale" - Editori Riuniti 1997


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