I 
                      mille colori del Messico,
                      Sabato 13 ottobre
                     Tra 
                      la sera del venerdì e metà della giornata 
                      del sabato, sul palco sono intervenute venticinque delegazioni 
                      delle numerose etnie indigene che popolano il Messico. Il 
                      rischio di questo rendiconto è quello di minimizzare 
                      o perdersi eccessivamente nelle vastità dei popoli, 
                      delle culture, dei costumi, delle sopraffazioni, delle violenze 
                      subite e denunciate. Ad ascoltarli, invece di provare stanchezza 
                      o noia, ci si rende conto dell'arcobaleno meraviglioso della 
                      ricchezza dei popoli e della vita, quelle sfumature e quei 
                      colori che in occidente sono stati già compressi 
                      e standardizzati nel formato del consumatore neoliberista.
Tra 
                      la sera del venerdì e metà della giornata 
                      del sabato, sul palco sono intervenute venticinque delegazioni 
                      delle numerose etnie indigene che popolano il Messico. Il 
                      rischio di questo rendiconto è quello di minimizzare 
                      o perdersi eccessivamente nelle vastità dei popoli, 
                      delle culture, dei costumi, delle sopraffazioni, delle violenze 
                      subite e denunciate. Ad ascoltarli, invece di provare stanchezza 
                      o noia, ci si rende conto dell'arcobaleno meraviglioso della 
                      ricchezza dei popoli e della vita, quelle sfumature e quei 
                      colori che in occidente sono stati già compressi 
                      e standardizzati nel formato del consumatore neoliberista.
                    Proviamo 
                      quindi a citare alcune delle testimonianze a nostro avviso 
                      più rilevanti o indicative, con la speranza di non 
                      equivocarci eccessivamente nella scrittura dei nomi delle 
                      distinte popolazioni. In caso di inesattezze nella dicitura, 
                      invitiamo il lettore a segnarlacele e provvederemo a corregerle, 
                      dato che per l'alto numero di testimonianze non è 
                      stato possibile verificare ogni citazione.
                    Gran 
                      parte delle testimonianze e delle storie dei popoli nativi 
                      del Messico sono state fatte in tre lingue, quella originaria, 
                      poi in spagnolo e infine tradotte in inglese per i delegati 
                      nordamericani. 
                    Apre 
                      i battenti la tribù ospitante, quella degli Yaqui. 
                      Gli Otto Popoli di questa terra arida e calda rendono omaggio 
                      a tutti quei caduti nelle numerose battaglie che hanno reso 
                      possibile l'esistenza, oggi, di un territorio Yaqui e la 
                      perseveranza di una cultura autoctona. Gli yaquis sono un 
                      popolo particolarmente combattivo e fiero e spendono poche 
                      parole per il pubblico, lo sforzo di questo evento parla 
                      da sè. Sottolineano particolarmente l'assedio mediatico 
                      a cui sono da sempre sottoposti, dipinti come eterni cattivi, 
                      da usanze irriducibili; però chiosano: "Siamo 
                      forti. Non vinceranno mai i capitalisti."
                    Un 
                      lungo applauso accoglie la delegazione del popolo Zapoteco 
                      di Oaxaca, del CIPO-RFM (Consiglio Indigeno Popolare Oaxachegno 
                      - Ricardo Flores Magon). Questo gruppo ha fatto parte della 
                      celebratissima APPO, è attualmente membro del VOCAL 
                      (Voci di Oaxaca Costruendo Autonomia e Libertà) ed 
                      è aderente all'Altra Campagna. Della lunga lista 
                      di detenenuti e delle tormentate vicende della lotta nella 
                      comune di Oaxaca, vale la pena citare i 6 prigionieri della 
                      comunità di San Isidro, arrestati per la difesa del 
                      proprio bosco e David Venegas, consigliere delle barricate 
                      nella APPO, ancora imprigionato. Questo consigliere e il 
                      CIPO, dicono, si sono battuti perché la APPO non 
                      diventasse una piattaforma elettorale e ammettono di leggere 
                      con piacere la grande astensione popolare che c'è 
                      stata nelle elezioni regionali dell'agosto 2007. Un ultimo 
                      accenno alla devastazione del Piano Puebla Panama, un corridoio 
                      di infrastrutture logistiche per aprire le rotte commerciali 
                      alle multinazionali e che minaccia seriamente tutte le comunità 
                      indigene di Oaxaca e, in generale, del centroamerica.
                    Ci 
                      sono alcuni delegati che, col loro spagnolo semplice, umilmente 
                      rappresentano la gente del campo e, alieni alla palestra 
                      della retorica politica, portano sul palco le proprie disgrazie, 
                      le loro piccole ma significative storie di repressione e 
                      resistenza. 
                     E' 
                      l'esempio di una signora Chichimeca (stato di Guanajuato), 
                      madre di dodici figli, che racconta dello sgombero subito 
                      dalla sua comunità all'apparire di un fantomatico 
                      latifondista: "Abbiamo i nostri anziani, di 70, 
                      80 anni e nessuno di loro si ricorda di aver mai visto un 
                      padrone di queste terre".
E' 
                      l'esempio di una signora Chichimeca (stato di Guanajuato), 
                      madre di dodici figli, che racconta dello sgombero subito 
                      dalla sua comunità all'apparire di un fantomatico 
                      latifondista: "Abbiamo i nostri anziani, di 70, 
                      80 anni e nessuno di loro si ricorda di aver mai visto un 
                      padrone di queste terre". 
                      O è il caso degli ñañhú 
                      di San Pedro Acapulco che resistono alle imprese immobiliari 
                      che vogliono cementificare il loro bosco. 
                      O una vicenda emblematica che ci raccontano alcuni Zoques 
                      di Benito Juarez di Chimalapa, al confine col Chiapas che 
                      da 30 anni subiscono invasioni e intimidazioni da parte 
                      dei latifondisti e dei ricchi bovari dello stato confinante. 
                      
                      O ancora un delegato dei Mazahauas che si dilunga 
                      nell'estenuante trafila burocratica che ha portato avanti 
                      come portavoce del villaggio, affinché le loro terre 
                      ejidali (comunitarie, per assegnazione di decreto rivoluzionario) 
                      non fossero lottizzate con l'accorpamento a un altro municipio. 
                      Trafila ancora pendente e si chiede e ci chiede con un volto 
                      sofferto: "Fin dove giungeranno i loro abusi? Qual'è 
                      la soluzione? Che facciamo? Come lo facciamo, compagni?".
                      O anche gli Huicatecos che ci informano che il governo 
                      gli ha sottratto 3500 ettari di terra per consegnarla in 
                      usufrutto fino al 2050 alle compagnie estrattive, "dimenticandosi" 
                      di consultarli. 
                      Oppure i Mixtecos, il cui nome significa "uomini 
                      della pioggia e delle nubi" e sta indicarli come abitanti 
                      delle zone alte e montagnose dello stato di Oaxaca. Raccontano 
                      di una comunità svuotata dalla migrazione e dilaniata 
                      dal conflitto agragrio imposto, anche a loro, dall lottizzazione 
                      dei terreni collettivi, che ha portato a una faida omicida 
                      nella comunità stessa.
                    Il 
                      popolo Coca, presente nello stato di Jalisco, è 
                      rappresentato invece da una delegazione inviata dalla autorità 
                      tradizionali delle loro comunità. Il messaggio che 
                      portano, come tutti, è un messaggio di spoliazione 
                      forzata e resistenza. Loro sono i custodi di 3600 ettari 
                      di boschi e fiumi, conservati respigendo meticolasamente, 
                      da secoli, ogni estraneo. La loro terra è formalmente 
                      difesa da due titoli, uno datato addirittura 1534 e l'altro 
                      del 1971, ma questo non ha impedito a un ricco possidente 
                      di invadere e rubare 10 ettari di terra. Per ora si stanno 
                      muovendo, da 8 anni, per vie legali anche perché 
                      il problema più grosso resta il governo stesso. Rivuole 
                      le terre dei cocas per impossessarsi di un'isola nel mezzo 
                      di un lago da sfruttare turisticamente. L'isola per gli 
                      indigeni ha un valore storico particolare, perché 
                      lì resistettero agli spagnoli e si nascosero quegli 
                      insorti che poi custodirono la terra ereditata dagli attuali 
                      cocas.
                    Parlano 
                      i Choles del Chiapas. Sono due delegati di quei 2600 
                      indigeni che dopo aver recuperato nel 1994 alcune terre 
                      con l'insurrezione dell'EZLN, furono "desplazados" 
                      dalla guerra sporca dei paramilitari degli anni '95-'98, 
                      che ha mietuto 254 morti. La strategia controinsurrezionale 
                      paramilitare, dicono, è uno strumento per imporre 
                      un conflitto fratricida e permettere al governo o di lavarsene 
                      le mani o di intervenire militarmente, dipendendo ciò 
                      che più le conviene per continuare a rubare terre 
                      e dare vita ai progetti di privatizzazione. Parlano dello 
                      sgombero, avvenuto ad agosto 2007, delle tre comunità 
                      nei Montes Azules, quella zona che il governo ha voluto 
                      trasformare in Riserva Protetta al fine di cacciare come 
                      coloni invasori tutte quelle comunità, essenzialmente 
                      zapatiste, che vi si sono insediate negli anni. Parlano 
                      inoltre della divisione delle comunità attraverso 
                      la riduzione delle terre lavorate collettivamente in piccole 
                      proprietà private che a loro volta posso essere fagocitate 
                      più facilmente dall'espansionismo latifondista delle 
                      multi. Dicono che sono contenti, che oggi siamo tanti e 
                      domani saremo il doppio e che, dopo l'esperienza terribile 
                      della migrazione forzata per mano della guerra sporca, non 
                      hanno più paura dell'esercito e della polizia.
                     La 
                      parola passa ad un altro popolo "famoso", quello 
                      Nahua, i contandini di Atenco, di Xochimilco e dello 
                      Stato del Messico e di quello del Michiocan. Una veneranda 
                      signora, addobata con collane, bastone del comando, ghirlanda 
                      infiorata da curandera, grida la sua indignazione: 
                      "Dobbiamo parlare la nostra lingua, dobbiamo difenderla! 
                      E mi riferisco alla tradizione orale, a quella parlata, 
                      non quella che alcuni studiosi dicono di scrivere. Sappiamo 
                      la carta che valore ha, soggiace ai capricci dei potenti..."
La 
                      parola passa ad un altro popolo "famoso", quello 
                      Nahua, i contandini di Atenco, di Xochimilco e dello 
                      Stato del Messico e di quello del Michiocan. Una veneranda 
                      signora, addobata con collane, bastone del comando, ghirlanda 
                      infiorata da curandera, grida la sua indignazione: 
                      "Dobbiamo parlare la nostra lingua, dobbiamo difenderla! 
                      E mi riferisco alla tradizione orale, a quella parlata, 
                      non quella che alcuni studiosi dicono di scrivere. Sappiamo 
                      la carta che valore ha, soggiace ai capricci dei potenti..."
                      La compagna d'Atenco, col machete in pugno, ricorda che 
                      solo la lotta paga e che l'aereoporto di Fox, alla fine, 
                      è rimasto solo un sogno nella scrivania degli ingegneri 
                      del Capitale. Lascia un omaggio all'EZLN che hanno saputo 
                      ribaltare la storia già scritta dai potenti, permettendo 
                      un orizzonte più ampio in cui ognuno/a può 
                      disegnare il proprio futuro.
                      I nahuas del Michiocan respingono costantemente tutte le 
                      proposte del governo e delle sue segreterie per regolarizzare 
                      i territori e le spiaggie; sanno già, dicono, che 
                      sono tutte trappole per fregarci domani legalmente. Infine 
                      ricordano che un popolo nauha già è stato 
                      sterminato, quello azteca e che questo non dovrà 
                      più ripetersi. Conclude uno di loro: "S'imposero 
                      e rubarono le nostre terre e le nostre anime con la spada 
                      e la croce. Prima con la religione cattolica, mentre ora 
                      si insinua quella evangelica. Mi permetto di dire, allora, 
                      che la religione cattolica è funzionale al capitalismo 
                      e che dunque, compagni, al YA BASTA politico dobbiamo accompagnare 
                      il YA BASTA religioso ed essere liberi di amare i boschi, 
                      le montagne, i fiumi, gli animali e i nostri simili".
                    Anche 
                      i Purepechas, del Michiocan, parlano di terra rubate 
                      che iniziarono a recuperare dal 1979. Si dicono particolarmente 
                      preoccupati che le proprie tradizioni siano state convertite 
                      in mercanzia per turisti e, parlando della loro terra di 
                      laghi e vulcani, chiariscono i simboli della loro bandiera: 
                      azzurro per i laghi, verde per le montagne, il giallo degli 
                      undici popoli che sono, il viola che è la culla e 
                      il germoglio del mais; al centro dei quattro quadrati colorati, 
                      un pugno rappresenta l'unione, le 4 frecce i punti cardinali 
                      e la difesa del territorio e, infine, il fuoco che divampa 
                      nella lotta.
                     Parlano 
                      tre signore del popolo Cucapà, ridotto a 319 
                      individui e anche con forti divisioni interne. Questo popolo 
                      è quasi arrivato al capolinea dell'estinzione, vivendo 
                      di caccia e pesca a ridosso del Rio Colorado in Bassa California. 
                      Si stanno estinguendo, oltre che per lo sterminio manu 
                      militari subito come ogni popolo, dall'emissione di 
                      un decreto governativo del '93 che ha trasformato le loro 
                      acque in zona protetta, impededogli accanitamente di pescare. 
                      Lo stesso decreto che tranquillamente calpesta l'incomparabile 
                      concorrenza dei peschieri delle multinazionali. Il governo 
                      ha proposto al popolo Cucapà di cambiare attività 
                      produttiva, con l'intento di cancellare la loro cultura 
                      tradizionale e allontanarli dalle coste dove è prevista 
                      l'Escalera Nautica, cioè una serie di attracchi per 
                      imbarcazione da 
                      diporto nel mar di Cortes. Ringraziano l'EZLN per aver dato 
                      vita a un accampamento solidale nella stagione di pesca 
                      del 2007, allentando la pressione delle forze nemiche e 
                      permettendo l'approviggionamento della comunità e 
                      la diffusione del loro caso.
Parlano 
                      tre signore del popolo Cucapà, ridotto a 319 
                      individui e anche con forti divisioni interne. Questo popolo 
                      è quasi arrivato al capolinea dell'estinzione, vivendo 
                      di caccia e pesca a ridosso del Rio Colorado in Bassa California. 
                      Si stanno estinguendo, oltre che per lo sterminio manu 
                      militari subito come ogni popolo, dall'emissione di 
                      un decreto governativo del '93 che ha trasformato le loro 
                      acque in zona protetta, impededogli accanitamente di pescare. 
                      Lo stesso decreto che tranquillamente calpesta l'incomparabile 
                      concorrenza dei peschieri delle multinazionali. Il governo 
                      ha proposto al popolo Cucapà di cambiare attività 
                      produttiva, con l'intento di cancellare la loro cultura 
                      tradizionale e allontanarli dalle coste dove è prevista 
                      l'Escalera Nautica, cioè una serie di attracchi per 
                      imbarcazione da 
                      diporto nel mar di Cortes. Ringraziano l'EZLN per aver dato 
                      vita a un accampamento solidale nella stagione di pesca 
                      del 2007, allentando la pressione delle forze nemiche e 
                      permettendo l'approviggionamento della comunità e 
                      la diffusione del loro caso.
                    Un 
                      caso altrettento drammatico, di un popolo tanto antico quanto 
                      dimenticato, è quello dei Kiliwa, sempre della 
                      Bassa California. Sono sopravvissute soltanto 190 famiglie, 
                      che vivono della raccolta e della lavorazione di una palma, 
                      la stessa che fa gola a un'impresa nordamericana che ne 
                      ricava uno spumeggiante che vende alla Coca Cola. Di questa 
                      tribù, rimangono in vita solo cinque persone che 
                      parlano la lingua nativa e il delegato, con una certa mestizia, 
                      ci confida che sono coscienti che se loro spariscono per 
                      il governo è nient'altro che un problema in meno.
                    Parole 
                      speciali merita il momento dedicato al popolo Triqui. 
                      Nei minuti concessi ai vari rappresentanti si condensano 
                      emozioni forti, quelle che per decenni hanno dilaniato con 
                      diaspore, assassinii, sequestri, faide politiche, questo 
                      nutrito e combattivo popolo. I delegati vengono dai quattro 
                      angoli del Messico (Sonora, Città del Messico, Bassa 
                      California e Oaxaca), dove si sono rifugiati i triqui per 
                      sfuggire al conflitto sanguinoso di Oaxaca o dove sono andati 
                      in cerca di fortuna per l'estrema povertà della loro 
                      terra natale. Parla dunque un rappresentante triqui della 
                      Bassa California, perseguitato politico, che lancia un appello 
                      per ricevere assistenza legale contro i reati che il governo 
                      architetta a danni degli indigeni e, inoltre, fa un'esortazione 
                      all'unità. 
                    Prende 
                      la parola un delegato dell'organizzazione MULTI (Movimento 
                      Unitario di Liberazione Triqui Indipendente), fondatrice 
                      del Municipio Autonomo di San Juan Copala. Le parole d'ordine 
                      del suo intervento sono: libera autodeterminazione dei popoli; 
                      autonomia amministrativa, legislativa, esecutiva; mantenimento 
                      degli usi e costumi tradizionali; e, dunque, sostiene: "Crediamo 
                      che i nostri problemi debbano essere risolti da noi stessi, 
                      contando sulle nostre forze. Per questo non riconosciamo 
                      il governo e abbiamo fondato il nostro municipio autonomo". 
                      Fa un invito a partecipare all'Incontro Nazionale dei Municipi 
                      Autonomi dal 19 al 21 gennaio 2008, nella loro comunità. 
                      Importante sottolineare che a chiusura dell'intervento, 
                      rivolgendosi al "rivale" del MULT (Movimento Unitario 
                      di Liberazione Triqui) e al pubblico, quindi di fronte a 
                      speciali testimoni, afferma l'estraneità della sua 
                      organizzazione nel sequestro di due donne militanti del 
                      MULT e ne richiede ufficialmente l'apparizione in vita, 
                      accusando il governo di strumentalizzare queste drammatiche 
                      vicende al fine di fomentare le faide interne al movimento 
                      di lotta triqui. 
                    Risponde, 
                      dopo i triqui di Sonora del FULT (Fronte di Unificazione 
                      della Lotta Triqui per la Libertà dei Popoli Indigeni), 
                      il rappresentante del MULT, la parte dei Triqui in acceso 
                      conflitto con gli "autonomisti" nella stessa San 
                      Juan Copala. Ammettono che le divergenze sono frutto di 
                      una strategia del governo che propizia di questa divisione 
                      per saccheggiare il territorio oaxachegno e si augura, con 
                      evidente commozione di tutti i rappresentanti, che questo 
                      incontro, che accomuna i triqui quanto l'essere membri del 
                      Congresso Nazionale Indigeno e dell'Altra Campagna, sia 
                      un primo passo per la riappacificazione e la costruzione 
                      dell'unita politica.
                    A 
                      proposito di autonomia, intervengono due delegati del popolo 
                      Tlapaneco, dello stato di Guerrero, che traggono in 
                      questo senso una lunga esperienza di difesa della propria 
                      indipendenza politica e culturale. "A nome di quei 
                      guerrieri che diedero la vita per la nostra terra, di coloro 
                      i quali portiamo il sangue nelle vene, facciamo appello 
                      a un fronte comune, perché qui, compagni indigeni, 
                      nanetti o spilungoni, del nord o del sud, con soldi o senza 
                      soldi, siamo tutti fratelli, siamo tutti essere umani con 
                      diritto di vita". E citano due diritti: il diritto 
                      legale, sancito dal potere e scritto sulla carta e il diritto 
                      consetudinario, sancito da prima di Cristo dai popoli e 
                      scritto sulle montagne, sui fiumi, nelle valli. I governi, 
                      dunque, non sono governi, perché l'unico mandatario 
                      è il popolo; in questa logica è impensabile 
                      riconoscere un governo armato che, autonominatosi rappresentante 
                      di tutti, non fa altro che difendere violentemente gli interessi 
                      del capitalismo e delle multinazionali.
                    Nello 
                      Costa Chica di Guerrero più di 50 comunità, 
                      attraverso le proprie assemblee comunitarie, hanno deciso 
                      di gestire da sè la sicurezza, ripudiando la polizia 
                      federale e statale, e impiantando un'organizzazione dal 
                      basso di vigilanza civica: la polizia comunitaria. Questa 
                      esperienza meriterebbe di essere trattata a parte, per i 
                      significativi risvolti sociali che ha avuto e le prospettive 
                      politiche che apre nella strutturazione di una società 
                      alternativa, però ci limitiamo a segnalare che la 
                      zona sorvegliata da queste "guardie del popolo", 
                      in 12 anni di attività, è passata da essere 
                      una delle più pericolose del Messico a una delle 
                      più sicure. Quasi 700 agenti, scelti e armati dalle 
                      comunità (sempre destituibili e costantemente vigilati 
                      dalle assemblee), impartiscono la giustizia secondo gli 
                      usi e i costumi indigeni, evitando la punizione carceraria. 
                      Dice il commissario sul palco, citando fra le righe il guerrigliero 
                      Lucio Cabaña: "La polizia comunitaria, come 
                      nessuna polizia al mondo, è fatta dal popolo, per 
                      il popolo".
                     Per 
                      gli tzeltales, o meglio per le tzeltales chiapaneche, 
                      parla una delegata che esordisce con una preghiera e un 
                      pensiero particolare alle donne violentate, abusate, ignorate 
                      in quanto povere, in quanto indigene, in quanto donne. Con 
                      fatica, per le difficoltà politiche, culturali ed 
                      economiche che incontrano, si stanno aprendo un cammino 
                      affinché siano visibili e presenti in ogni evento, 
                      perché si ascolti la loro voce: "Non permetteremo 
                      di essere escluse dalla difesa della terra, perché 
                      siamo noi le guardiane della vita, delle tradizioni e siamo 
                      noi che mettiamo alla luce i guerrieri che combatteranno 
                      per lei. Nessuno ci leverà il diritto di difendere 
                      i nostri figli e la nostra Madre". La guerra che 
                      combattono, in Chiapas, è la guerra sporca che il 
                      governo impone in ogni momento attraverso la paramilitarizzazione 
                      del territorio e l'assedio mediatico, che fabbrica menzogne 
                      ad hoc per lo stato di permanente allerta.
Per 
                      gli tzeltales, o meglio per le tzeltales chiapaneche, 
                      parla una delegata che esordisce con una preghiera e un 
                      pensiero particolare alle donne violentate, abusate, ignorate 
                      in quanto povere, in quanto indigene, in quanto donne. Con 
                      fatica, per le difficoltà politiche, culturali ed 
                      economiche che incontrano, si stanno aprendo un cammino 
                      affinché siano visibili e presenti in ogni evento, 
                      perché si ascolti la loro voce: "Non permetteremo 
                      di essere escluse dalla difesa della terra, perché 
                      siamo noi le guardiane della vita, delle tradizioni e siamo 
                      noi che mettiamo alla luce i guerrieri che combatteranno 
                      per lei. Nessuno ci leverà il diritto di difendere 
                      i nostri figli e la nostra Madre". La guerra che 
                      combattono, in Chiapas, è la guerra sporca che il 
                      governo impone in ogni momento attraverso la paramilitarizzazione 
                      del territorio e l'assedio mediatico, che fabbrica menzogne 
                      ad hoc per lo stato di permanente allerta.
                    Accompagno 
                      gli tzeltales, sul palco come nella storia, il popolo Tzotzil 
                      del Chiapas, per i quali testimonia un rappresentante 
                      dell'associazione civile e pacifista Las Abejas. Il delegato 
                      è della comunità di Acteal, dove il 22 dicembre 
                      del '97 furono massacrati, mentre pregavano nella chiesa 
                      del villaggio, 45 donne, anziani e bambini, accusati di 
                      essere zapatisti. Dopo 10 anni, sono stati consegnati alla 
                      giustizia solo gli esecutori materiali, indigeni paramilitari, 
                      ma mancano i responsabili politici del massacro, quelli 
                      che ancora siedono nelle poltrone del potere, cambiando 
                      di partito in partito. In ricordo di questa strage, quest'anno 
                      si celebrerà un evento speciale dal 20 al 23 dicembre 
                      ad Acteal, per esigere giustizia e continuare a costruire 
                      reti sociali e resistenti.
                    La 
                      delegazione del popolo Wixarika (stati di Jalisco, 
                      Durango e Nayarit) è variopinta e nutrita, come a 
                      rimarcare la prima frase che dettano: "Noi esistiamo, 
                      anche se il governo dice che no". Parlano di quel 
                      conflitto agrario già citato numerose volte: la parcellizzazione 
                      delle terre ejidali e indigene conquistate con la rivoluzione 
                      zapatista di inizio secolo, sancite dalla costituzione del 
                      1917 e calpestate costantemente dai grandi interessi economici 
                      che il governo difende. Dicono che vale pena strategicamente 
                      di impugnare la recente dichiarazione dei diritti indigeni 
                      dell'ONU come strumento di lotta, ma ammettono, con rammarico, 
                      che gli stessi tribunali, nelle loro vicende legali, non 
                      riconoscono il concetto di "terra ancestrale". 
                      Ricordando che sono solo dei messaggeri e che riporteranno 
                      fedelmente le parole dell'Incontro alle proprie assemblee 
                      comunitare, chiudono: "Se il presente è lotta, 
                      il futuro sarà nostro".