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La
Signora e la badante, che rapporto?
lettera aperta a Luisa Muraro
di
Cristina Morini - la lettera di Muraro cui
Cristina si riferisce:
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/05-Maggio-2004/art79.html
Luisa
Muraro in una lettera pubblicata sul Manifesto
di mercoledì 5 maggio scrive che
l'articolo di Manuela Cartosio "La
signora e la badante a tavola insieme"
e la puntata dell'Infedele di Gad Lerner
dedicata allo stesso tema, mandata in onda
il primo maggio scorso, hanno portato con
se la spiacevole conseguenza di creare ingiusti
complessi di colpa nelle donne occidentali,
nonché quella di inferiorizzare le
migranti, amplificando scorrettamente la
loro immagine di relegate al lavoro servile.
La
prima cosa che vorrei dire è che
non è detto che le donne occidentali
siano, per natura, tutte pacifiche e rispettose,
né che tutte siano insensibili al
potere, refrattarie alle gerarchie e ai
linguaggi ad essi connessi. Diffido sempre,
proprio sulla base di ciò che ritengo
un valore dell'insegnamento femminista,
delle stereotipizzazioni. Ma ammettiamo
pure sia così e ragioniamo a partire
da questo postulato: l'arrivo in massa sul
territorio di un esercito di donne immigrate,
richiamate dal freddo meccanismo della domanda,
pone la massa delle donne riceventi, pacifiche
e rispettose, di fronte ad alcuni ineludibili
nodi teorico-pratici.
Il
primo consiste nel domandarsi sulla base
di quali regole - o sarebbe meglio dire
"non regole" - queste donne arrivano
nei nostri Paesi. Passano - perché
indubbiamente, e indipendentemente dalle
penalità, passano - le frontiere
senza diritti, restano bloccate sul territorio
private di nome e vale a dire di dignità,
consegnate, in forza di questa anomia complessiva,
a un lavoro obbligatoriamente invisibile
e oscuro. Che cosa hanno da dire le rispettose
autoctone in merito? Sarà solo questione
di tarare meglio le quote d'ingresso o questa
è una vistosa ferita aperta nel corpo
delle donne tutte? Una ferita che ci sbatte
in faccia alcune gravi contraddizioni, prima
fra tutte l'esistenza di profondissime e
intollerabili disparità tra eguali,
neppure di classe ma innanzitutto umane?
Che elimina alla radice la possibilità
di scelta, della quale infatti non è
dato discettare perché, semplicemente
e crudamente, in queste condizioni non esiste?
Seconda
questione. La famiglia, la città,
le relazioni tra gli esseri umani sono oggi
uno spazio economico. Dentro il lavoro odierno
stanno incastrate componenti linguistico-affettive.
In questo senso il lavoro di cura delle
donne migranti si iscrive perfettamente,
e non come eccezione a cui guardare con
accezioni diverse, dentro un meccanismo
assai più vasto, che comprende anche
le relazioni. Le quali diventano oggetto
di valorizzazione economica. Un cambiamento
epocale che dovrebbe interrogare da vicino
le donne e il movimento femminista, non
credete? Non è più ammissibile
una dimissione dal problema dei rapporti
di produzione perché ciò che
ci interessa mettere in discusione le relazioni
tra i generi, nel momento in cui proprio
le relazioni stesse sono parte integrante
dei sistemi di accumulazione, o mi sbaglio?
Dire alle donne migranti che tutto si può
ricomporre perché tra noi e loro,
dentro lo spazio della nostra casa, esistono
riconoscimento e relazione, non sbagliato,
ma, posto in questo modo, qui e ora, è
fuori dall'essenza e dalla complessit della
realtà contemporanea, che infatti
non coglie.
Ritengo
sia altrettanto grave che, nel corso degli
anni, non si sia spinto, con sufficente
forza, a favore di un completo ripensamento-rivoluzione
dei rapporti esistenti tra produzione/riproduzione,
che vengono ulteriormente sclerotizzati
e appiattiti sull'esistente dai sempre più
corposi pacchetti di tagli al welfare. Questo
lavoro incompiuto è origine del processo
che oggi costringe le donne del Nord a ricorrere
all'aiuto delle donne del Sud del mondo.
E questa non è una accusa, ma un
invito a tutte "a fare", che si
rivelerebbe socialmente assai più
utile del "trattare bene", come
è ovvio e doveroso, la propria assistente
domiciliare.
Le
donne d'occidente hanno il dovere di guardare
in faccia i problemi portati con se dalla
globalizzazione, di interrogarsi e di provare
a trovare risposte a nuove domande, senza
trincerarsi dietro la faccenda della relazione
che non sempre è la panacea di tutti
i mali, non sempre è neutra e, in
qualche caso, nasconde rapporti di potere
e nuove gerarchie. Se sollecitare ascolto
e risposte vuole dire "colpevolizzare",
bè allora il richiamo alla relazione
pare ancor più tragicamente formale
e vuoto.
Infine,
sull'inferiorizzazione delle donne straniere.
Credo che da questo rischio sappiano salvarsi
da sole, come sono ampiamente riuscite a
dimostrare nel corso della trasmissione
del primo maggio. Le migranti hanno un'immensa
consapevolezza di se e del loro ruolo tra
noi oltre a una invidiabile, lucidissima,
capacit di guardare alle miserie di un occidente
invecchiato infelicemente. Capacità
e potenzialità che non ha bisogno
di eccessi di traduzione e di ipocrite delicatezze.
Invito a un pensare globale, a non incistarci
sul nostro piccolo spazio finito. E a non
dare per scontato che le donne straniere
vengano in Italia soprattutto per liberarsi,
finalmente, da atavici pesi. Pensiero stupendo
che ci consola, ci rassicura e ci fa stare
un po' meglio, ma che non va molto oltre
il perimetro - e il peso - del sogno.
Cristina
Morini
[
leggi
anche la prefazione al suo libro, "La
serva serve" - DeriveApprodidi, di
Salvatore Palidda ]
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