I
mille colori del Messico,
Sabato 13 ottobre
Tra
la sera del venerdì e metà della giornata
del sabato, sul palco sono intervenute venticinque delegazioni
delle numerose etnie indigene che popolano il Messico. Il
rischio di questo rendiconto è quello di minimizzare
o perdersi eccessivamente nelle vastità dei popoli,
delle culture, dei costumi, delle sopraffazioni, delle violenze
subite e denunciate. Ad ascoltarli, invece di provare stanchezza
o noia, ci si rende conto dell'arcobaleno meraviglioso della
ricchezza dei popoli e della vita, quelle sfumature e quei
colori che in occidente sono stati già compressi
e standardizzati nel formato del consumatore neoliberista.
Proviamo
quindi a citare alcune delle testimonianze a nostro avviso
più rilevanti o indicative, con la speranza di non
equivocarci eccessivamente nella scrittura dei nomi delle
distinte popolazioni. In caso di inesattezze nella dicitura,
invitiamo il lettore a segnarlacele e provvederemo a corregerle,
dato che per l'alto numero di testimonianze non è
stato possibile verificare ogni citazione.
Gran
parte delle testimonianze e delle storie dei popoli nativi
del Messico sono state fatte in tre lingue, quella originaria,
poi in spagnolo e infine tradotte in inglese per i delegati
nordamericani.
Apre
i battenti la tribù ospitante, quella degli Yaqui.
Gli Otto Popoli di questa terra arida e calda rendono omaggio
a tutti quei caduti nelle numerose battaglie che hanno reso
possibile l'esistenza, oggi, di un territorio Yaqui e la
perseveranza di una cultura autoctona. Gli yaquis sono un
popolo particolarmente combattivo e fiero e spendono poche
parole per il pubblico, lo sforzo di questo evento parla
da sè. Sottolineano particolarmente l'assedio mediatico
a cui sono da sempre sottoposti, dipinti come eterni cattivi,
da usanze irriducibili; però chiosano: "Siamo
forti. Non vinceranno mai i capitalisti."
Un
lungo applauso accoglie la delegazione del popolo Zapoteco
di Oaxaca, del CIPO-RFM (Consiglio Indigeno Popolare Oaxachegno
- Ricardo Flores Magon). Questo gruppo ha fatto parte della
celebratissima APPO, è attualmente membro del VOCAL
(Voci di Oaxaca Costruendo Autonomia e Libertà) ed
è aderente all'Altra Campagna. Della lunga lista
di detenenuti e delle tormentate vicende della lotta nella
comune di Oaxaca, vale la pena citare i 6 prigionieri della
comunità di San Isidro, arrestati per la difesa del
proprio bosco e David Venegas, consigliere delle barricate
nella APPO, ancora imprigionato. Questo consigliere e il
CIPO, dicono, si sono battuti perché la APPO non
diventasse una piattaforma elettorale e ammettono di leggere
con piacere la grande astensione popolare che c'è
stata nelle elezioni regionali dell'agosto 2007. Un ultimo
accenno alla devastazione del Piano Puebla Panama, un corridoio
di infrastrutture logistiche per aprire le rotte commerciali
alle multinazionali e che minaccia seriamente tutte le comunità
indigene di Oaxaca e, in generale, del centroamerica.
Ci
sono alcuni delegati che, col loro spagnolo semplice, umilmente
rappresentano la gente del campo e, alieni alla palestra
della retorica politica, portano sul palco le proprie disgrazie,
le loro piccole ma significative storie di repressione e
resistenza.
E'
l'esempio di una signora Chichimeca (stato di Guanajuato),
madre di dodici figli, che racconta dello sgombero subito
dalla sua comunità all'apparire di un fantomatico
latifondista: "Abbiamo i nostri anziani, di 70,
80 anni e nessuno di loro si ricorda di aver mai visto un
padrone di queste terre".
O è il caso degli ñañhú
di San Pedro Acapulco che resistono alle imprese immobiliari
che vogliono cementificare il loro bosco.
O una vicenda emblematica che ci raccontano alcuni Zoques
di Benito Juarez di Chimalapa, al confine col Chiapas che
da 30 anni subiscono invasioni e intimidazioni da parte
dei latifondisti e dei ricchi bovari dello stato confinante.
O ancora un delegato dei Mazahauas che si dilunga
nell'estenuante trafila burocratica che ha portato avanti
come portavoce del villaggio, affinché le loro terre
ejidali (comunitarie, per assegnazione di decreto rivoluzionario)
non fossero lottizzate con l'accorpamento a un altro municipio.
Trafila ancora pendente e si chiede e ci chiede con un volto
sofferto: "Fin dove giungeranno i loro abusi? Qual'è
la soluzione? Che facciamo? Come lo facciamo, compagni?".
O anche gli Huicatecos che ci informano che il governo
gli ha sottratto 3500 ettari di terra per consegnarla in
usufrutto fino al 2050 alle compagnie estrattive, "dimenticandosi"
di consultarli.
Oppure i Mixtecos, il cui nome significa "uomini
della pioggia e delle nubi" e sta indicarli come abitanti
delle zone alte e montagnose dello stato di Oaxaca. Raccontano
di una comunità svuotata dalla migrazione e dilaniata
dal conflitto agragrio imposto, anche a loro, dall lottizzazione
dei terreni collettivi, che ha portato a una faida omicida
nella comunità stessa.
Il
popolo Coca, presente nello stato di Jalisco, è
rappresentato invece da una delegazione inviata dalla autorità
tradizionali delle loro comunità. Il messaggio che
portano, come tutti, è un messaggio di spoliazione
forzata e resistenza. Loro sono i custodi di 3600 ettari
di boschi e fiumi, conservati respigendo meticolasamente,
da secoli, ogni estraneo. La loro terra è formalmente
difesa da due titoli, uno datato addirittura 1534 e l'altro
del 1971, ma questo non ha impedito a un ricco possidente
di invadere e rubare 10 ettari di terra. Per ora si stanno
muovendo, da 8 anni, per vie legali anche perché
il problema più grosso resta il governo stesso. Rivuole
le terre dei cocas per impossessarsi di un'isola nel mezzo
di un lago da sfruttare turisticamente. L'isola per gli
indigeni ha un valore storico particolare, perché
lì resistettero agli spagnoli e si nascosero quegli
insorti che poi custodirono la terra ereditata dagli attuali
cocas.
Parlano
i Choles del Chiapas. Sono due delegati di quei 2600
indigeni che dopo aver recuperato nel 1994 alcune terre
con l'insurrezione dell'EZLN, furono "desplazados"
dalla guerra sporca dei paramilitari degli anni '95-'98,
che ha mietuto 254 morti. La strategia controinsurrezionale
paramilitare, dicono, è uno strumento per imporre
un conflitto fratricida e permettere al governo o di lavarsene
le mani o di intervenire militarmente, dipendendo ciò
che più le conviene per continuare a rubare terre
e dare vita ai progetti di privatizzazione. Parlano dello
sgombero, avvenuto ad agosto 2007, delle tre comunità
nei Montes Azules, quella zona che il governo ha voluto
trasformare in Riserva Protetta al fine di cacciare come
coloni invasori tutte quelle comunità, essenzialmente
zapatiste, che vi si sono insediate negli anni. Parlano
inoltre della divisione delle comunità attraverso
la riduzione delle terre lavorate collettivamente in piccole
proprietà private che a loro volta posso essere fagocitate
più facilmente dall'espansionismo latifondista delle
multi. Dicono che sono contenti, che oggi siamo tanti e
domani saremo il doppio e che, dopo l'esperienza terribile
della migrazione forzata per mano della guerra sporca, non
hanno più paura dell'esercito e della polizia.
La
parola passa ad un altro popolo "famoso", quello
Nahua, i contandini di Atenco, di Xochimilco e dello
Stato del Messico e di quello del Michiocan. Una veneranda
signora, addobata con collane, bastone del comando, ghirlanda
infiorata da curandera, grida la sua indignazione:
"Dobbiamo parlare la nostra lingua, dobbiamo difenderla!
E mi riferisco alla tradizione orale, a quella parlata,
non quella che alcuni studiosi dicono di scrivere. Sappiamo
la carta che valore ha, soggiace ai capricci dei potenti..."
La compagna d'Atenco, col machete in pugno, ricorda che
solo la lotta paga e che l'aereoporto di Fox, alla fine,
è rimasto solo un sogno nella scrivania degli ingegneri
del Capitale. Lascia un omaggio all'EZLN che hanno saputo
ribaltare la storia già scritta dai potenti, permettendo
un orizzonte più ampio in cui ognuno/a può
disegnare il proprio futuro.
I nahuas del Michiocan respingono costantemente tutte le
proposte del governo e delle sue segreterie per regolarizzare
i territori e le spiaggie; sanno già, dicono, che
sono tutte trappole per fregarci domani legalmente. Infine
ricordano che un popolo nauha già è stato
sterminato, quello azteca e che questo non dovrà
più ripetersi. Conclude uno di loro: "S'imposero
e rubarono le nostre terre e le nostre anime con la spada
e la croce. Prima con la religione cattolica, mentre ora
si insinua quella evangelica. Mi permetto di dire, allora,
che la religione cattolica è funzionale al capitalismo
e che dunque, compagni, al YA BASTA politico dobbiamo accompagnare
il YA BASTA religioso ed essere liberi di amare i boschi,
le montagne, i fiumi, gli animali e i nostri simili".
Anche
i Purepechas, del Michiocan, parlano di terra rubate
che iniziarono a recuperare dal 1979. Si dicono particolarmente
preoccupati che le proprie tradizioni siano state convertite
in mercanzia per turisti e, parlando della loro terra di
laghi e vulcani, chiariscono i simboli della loro bandiera:
azzurro per i laghi, verde per le montagne, il giallo degli
undici popoli che sono, il viola che è la culla e
il germoglio del mais; al centro dei quattro quadrati colorati,
un pugno rappresenta l'unione, le 4 frecce i punti cardinali
e la difesa del territorio e, infine, il fuoco che divampa
nella lotta.
Parlano
tre signore del popolo Cucapà, ridotto a 319
individui e anche con forti divisioni interne. Questo popolo
è quasi arrivato al capolinea dell'estinzione, vivendo
di caccia e pesca a ridosso del Rio Colorado in Bassa California.
Si stanno estinguendo, oltre che per lo sterminio manu
militari subito come ogni popolo, dall'emissione di
un decreto governativo del '93 che ha trasformato le loro
acque in zona protetta, impededogli accanitamente di pescare.
Lo stesso decreto che tranquillamente calpesta l'incomparabile
concorrenza dei peschieri delle multinazionali. Il governo
ha proposto al popolo Cucapà di cambiare attività
produttiva, con l'intento di cancellare la loro cultura
tradizionale e allontanarli dalle coste dove è prevista
l'Escalera Nautica, cioè una serie di attracchi per
imbarcazione da
diporto nel mar di Cortes. Ringraziano l'EZLN per aver dato
vita a un accampamento solidale nella stagione di pesca
del 2007, allentando la pressione delle forze nemiche e
permettendo l'approviggionamento della comunità e
la diffusione del loro caso.
Un
caso altrettento drammatico, di un popolo tanto antico quanto
dimenticato, è quello dei Kiliwa, sempre della
Bassa California. Sono sopravvissute soltanto 190 famiglie,
che vivono della raccolta e della lavorazione di una palma,
la stessa che fa gola a un'impresa nordamericana che ne
ricava uno spumeggiante che vende alla Coca Cola. Di questa
tribù, rimangono in vita solo cinque persone che
parlano la lingua nativa e il delegato, con una certa mestizia,
ci confida che sono coscienti che se loro spariscono per
il governo è nient'altro che un problema in meno.
Parole
speciali merita il momento dedicato al popolo Triqui.
Nei minuti concessi ai vari rappresentanti si condensano
emozioni forti, quelle che per decenni hanno dilaniato con
diaspore, assassinii, sequestri, faide politiche, questo
nutrito e combattivo popolo. I delegati vengono dai quattro
angoli del Messico (Sonora, Città del Messico, Bassa
California e Oaxaca), dove si sono rifugiati i triqui per
sfuggire al conflitto sanguinoso di Oaxaca o dove sono andati
in cerca di fortuna per l'estrema povertà della loro
terra natale. Parla dunque un rappresentante triqui della
Bassa California, perseguitato politico, che lancia un appello
per ricevere assistenza legale contro i reati che il governo
architetta a danni degli indigeni e, inoltre, fa un'esortazione
all'unità.
Prende
la parola un delegato dell'organizzazione MULTI (Movimento
Unitario di Liberazione Triqui Indipendente), fondatrice
del Municipio Autonomo di San Juan Copala. Le parole d'ordine
del suo intervento sono: libera autodeterminazione dei popoli;
autonomia amministrativa, legislativa, esecutiva; mantenimento
degli usi e costumi tradizionali; e, dunque, sostiene: "Crediamo
che i nostri problemi debbano essere risolti da noi stessi,
contando sulle nostre forze. Per questo non riconosciamo
il governo e abbiamo fondato il nostro municipio autonomo".
Fa un invito a partecipare all'Incontro Nazionale dei Municipi
Autonomi dal 19 al 21 gennaio 2008, nella loro comunità.
Importante sottolineare che a chiusura dell'intervento,
rivolgendosi al "rivale" del MULT (Movimento Unitario
di Liberazione Triqui) e al pubblico, quindi di fronte a
speciali testimoni, afferma l'estraneità della sua
organizzazione nel sequestro di due donne militanti del
MULT e ne richiede ufficialmente l'apparizione in vita,
accusando il governo di strumentalizzare queste drammatiche
vicende al fine di fomentare le faide interne al movimento
di lotta triqui.
Risponde,
dopo i triqui di Sonora del FULT (Fronte di Unificazione
della Lotta Triqui per la Libertà dei Popoli Indigeni),
il rappresentante del MULT, la parte dei Triqui in acceso
conflitto con gli "autonomisti" nella stessa San
Juan Copala. Ammettono che le divergenze sono frutto di
una strategia del governo che propizia di questa divisione
per saccheggiare il territorio oaxachegno e si augura, con
evidente commozione di tutti i rappresentanti, che questo
incontro, che accomuna i triqui quanto l'essere membri del
Congresso Nazionale Indigeno e dell'Altra Campagna, sia
un primo passo per la riappacificazione e la costruzione
dell'unita politica.
A
proposito di autonomia, intervengono due delegati del popolo
Tlapaneco, dello stato di Guerrero, che traggono in
questo senso una lunga esperienza di difesa della propria
indipendenza politica e culturale. "A nome di quei
guerrieri che diedero la vita per la nostra terra, di coloro
i quali portiamo il sangue nelle vene, facciamo appello
a un fronte comune, perché qui, compagni indigeni,
nanetti o spilungoni, del nord o del sud, con soldi o senza
soldi, siamo tutti fratelli, siamo tutti essere umani con
diritto di vita". E citano due diritti: il diritto
legale, sancito dal potere e scritto sulla carta e il diritto
consetudinario, sancito da prima di Cristo dai popoli e
scritto sulle montagne, sui fiumi, nelle valli. I governi,
dunque, non sono governi, perché l'unico mandatario
è il popolo; in questa logica è impensabile
riconoscere un governo armato che, autonominatosi rappresentante
di tutti, non fa altro che difendere violentemente gli interessi
del capitalismo e delle multinazionali.
Nello
Costa Chica di Guerrero più di 50 comunità,
attraverso le proprie assemblee comunitarie, hanno deciso
di gestire da sè la sicurezza, ripudiando la polizia
federale e statale, e impiantando un'organizzazione dal
basso di vigilanza civica: la polizia comunitaria. Questa
esperienza meriterebbe di essere trattata a parte, per i
significativi risvolti sociali che ha avuto e le prospettive
politiche che apre nella strutturazione di una società
alternativa, però ci limitiamo a segnalare che la
zona sorvegliata da queste "guardie del popolo",
in 12 anni di attività, è passata da essere
una delle più pericolose del Messico a una delle
più sicure. Quasi 700 agenti, scelti e armati dalle
comunità (sempre destituibili e costantemente vigilati
dalle assemblee), impartiscono la giustizia secondo gli
usi e i costumi indigeni, evitando la punizione carceraria.
Dice il commissario sul palco, citando fra le righe il guerrigliero
Lucio Cabaña: "La polizia comunitaria, come
nessuna polizia al mondo, è fatta dal popolo, per
il popolo".
Per
gli tzeltales, o meglio per le tzeltales chiapaneche,
parla una delegata che esordisce con una preghiera e un
pensiero particolare alle donne violentate, abusate, ignorate
in quanto povere, in quanto indigene, in quanto donne. Con
fatica, per le difficoltà politiche, culturali ed
economiche che incontrano, si stanno aprendo un cammino
affinché siano visibili e presenti in ogni evento,
perché si ascolti la loro voce: "Non permetteremo
di essere escluse dalla difesa della terra, perché
siamo noi le guardiane della vita, delle tradizioni e siamo
noi che mettiamo alla luce i guerrieri che combatteranno
per lei. Nessuno ci leverà il diritto di difendere
i nostri figli e la nostra Madre". La guerra che
combattono, in Chiapas, è la guerra sporca che il
governo impone in ogni momento attraverso la paramilitarizzazione
del territorio e l'assedio mediatico, che fabbrica menzogne
ad hoc per lo stato di permanente allerta.
Accompagno
gli tzeltales, sul palco come nella storia, il popolo Tzotzil
del Chiapas, per i quali testimonia un rappresentante
dell'associazione civile e pacifista Las Abejas. Il delegato
è della comunità di Acteal, dove il 22 dicembre
del '97 furono massacrati, mentre pregavano nella chiesa
del villaggio, 45 donne, anziani e bambini, accusati di
essere zapatisti. Dopo 10 anni, sono stati consegnati alla
giustizia solo gli esecutori materiali, indigeni paramilitari,
ma mancano i responsabili politici del massacro, quelli
che ancora siedono nelle poltrone del potere, cambiando
di partito in partito. In ricordo di questa strage, quest'anno
si celebrerà un evento speciale dal 20 al 23 dicembre
ad Acteal, per esigere giustizia e continuare a costruire
reti sociali e resistenti.
La
delegazione del popolo Wixarika (stati di Jalisco,
Durango e Nayarit) è variopinta e nutrita, come a
rimarcare la prima frase che dettano: "Noi esistiamo,
anche se il governo dice che no". Parlano di quel
conflitto agrario già citato numerose volte: la parcellizzazione
delle terre ejidali e indigene conquistate con la rivoluzione
zapatista di inizio secolo, sancite dalla costituzione del
1917 e calpestate costantemente dai grandi interessi economici
che il governo difende. Dicono che vale pena strategicamente
di impugnare la recente dichiarazione dei diritti indigeni
dell'ONU come strumento di lotta, ma ammettono, con rammarico,
che gli stessi tribunali, nelle loro vicende legali, non
riconoscono il concetto di "terra ancestrale".
Ricordando che sono solo dei messaggeri e che riporteranno
fedelmente le parole dell'Incontro alle proprie assemblee
comunitare, chiudono: "Se il presente è lotta,
il futuro sarà nostro".