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Cosa fa di una donna una prostituta
Pia Covre (Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute)

Cosa fa di una donna una prostituta?
Per il Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, è il fare “commercio di cosa che sia strettamente legato alla libertà e alla dignità umana”. La “cosa”, ritenuta impresentabile e innominata in questa definizione, il corpo. Farne commercio equivarrebbe a calpestare libertà e dignit che nel corpo hanno naturale dimora. Bisogna allora intendersi sul significato che attribuiamo al corpo.

Un luogo comune, di derivazione paolina, lo vuole irrimediabilmente consegnato al peccato e alla morte e perciò estromesso dalla vita. “Nessuna carne si glorifichi dinnanzi a Dio” (1 cor. 1,29). “Vi dico, fratelli, che la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio” (1 cor. 44,50).

Invece una concezione materialista ed atea pensa al corpo come al luogo naturale dell’esistenza. Per dirla con Jean Luc Nancy, “il corpo è l’essere dell’esistenza, più precisamente l’essere esposto dell’essere”. Essere esposto: chi più della prostituta si trova in qualche modo esposto? Semplicemente la prostituta espone il proprio corpo in strada mettendolo in mostra, per così dire, proprio come si fa con i panni al sole o con la bandiera. Prostituire significa questo e nient’altro.

Ora è questa esposizione che fa problema. Che essa sia in verità un nascondimento, che ci sia un uso improprio del corpo che poco o nulla rivela una volta messo al lavoro, che questa strategia mostri i reali rapporti di forza nei confronti del cliente, tutto questo ci è noto.

Meno noto è che questa strategia sia invece un effetto di ritorno di una cecità condivisa per cui la prostituta paradossalmente non si saprà mai come corpo, mai saprà il proprio corpo. Come potrebbe se il corpo è il luogo di un’esistenza e non di una proprietà? Ma per lo stesso motivo esso non può neanche essere il luogo di una riappropriazione. Se il lavoratore, ogni lavoratore, non ha il suo corpo perché è il suo corpo, che cosa aliena nel lavoro se non se stesso, interamente e senza resti? C’è ancora qualcuno disposto a credere alla favola weberiana di un afflato religioso che animerebbe la produttivit del lavoro in una fabbrica capitalistica? Dove sono i corpi? ­ si chiede Nancy ­ sono “innanzitutto al lavoro (…), alla pena del lavoro (…), in viaggio verso il lavoro, di ritorno dal lavoro, ad aspettare il riposo, a prenderselo e a liberarsene subito”.

I corpi dunque, ma questa volta non più separati dalla generica capacità di lavorare che il capitalista acquista sul mercato del lavoro. Proprio come accade alla prostituta per la quale è arduo scindere, nel corpo stesso, sostrato materiale corporeo e capacità di lavoro come pura potenza.

Unica obiezione possibile a questo ragionamento è che esso varrebbe per quelle donne, per lo più autoctone, che in libertà hanno scelto di prostituirsi. Diverso sarebbe il caso delle prostitute straniere per le quali entrano in gioco ben altre categorie, prima fra tutte quella di “nuda vita” nel significato che Agamben assegna a questa espressione: corpo sottratto alla presa del diritto e per questo motivo reso disponibile ad ogni forma di violenza, di manipolazione, di mutilazione, di segregazione, di negazione. Corpo sacro perché condannato alla solitudine e all’abiezione.

Basta uno sguardo un po’ accorto alla legislazione vigente e alle proposte di legge in discussione per prendere atto del fallimento di ogni tentativo di governo della prostituzione perché o anacronistiche (è il caso della legge Merlin del 1958), o appiattite sulla realt dell’immigrazione (legge Turco-Napolitano del 1998 e legge Bossi-Fini del 2002) o centrate esclusivamente sulla lotta al traffico e alla riduzione in schiavitù (legge 228/2003).

Da dove partire per una rivendicazione dei diritti delle prostitute? Non certo dal riconoscimento della prostituzione come lavoro perché, se anche così fosse (ma questa resta un’improbabile ipotesi in Italia), esso dovrebbe poi fare i conti con una doppia realtà che sta distruggendo il lavoro come fonte di diritto, sia sul versante delle radicali trasformazioni nel modo di produzione sia sul versante di una diffusa pratica illegale che già silenziosamente recide questo nesso.

È il caso allora di tornare al corpo da cui siamo partiti e con esso al corpo migrante e illegale che abbiamo cominciato ad intravedere. Nella misura in cui il/la clandestino/a deve anteporre il suo corpo non lavorativo, cioè il suo corpo esistenziale, per avere diritto al corpo lavorativo e ai diritti che ne conseguono, svolge una critica pratica radicale del lavoro come fonte del diritto e della cittadinanza affermando una sorta di diritto dell’esistenza.

Il corpo esiste nella sua singolarità unica e irripetibile e solo da ciò può scaturire qualcosa che possiamo anche chiamare diritto. Il/la migrante afferma il fatto che esiste, che l’esistenza precede l’essenza e sta prima e al di fuori di ogni legittimazione statuale, e agisce per dare corso a questa esistenza. E con ciò afferma implicitamente una nuova e superiore fonte di legittimità, non basata sul diritto di cittadinanza ma sul fatto della semplice presenza.

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