Nei fregi
del Partenone le vediamo nei loro morbidi chitoni, maneggiando
piccole spade e giavellotti come atleti olimpionici. In fregi
elenistici più recenti, come in quelli dei sarcofagi di Tessalonica,
vengono rappresentate in pose seducenti, come donne guerriere
con curve da cortigiane. Secondo Erodoto, i soldati greci le hanno
combattute nella battaglia di Thermodon nel Mar Nero. Gli Sciiti
le chiamavano Oriopata o "assassine di uomini". Ma quando Achille
uscise la loro regina Penthesilea, nell’assedio di Troia, si innamorò
del suo viso muorente.
Quello delle Amazzoni è uno dei nostri miti più antichi e potentemente
ambigui. La persistenza della sua influenza sulla psiche occidentale
è tale che, quando gli spagnoli, nel 1542, navigarono un immenso
fiume in Sud America riportarono avvistamenti di Amazzoni e il
fiume, infine, acquisì il loro nome. Poi, per circa 500 anni,
niente. Le Amazzoni scivolarono silenziosamente nel regno della
mitologia, dove sembrava dovessero rimanere.
Così fu finché un gruppo di archeologi, durante un lavoro di scavi
nelle steppe euroasiatiche, fece una scoperta inaspettata. Tra
il 1992 e il 1995, un gruppo condotto da Jeannine Davis-Kimball,
direttrice del Centro di Studi delle Civiltà Nomade Euroasiatiche
nel Berkley in California, scavò un sito Neolitico di kurgans
(tumuli sepolcrali) nei pressi di Pokrovka, al confine della Russia
con il Kazakistan. Nello scorso gennaio, Davis-Kimball pubblicò
sulla rivista Archeaology un resoconto degli scavi in quella zona:
un saggio documentato da mappe e fotografie descrivendo la sua
testimonianza del passaggio nelle steppe di femmine guerriere
circa 2500 anni fa.
Dentro ai kurgan, gli archeologi trovarono resti di entrambi i
sessi, ma fu un gruppo di scheletri femminili che catturò la loro
attenzione: donne straordinariamente alte per la loro epoca seppellite
con pugnali e spade. Disposto accanto a una giovane femmina c’era
una faretra contenente quaranta freccie dal puntale di bronzo;
lo stesso scheletro presentava le ossa delle gambe arcuate possibilmente
dovuto, congetturò Davis-Kimball, a tutta una vita passata in
sella. Alloggiato sotto la gabbia toracica di un’altro c’era una
punta di freccia piegata; testimonianza, forse, di una morte violenta
in battaglia.
Le notizie sulle sepolture del sito di Pokrovka alimentarono la
cronaca e misero in moto un turbine di speculazioni. "Antiche
tombe di donne armate che alludono alle Amazzoni", proclamò il
The New York Times. In realtà, Davis-Kimball ebbe la cura di dire
al Times che queste donne non erano, probabilmente, le donne guerriere
dell’antica legenda; inoltre, furono scoperte a più di mille miglia
a est dal luogo in cui, presumibilmente, i greci hanno combattuto
le Amazzoni. Effettivamente, è più probabile che il loro significato
riguardi una questione di una portata più vasta, rivitalizzando
un vecchio dibattito sulle origine del patriarcato e ripristina,
forse, una lunga e screditata ricerca dell’Atlantide femminista,
una civilizzazione preistorica in cui le donne detenevano tanto
o più potere degli uomini. "Questi kurgan non sono, in nessun
modo, una prova del matriarcato", dice Davis-Kimball, "ma i matriarcati
possono essere tuttavia esistiti". Mentre sottolinea che le etichette
"matriarcato" e "patriarcato" riflettono una particolare concezione
moderna del potere e dei rapporti tra i generi, Davis-Kimball
osserva che "ci sono prove iconografiche sia nell’arte che nell’archeologia
che suggeriscono effettivamente l’esistenza in passato di società
non patriarcali". Aggiunge: "Sicuramente, queste società nomade
delle steppe sembrano mostrare una specie di interscambialità
di ruoli tra i sessi, anche nello scenario suppostamente maschile
della guerra. Direi che i loro ruoli di genere sono più fluidi.
E, almeno per ora, la questione si apre sempre di più".
Davis-Kimball sottolinea che molti archeologi russi avevano già
lavorato in altri siti kurgan nella stessa zona dagli anni 50,
ma ogni volta che trovavano per caso donne sepolte con spade e
pugnali, si astenevano da congetture interpretative oppure ritenevano
che le armi fossero li puramente per scopi rituali. Le gambe arcuate
e le punte di freccia consumate trovate nel sito di Pokrovka suggeriscono,
comunque, che la Xena della serie televisiva ha, in realtà, dei
veri predecessori.
Sarah Nelson, un’antropologa dell’università di Denver e esperta
in archeologia dell’est asiatico, espone la situazione più fortemente:
"Archeologi maschi stanno scavando da anni sepolture militari
di caste alte descrivendole come maschili ma, in effetti, sono
spesso femminili" dice, "questo è, piuttosto, il significato dei
ritrovamenti di Pokrovka: il patriarcato universale diventa, molto
ironicamente, il supremo mito maschile!".
Sfidando alcune delle nostre supposizioni più basilari circa la
storia dei generi nella cultura Occidentale, le scoperte di Davis-Kimball
danno una nuova spinta a interrogativi che hanno turbato a lungo
il suo campo. Se, come la maggioranza degli antropologi e archeologi
credono, le donne sono subordinate -anche se sottilmente- agli
uomini in ogni società attuale, come e perchè è sorto il patriarcato?
Gli uomini sono sempre stati il sesso più potente e dominante
nelle società umane o i documenti storici suggeriscono diversamente?
Non è un caso se questi interrogativi provochino disaggio negli
scienziati di oggi. Dedurre fatti difficili circa i rapporti tra
i sessi nelle società antiche in base a dei reperti ossei e a
dei cocci di ceramica è un’impresa rischiosa. Tuttavia, congetture
generiche riguardo le politiche sociali nelle culture antiche
hanno una lunga tradizione in archeologia, la cui influenza continua
a farsi sentire ancora oggi.
Tra le più diffuse nozioni scolastiche di fin de siècle c’era
la convinzione che nel lontano passato sia sorta da qualche parte
in Europa un’Età dell’Oro matriarcale. Sia Sir James Frazer in
Il Ramo d’Oro (1890) sia Robert Briffault in The Mothers (1927)
accennano ad un antico idillio dominato da femmine. Il filologo
svizzero Johann Jakob Bachofen (1815-1887) nella sua opera monumentale
Mutterrecht und Urreligion, pubblicata per la prima volta nel
1926, dichiarò di "diritto materno" l’origine della cultura. Lo
studio dell’arte funeraria romana di Bachofen, intrapresa nel
1840, lo ha convinto che la legge Romana in sè, quel pilastro
del pensiero patriarcale, conteneva elementi che potevano solo
pervenire da un distante passato di matriarcato, tra cui la sacrosanta
nozione di matrimonio ancora diffusa ai giorni d’oggi. Bachofen
elaborò una visione romantica della storia pre-patriarcale, ampiamente
dedotta da uno studio meticoloso sul mito.
Durante la prima metà del XX secolo, nel tentativo di accrescere
la reputazione scientifica della disciplina, gli archeologi abbandonarono
gradatamente la congettura basata sul mito per un regime più lucido
di osservazione verificabile empiricamente. Armati da mucchi di
statistiche su ottimali strategie di foraggio e di migrazioni
demografiche, i sostenitori della Nuova Archeologia (come venne
chiamato il movimento) si limitarono a prudenti, spassionate e
retoriche asserzioni circa la preistoria in nome della scienza.
Tuttavia, c’è stata un’archeologa che trovò poca utilità nel rigore
della propria disciplina, una donna senza pazienza per grafici,
statistiche e per lo stile accademico dei giornali di scuola.
Nella sua ampia portata e nelle grandi rivendicazioni sull’antico
matriarcato, il lavoro dell’archeologa lituana Marija Gimbutas
aveva più in comune con le libere congetture di Bachofen che con
la fredda scientificità dei suoi pari. Gimbutas, morta nel 1994,
fu docente di archeologia all’UCLA e una delle prime esperte in
culture neolitiche del sudest europeo.
Durante tutta la vita, la sua convinzione in una perduta Arcadia
femminile, sostenuta, secondo lei, da migliaia di manufatti ricuperati,
ha ottenuto solo un minimo appiglio nel ambiente universitario,
principalmente tra le studentesse femministe radicali come lei.
"E’ chiaro che puoi arrivare e delle conclusioni usando le statistiche"
ha detto Gimbutas nel 1987 difendendo il suo approccio audace,
"ma se non hai una tua visione personale, se non sei un poeta
o un’artista...allora sei solo un tecnico". Nel 1974 publicò Gods
and Godesses of Old Europe (il titolo originale è The Godesses
and Gods of Old Europe- Le Dee e gli Dei dell’Europa Antica -
ma, nel 1974, non gli fu permesso di scrivere Godesses prima di
Gods) in cui espose la sua teoria: "L’Europa Antica è stata abitata
da una cultura che fu matrilocale (consuetudine per cui le coppie
sposate vivono con il gruppo della madre della sposa) e, probabilmente,
matrilineare (vale a dire, in cui discendenza ed eredità si tramandano
per via materna), agricola e sedentaria, egualitaria e pacifica".
Questa forma sociale di paradiso terrestre fu completamente distrutta
in torno al IV millenio a.C. da nomadi Indoeuropei violenti, chiamati
da Gimbutas popolo dei kurgans per analogia con i tumuli sepolcrali
(apparentemente tutto ciò che rimane di loro). Ironicamente, questi
kurgans appartenevano alla stessa cultura delle donne guerriere
di Davis-Kimball benché Gimbutas li vedesse come villani patriarcali.
The Godesses and Gods of Old Europe contiene un gran numero di
lastre fotografiche che Gimbutas cita mentre guida il lettore
attraverso una summa di alcuni dei 30 mila manufatti di un’Europa
Neolitica da molto scomparsa: misteriose figure tozze di "dee"
con maschere di uccelli o avvolte in spire di serpenti, vasi dipinti
con api, farfalle, cani e delicate pietre a forma di fungo. "Questi
simboli sono gli unici veri accessi a questa stimolante, geocentrica
e riverente visione della vita", ha scritto. Prendendo spunto
da Bachofen, sostiene che l’Europa antica avesse la propria iconografia
e civiltà ispirata al femminile molto antecedente a qualsiasi
influenza dall’Asia o Egitto.
In Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa
neolitica, Gimbutas ha aggiunto saggi alle sue lastre fotografiche
colorate. In uno dei saggi intitolato The World View of the Culture
of the Goddess (la visione del mondo sulla cultura della dea)
dispiega una visione quasi atlantidea del Vecchio Ordine Europeo.
"Gli Antichi Europei non cercarono mai di vivere in posti scomodi,
ad esempio su colli alti e scoscesi, come fecero in seguito gli
Indoeuropei, che costruirono cittadelle in luoghi inaccessibili,
circondando spesso i loro stanziamenti collinari con ciclopiche
mura in pietra", scrive Gimbutas. "Gli insediamenti degli Antichi
Europei venivano scelti in base alla bellezza della posizione,
alla bontà di acqua e terreno, e alla disponibilità di pascoli
per gli animali". Inspirati dall’influenza delicata della dea,
vivevano in "case confortevoli", e in "un’epoca libera da conflitti".
Quest’epoca gloriosa finì improvvisamente e violentemente con
l’arrivo dei saccheggiatori kurgan. Secondo lei, le loro invasioni
portarono in Europa una lingua proto-indoeuropea, ma anche flageli
allora sconosciuti come la guerra e la tecnologia militare e,
peggio ancora, il patriarcato. Per la prima volta in tombe europee,
accanto a uno scheletro maschile eccezionalmente alto, o con le
ossa grosse, si trovano gli scheletri di donne sacrificate, mogli,
concubine o schiave del defunto. Questa pratica, che la Gimbutas
definisce sati (termine che in India indica l’abbruciamento delle
vedove, pratica che in questo paese continuò fino al XX secolo),
fu sicuramente introdotta in Europa dagli indoeuropei Kurgan.
"La frequenza di queste sepolture", scrive Gimbutas, "esclude
la possibilità che si tratti di decessi coincidenti".
Da qui in poi fu tutto un declino. La storia rivisionista di Gimbutas
liquida la Grecia Antica come una cultura di immagini "assurde",
e l’Alto Medio Evo come un inferno spietato che "si può vantare
della più grossa creatività nella scoperta di strumenti e tecniche
di tortura". Quest’ultimo periodo sfortunato fu solo "l’inizio
delle pericolose convulsioni della legge androcratica che, 460
anni più tardi, culmina con la tortura e l’assassinio di 50 milioni
di donne, bambini e uomini, nell’Europa dell’Est di Stalin", dichiara.
Dal suo punto di vista, l’Età della Pietra fu, contrariamente,
un’era di irreprensibile devozione femminile. La teoria di Gimbutas
sulla dea ha goduto di maggiore popolarità tra le femministe teoriche
degli studi umanistici che tra la gente del suo stesso campo di
studio.
Nel suo autorevole e polemico Il Calice e la Spada (Pratiche Editrice,
1996), la storica culturale Riane Eisler, presuppone l’esistenza
di una antica cultura "gilanica" che si distingueva per l’eguaglianza
di ruoli tra donne e uomini. Questo periodo segnato da grandi
risultati culturali, fu rimpiazzato circa 5000 anni fa da un funesto
regime "androcratico", un’evento che Eisler attribuisce, prendendo
spunto da Gimbutas, alla violenta invazione dei kurgans: nel cuore
del sistema degli invasori è stato riconosciuto un valore più
grande al potere di togliere la vita che a quello di darla. Questo
fu il potere simboleggiato dalla Spada "maschile" illustrato dalle
gravure trovate nelle prime caverne kurgan mostrando questi invasori
Indoeuropei letteralmente venerati. Dato che, nella loro società
di dominio controllata da dei - e uomini - della guerra, questo
era il potere
supremo.
Respinta dalla storica Elizabeth Fox-Genovese (della Emory University)
nel The New York Times come poco più che "assurdità", questa vivace
storia apocalittica è stata, tuttavia, assorbita da altre studiose
femministe, benché con più sobrietà. Per esempio, in Paradoxes
of Gender (Paradossi di Genere, Yale 1994) Judith Lober, sociologa
e docente nel Brooklyn College, presuppone migliaia di anni di
pacifiche orticulture non-patriarcali nel sudovest europeo seguiti
da uno scenario tenebroso di oppressione, con le popolazioni egualitarie
di un tempo trasformate da uomini bellicosi in una vasta classe
sfruttata e maltrattata di "lavoratori, partners sessuali, balie,
ecc". Ispirata da Gimbutas, Lober confida sia nei manufatti che
nelle statuette neolitiche della dea per giustificare le sue rivendicazioni
di una società originaria non patriarcale. "Penso che questi idoli
di dee abbiano un gran significato. Ad un certo punto, le donne
hanno indubbiamente perso il loro status, una perdita che è tuttora
con noi", spiega Lober. Sottolinea, comunque, che le donne furono
probabilmente venerate in queste culture primitive, dovuto al
loro ruolo di allevatrici di bambini e di produtrici di alimento
(approva la teoria che le donne abbiano inventato sia la birra
che il pane), ma indipendentemente da un qualsiasi sistema monolitico
chiamato matriarcato.
Nonostante molti archeologi contemporanei appoggino le conclusioni
di Lober circa il ruolo delle donne nelle società primitive, la
maggior parte si guarda dal sostenere che le invasioni dei kurgans
di Gimbutas fossero la causa del cataclisma che ha distrutto l’Ordine
Antico. Nel suo campo, l’influenza di Gimbutas è durata poco,
limitata ad un pugno di scienziati ed un pugno di siti nel est
europeo, inclusa la città Neolitica di Çatal Hûyûk in Anatolia
in Turchia, e il palazzo Minoan a Knossos. Gran parte degli scienziati
rimase profondamente scettica. "Gimbutas ha girato ovunque facendo
ogni tipo di affermazione non dimostrabile", dice Brian Fagan,
un’archeologo di UC-Santa Barbara, echeggiando una critica frequente
al lavoro della Lituana. "Quando si tratta delle strutture sociali
di culture preistoriche, abbiamo a che fare con beni immateriali",
afferma Mary Lefkowitz, docente Classico al Wellesley College
e un’esperta in storia delle donne nella cultura Greca Antica.
"Il patriarcato non è una congiura a cui puoi attribuire date
e generalizzazioni", dice. "Il tomo di storia di Gimbutas è solo
quello: una storia. Non puoi dire che ‘il patriarcato ha portato
l’Età del Ferro e l’oppressione’ ".
Per i suoi critici, l’interpretazione di Gimbutas delle testimonianze
raccolte da lei - le migliaia di manufatti documentati nei suoi
libri in lastre fotografiche - è assai sospetta. Nel The faces
of the Godess (Osford, 1997), un diligente e esauriente resoconto
di divinità femminili nelle culture primitive, Lot Motz, esperta
in mitologia germanica, denota che, nelle culture primitive europee,
immagini di uomini e animali sono tanto prolifiche quanto le raffigurazioni
della dea. "É chiaro che non c’era l’introduzione di dei guerrieri
né di valori militari", afferma severamente, "nessuna imposizione
di un sistema patriarcale e nessuna mortificazione della dea".
Laurent Talalay del museo Kelsey di archeologia a Ann Arbor nel
Michigan rivendica che il lavoro di Gimbutas sia stato sfigurato
da un pregiudizio di sesso come quello dei suoi pari Russi negli
anni 50. Molte delle figure di "dee" del Neolitico, dice Talalay,
erano neutre o ermafrodite, esibendo sia seni femminili che genitali
maschili. Sfortunatamente, le statue definitivamente femminili
sono decorate più elaboratamente, e per questo sono state oggetto
di un’attenzione sproporzionata da parte degli studiosi. "Non
penso, di certo, che possiamo congetturare sulle strutture sociali
dell’Europa Antica Neolitica in base a delle statuette ambigue",
afferma, "la nozione cospiratrice del culto della dea seguita
più tardi dall’affascinante dominio ed espediente politico maschile,
non è affatto dimostrata dai documenti archeologici".
Per molti studiosi, le donne guerriere di Pokrovka sono l’ultimo
chiodo nella bara di Gimbutas, mettendo permanentemente a tacere
la sua teoria dei maschi sacheggiatori. "Abbiamo questo mito circa
i così detti nomadi kurgan, che fossero stati dei gerarchici guerrafondai
e così via", dice Claudia Chang, un’archeologa del Sweet Briar
College che lavora nelle sepolture kurgan nell’Asia Centrale.
"Di fatto, come dimostrano questi recenti scavi, il loro sistema
di consanguineità ha spesso favorito le donne e gli consentiva
l’ingresso nell’elite sociale e militare". Ovviamente, una volta
che la teoria dell’invasione viene eliminata, rimane sempre la
domanda di come il patriarcato si sia propagato. É improbabile
che la risposta sia semplice.
I tumoli sepolcrali di Pokrovka sono datati dal 500 a.C. al 200
a.d., facendoli così, approssimativamente, contemporenei ai giorni
gloriosi del maschio dominatore di Atene. "A quei tempi", dice
Lefkowitz, "Atene era indiscutibilmente patriarcale, una cultura
in cui gli uomini possedevano effettivamente le donne e controllavano
i loro beni". In questo caso, spiega, il patriarcato era probabilmente
un risultato dell’ossessione degli Ateniesi per la purezza della
razza e di mantenere le ricchezze della città nelle mani dei suoi
cittadini. "Era la loro ricerca di pura cittadinanza", dice Lefkowitz,
"che li ha ossessionati circa la stirpe patrilineare. Per controllarla
dovettero controllare direttamente le donne. Dovevano sapere chi
erano i padri". Questo è un quadro molto diverso dei ruoli sociali
delle donne rispetto a quello dedotto da Davis-Kimball con i suoi
kurgan di Pokrovka - una società in cui le donne e non solo gli
uomini, avessero potere militare e sociale. L’esistenza simultanea
di guerriere nomadi e di soggiogate casalinghe ateniesi, suggerisce
che, 2000 anni fa, i rapporti tra i sessi variavano enormemente
da una popolazione all’altra. Così, quando e come il patriarcato
diventò la norma universale?
Tra le alternative più prometenti allo scenario apocalittico proposto
da Gimbutas è un modello gradualista, compreso nel lavoro dell’antropologa
Sherry Otner e di altri, che presuppone una lenta e inevitabile
transizione dal egualitarismo preistorico al dominio maschile
dell’epoca moderna. Nel 1972, Otner pubblicò un saggio in Femminist
Studies intitolato "Is Female to Male as Nature is to Culture?"
(la Femmina sta per il Maschio come la Natura sta per la Cultura?).
Fortemente influenzato da Simone de Beauvoir e spesso citato come
l’inizio dell’antropologia femminista negli USA, il saggio di
Otner dichiara categoricamente che "matriarcato apparte, la ricerca
di una cultura genuina si è rivelata inutile". Tuttavia, teorizzò
Otner, ci deve essere una spiegazione alla subordinazione delle
donne agli uomini, situazione che era universale senza riguardo
per il relativo e variabile potere femminile. Nonostante desiderasse
trascurare qualsiasi ottima spiegazione sul determinismo biologico,
Otner concluse che l’ubiquità del dominio maschile avesse le proprie
radici nei fatti di riproduzione sessuale.
Quasi ovunque, le donne vengono associate alla natura per causa
del loro ruolo nella procreazione. (Le donne, come dice Beauvoir,
sono biologicamente più assoggettate alla specie). Inoltre, dibatte
Otner, tutte le società architettano rituali che mirano alla manipolazione
della natura nel interesse della cultura. Nozione di purezza e
impurità, evidenti in tabù legati alle mestruazioni, creano un’opposizione
di genere tra natura (donne sporche) e cultura (uomini puliti)
essendo la dimostrazione di un potente impulso collettivo per
controllare la minaccia della natura. Fisicamente non ostacolati
dal loro ruolo nella riproduzione e, quindi, liberi da ogni associazione
simbolica con la natura, agli uomini è stato assegnato un valore
antagonista, vale a dire, quello della cultura stessa, il cui
dovere è di riaffermare quel controllo. In un saggio pubblicato
nel suo libro Making Gender (Beacon Press, 1996), Otner elabora:
"Gli uomini emergono come ‘leaders’ e come figure autoritarie;
entrambi donne e uomini vis-à-vis, come scopo di attrarsi in una
varietà di pratiche di cui solo alcune sono affermate nel potere,
incluso il commercio, scambi, reti di parentela, partecipazione
rituale, risoluzione di dispute e così via. Ciò è, il dominio
maschile non sembra essere effettivamente sorto da qualche aggressivo
"desiderio di potere", ma dal fatto che (come Simone de Beauvoir
inizialmente suggerì nel 1949) le responsabilità domestiche maschili
possono essere interpretate più episodiche rispetto a quelle delle
donne, e sono più liberi di viaggiare, di congregarsi, di esporsi,
ecc., e quindi di fare il lavoro della "cultura". Il saggio di
Otner descrive un inesorabile progresso dal fatto biologico al
simbolo, agli steriotipi di genere che trovano diffusa approvazione
ai giorni nostri. Il patriarcato, dice lei, "è sorto come una
consequenza non intenzionale di disposizioni che erano, in origine,
puramente funzionali e di espediente. La sua demonizzazione come
parte integrante delle politiche femministe contemporanee, sfortunatamente
servono solo a confondere la questione". Molti antropologi, incluse
quelle femministe, si innamorarono del pensiero di Otner; il suo
lavoro ha goduto di un’influenza considerevole nel campo.
Meg Conkey, un’antropologa del Berkley, dice: "pensiamo ora al
patriarcato come un prodotto consequente al sovvertimento tecnologico".
Una delle studiose che ha seguito il lavoro di Otner fu Elizabeth
Barber, docente di archeologia e linguistica all’Occidental College
di Los Angeles. Concentrandosi in una singola tecnologia (produzione
tessile) nelle culture antiche, Barber ha usato un modello gradualista
per tracciare i ruoli nell’evoluzione dei generi nelle società
umane primitive. Nel suo Women’s Work, the First 20,000 Years
(Norton, 1994), libro tollerante e magnificamente elaborato, Barber
usa reperti tessili per ricreare la vita, spesso non registrata,
delle donne nelle società antiche comunemente descritte come patriarcali.
Barber conclude che due condizioni fondamentali sono necessarie
per fare emergere il patriarcato. In primo luogo, c’è il commercio
di metalli, un’attività che potrebbe essere condotta e monopolizzata
più facilmente dagli uomini, visto che le donne, gravate dal peso
di neonati e bambini, non potevano viaggiare per lunghe distanze.
In secondo luogo, c’è una "rivoluzione di prodoti secondari" in
torno al 4000 a.C., nella quale gli animali che venivano tradizionalmente
cresciuti per il consumo, furono tenuti vivi e sfruttati per i
loro prodoti secondari come il latte, la lana, e per il traino.
Di consequenza, col miglioramento dell’alimentazione e del vestiario,
fu possibile l’esistenza di campi di coltivazione in larga scala.
Ripetendo Otner, Barber vede la divisione del lavoro e di genere
come "un male inevitabile una volta che si sono lasciati indietro
i mezzi di sussistenza agricola". Aggiunge: "Il modello comunitario
non gerarchico ha solo funzionato in società piccole e relativamente
povere dell’Età della Pietra. Non appena le persone vogliono e
necessitano di comodità che non possono far crescere nel cortile
di casa, questo modello smette irrevocabilmente di funzionare.
Nicola di Cosmo, una storica dell’est asiatico a Havard, pensa
che Barber sia sulla buona strada. "Le divisioni di genere nel
lavoro erano, probabilmente, efficienti e, va da sè, sono state
adottate", afferma. "La guerra sorge da una competizione per le
risorse appena incominciano ad espandersi i network di mercato,
e non per un’aggressività innata dei maschi".
Secondo i sostenitori della scuola gradualista, il patriarcato
non è tanto una cospirazione maschile per mantenere sotto le donne
quanto un prodotto necessario alle società, in cui il progresso
dipende, sempre di più, dalla mobilità e dalla forza bruta. Ragazze
adolescenti e giovani madri erano semplicemente delle candidate
improponibili per sollevare pesi nella costruzione di un’infrastuttura.
Malgrado il suo tenore sobrio, il modello gradualista è ancora
un’ipotesi che funziona, un modello che sembra plausibile ma che
la documentazione storica deve ancora verificare. Infatti, sarà
più facile di verificare la teoria gradualista nel futuro piuttosto
che nel passato. Dopo tutto, se le rivoluzioni tecnologiche, una
volta, avevano l’inevitabile ascendente maschile (e quindi patriarcale)
si presume che, quando le macchine sostituiranno completamente
le persone, come discutibilmente hanno iniziato a fare oggi, il
patriarcato scomparirà ugualmente. In effetti, questo è esattamente
ciò che Otner, come altri, ha predetto. "Così come la rivoluzione
tecnologica ha creato il patriarcato, la tecnologia ora ha il
potere di cancellarlo poichè evita la forza fisica ed equilibra
i sessi".
Mentre il futuro è certo di generare dati sufficienti per un’analisi
ben informata, i 7000 anni, che si situano tra l’emergere dei
primi insediamenti neolitici in Turchia e l’urbanizzazione patriarcale
nell’Atene Classica, rimangono, con molta frustrazione, nell’oscurità.
Saranno le donne kurgan di Davis-Kimball a fare luce su questo
capitolo buio nella storia dell’umanità?
Baber dice che "i ritrovamenti di Pokrovka stanno per cambiare
l’immagine dei sessi nella preistoria". Di Cosmo concorda: "L’ordine
sociale nelle culture nomadi deve essere stato molto più flessibile
di quanto non sia diventato rispetto ai ruoli di genere. Chissà.
Magari le Amazzoni hanno una loro realtà storica, dopo tutto.
E’ sicuramente interessante notare che le descrizioni etnografiche
di Erodoto su questa regione sono state ampiamente riconfermate
dall’archeologia. E’ un interrogativo affascinante capire se avesse
ragione anche sulle Amazzoni". Per quanto riguarda Davis-Kimball,
preferisce continuare la sua ricerca "Gimbutiana" sul matriarcato
e sulle Amazzoni, pur di non abbracciare i nuovi e modesti paradigmi
sostenuti dalla grande maggioranza dei suoi pari.
Durante l’estate, Davis-Kimball, ha condotto degli scavi molto
estesi nella provincia di Xinjian in Cina. Lì ha trovato quello
che, con convinzione, definisce "mummie di sacerdotesse" molto
ben conservate, che fanno parte del gruppo del sito delle sepolture
enigmatiche del Caucaso e che crede siano residui di una cultura
antichissima, datata circa 2000 a.C.. Il significato di questa
cultura euroasiatica (alla quale non si è ancora attribuito un
nome) è la prova delle potenti posizioni sociali occupate dalle
donne: sembra che fossero sciamane e sacerdotesse, forse anche
guerriere. Alcuni dei loro utensili di culto, come specchi, mazze,
e come i tatuaggi spiraliformi ancora visibili nelle loro face
e piedi mummificati, sono apparentemente simili a quelli scoperti
a Pokrovka. Questa antica cultura euroasiatica avrà influenzato
successivamente i nomadi con il loro prestigioso esempio femminile.
In un lungo viaggio attraverso i musei dell’Asia Centrale, Davis-Kimball
afferma di avere trovato "ovunque" prove dell’esistenza di donne
guerriere e di donne sacerdotesse. In luglio e agosto, però, durante
gli scavi in Moldavia nei siti particolarmente amati da Gimbutas,
Davis-Kimball concluse che le prove di una cultura della dea in
quel luogo fossero deboli. Decise che la ricerca di un antico
matriarcato doveva prendere una strada diversa.
"Penso che Gimbutas possa essersi sbagliata circa la cultura della
dea", dice Davis-Kimball, "ma avrà avuto ragione circa una fondamentale,
integra tradizione di potere di culto e di saggezza femminile,
che è stata soffocata dal Medioevo in poi e, soprattutto, dalla
Rivoluzione Industriale. "Trovo prove di questo in tutta l’Asia".
Un amico fu perfino curato ad Ufa Bya da un mal di schiena da
una donna sciamana! La questione del matriarcato non deve essere
accantonata in nessun modo. Deve essere una domanda aperta perchè
l’archeologia fino adesso è stata sempre così incline a non investigare
sul ruolo delle donne nella storia. Gli uomini, dopo tutto, sono
sempre stati timorosi delle donne con potere".
Chissà! Forse la tribù di Penthesilea ci riserva ancora altre
sorprese nascoste nelle faretre.