Nella 
                      terra invasa dai Soldati Blu
                      Venerdì 12 ottobre 2007, Tmcrew
                    Un 
                      altra tacca nel calendario della resistenza indigena: 515 
                      anni fa Cristoforo Colombo, col suo carico di pregiudizi, 
                      mercenari, preti e corone, mette piede in un'isola dei Caraibi, 
                      aprendo la porta a cinque secoli di conflitto genocida, 
                      la guerra più lunga della storia dell'umanità. 
                      In tutti questi anni, gli abitanti originari del continente, 
                      hanno dovuto affinare, modificare, custodire clandestinamente 
                      o in luoghi remoti la proprie usanze e customi. Oggi, nessuno 
                      di questi popoli, si dà per sconfitto, si lascia 
                      mummificare nei testi di antropologia o negli angoli polverosi 
                      dei musei. C'è un Popolo che sta organizzando la 
                      sua sollevazione, qui, a Vicam...
                    La 
                      rovente mattinata del 12 ottobre è dedicata ai popoli 
                      indigeni che secondo la mappatura mondiale colonialista 
                      si trovano negli USA, o nei suoi paraggi. Apre la sessione 
                      il Popolo Tohono OOtam, situato in un'area 
                      che va dall'Arizona a nord fino a Hermosillo, Sonora, Messico. 
                      Leggono una dichiarazione in cui sottolineano che non riconoscono 
                      la linea artificiale che l'uomo bianco ha posto nel bel 
                      mezzo del loro territorio e per tanto non riconoscono nessuno 
                      dei due governi. Ribadiscono che essere indigeni è 
                      una responsabilità notevole perché ai nativi 
                      spetta il dovere, come custodi ancestrali, mantenere l'equilibrio 
                      dell'universo. Danno lettura dei primi esempi di una lista 
                      di soprusi, invasioni, saccheggi da parte di governi e multinazionali 
                      che avrà fine a sera inoltrata, una staffetta che 
                      di abuso in abuso le varie tribù esporranno con un'allucinante 
                      e triste continuità.
                    C'è 
                      l'esproprio di un'azienda farmacologica intenzionata a raccogliere 
                      e brevettare i semi di quelle piante medicinali che sempre 
                      hanno curato gli Otam, prima che le sconosciute malattie 
                      dei bianchi ne decimassero la popolazione. Poi c'è 
                      un agglomerato turistico che gli impedisce l'accesso alle 
                      spiaggie del Pacifico, lo sbocco al mare che sempre avevano 
                      avuto. Parlano, infine, di una religione imposta nel 1600, 
                      al punto che oggi la maggioranza della tribù si considera 
                      cattolica, dimentcando i culti originari.
                     Di 
                      questo popolo, prende la parola l'autorità tradizionale, 
                      un anziano ma prestante indio con capelli lunghi e lisci. 
                      Dice che è qui, all'Incontro, per stringere alleanze 
                      con la parte degli Otam del sud, del Messico, e con tutti 
                      quei popoli con cui sono emerse affinità nel processo 
                      di lotta. La proposta, da parte sua, è quella di 
                      impugnare la recente dichiarazione dell'ONU sui diritti 
                      indigeni (votata contro da USA, Canada, Nuova Zelanda, Australia) 
                      come altro punto di forza nelle trattative coi governi per 
                      il completo riconoscimento dell'autonomia per i popoli nativi. 
                      Importante sottolineare che il popolo Otam costantemente 
                      si trova a soccorrere i migranti che tentano di entrare 
                      negli USA attraverso il deserto di Sonora, dandole acqua, 
                      assistenza e, molte volte, raccogliendo i resti di quanti 
                      muoiono nel cammino.
Di 
                      questo popolo, prende la parola l'autorità tradizionale, 
                      un anziano ma prestante indio con capelli lunghi e lisci. 
                      Dice che è qui, all'Incontro, per stringere alleanze 
                      con la parte degli Otam del sud, del Messico, e con tutti 
                      quei popoli con cui sono emerse affinità nel processo 
                      di lotta. La proposta, da parte sua, è quella di 
                      impugnare la recente dichiarazione dell'ONU sui diritti 
                      indigeni (votata contro da USA, Canada, Nuova Zelanda, Australia) 
                      come altro punto di forza nelle trattative coi governi per 
                      il completo riconoscimento dell'autonomia per i popoli nativi. 
                      Importante sottolineare che il popolo Otam costantemente 
                      si trova a soccorrere i migranti che tentano di entrare 
                      negli USA attraverso il deserto di Sonora, dandole acqua, 
                      assistenza e, molte volte, raccogliendo i resti di quanti 
                      muoiono nel cammino. 
                    Il 
                      popolo successivo è quello degli Hopi, antichissima 
                      civiltà delle zone aride del sud. L'agricoltura è 
                      il centro assoluto del loro stile di vita e si adoperano 
                      da secoli alla ricerca dell'autosufficienza totale, rispettando 
                      ancora un proprio calendario basato sui cicli della semina 
                      e del raccolto. Ricordano, prima di passare alle proposte 
                      politiche, la loro storia: l'ultima volta che hanno ammazzato 
                      un uomo bianco (nella rivolta del 1880); il sequestro dei 
                      propri bambini nelle scuole governative; il tentativo negli 
                      anni '50 di imporre lo stile di vita occidentale, dividendo 
                      la comunità; le multinazionali che recentemente stanno 
                      finanziando il "governo indigeno" filoamericano 
                      al fine di ricevere concessioni per l'estrazione dell'acqua 
                      (già carente nella comunità) e per impianti 
                      elettrici; il tentativo di realizzare una centrale a carbone 
                      in pieno territorio Hopi, tentativo sventato da una lunga 
                      lotta, blocchi stradali e occupazioni dei cantieri. Tornano 
                      a parlare di agricoltura, che sviluppano con sistemi tradizionali, 
                      affinati in milleni di pratica; quegli stessi sistemi che 
                      si studiano nella prima scuola di metodo tradizionale impiantata 
                      recentemente, dove si apprende anche la lingua e la visione 
                      cosmica Hopi. Ricordano che il loro modello di riferimento 
                      di autogoverno è quello dei caracoles zapatisti e 
                      che a questi, e a tutti i popoli presenti, fanno un invito 
                      a viaggiare reciprocamente nelle proprie terre per intercambiare 
                      e sviluppare metodi di coltivazione, cioè stimolare 
                      l'indipendenza e la sovranità alimentare di ogni 
                      popolo.
                     Un 
                      boato e un pubblico in deliro acclama, quando si presenta, 
                      un discendente diretto di Cavallo Pazzo, delegato degli 
                      Oglala Lakota, della comunità di Wounded Knee, 
                      tristemente nota per il massacro del 1890 e per l'occupazione 
                      e la repressione negli anni '70. Ricorda con fierezza la 
                      battaglia di Little Big Horn, la sconfitta dei soldati di 
                      Custer e la successiva repressione che, oltre che decimarli, 
                      divise i genitori dai figli, con l'educazione forzata nelle 
                      scuole residenziali (di cui una ragazza racconta gli abusi 
                      sessuali subiti) e le riserve, secondo la logica dello sradicamento 
                      geografico e culturale. Ancora oggi i luoghi sacri, come 
                      le Black Hills, sono quotidianamente violati, forati, ursupati, 
                      violentati dalle multinazionali e dagli edifici, le vie 
                      di comunicazione, i centri commerciali e i giacimenti estrattivi 
                      dell'uomo bianco. Ma i giovani si stanno organizzando, si 
                      chiamano "Native Resistance, 7th Generation" e 
                      non hanno lo sguardo e ne' parole indulgenti per l'uomo 
                      bianco, quando chiamano all'unità degli indigeni: 
                      un solo Popolo Rosso, per una terra rossa. Fanno appello 
                      a partecipare alla marcia che si terrà a partire 
                      da febbraio 2008 da San Francisco a Washington, una camminata 
                      di 5 mesi e sei mila migla per rivendicare rispetto per 
                      la Madre Terra, per i popoli nativi e la fine della folle 
                      corsa tecnologica autodistruttiva.
Un 
                      boato e un pubblico in deliro acclama, quando si presenta, 
                      un discendente diretto di Cavallo Pazzo, delegato degli 
                      Oglala Lakota, della comunità di Wounded Knee, 
                      tristemente nota per il massacro del 1890 e per l'occupazione 
                      e la repressione negli anni '70. Ricorda con fierezza la 
                      battaglia di Little Big Horn, la sconfitta dei soldati di 
                      Custer e la successiva repressione che, oltre che decimarli, 
                      divise i genitori dai figli, con l'educazione forzata nelle 
                      scuole residenziali (di cui una ragazza racconta gli abusi 
                      sessuali subiti) e le riserve, secondo la logica dello sradicamento 
                      geografico e culturale. Ancora oggi i luoghi sacri, come 
                      le Black Hills, sono quotidianamente violati, forati, ursupati, 
                      violentati dalle multinazionali e dagli edifici, le vie 
                      di comunicazione, i centri commerciali e i giacimenti estrattivi 
                      dell'uomo bianco. Ma i giovani si stanno organizzando, si 
                      chiamano "Native Resistance, 7th Generation" e 
                      non hanno lo sguardo e ne' parole indulgenti per l'uomo 
                      bianco, quando chiamano all'unità degli indigeni: 
                      un solo Popolo Rosso, per una terra rossa. Fanno appello 
                      a partecipare alla marcia che si terrà a partire 
                      da febbraio 2008 da San Francisco a Washington, una camminata 
                      di 5 mesi e sei mila migla per rivendicare rispetto per 
                      la Madre Terra, per i popoli nativi e la fine della folle 
                      corsa tecnologica autodistruttiva.
                    Nel 
                      nord della California vive la Nazione Achumawi, sparsi 
                      in 11 comunità che raccolgono 12000 indigeni. Questo 
                      popolo è stata massacrato dalla caccia all'oro che 
                      sconvolse la zona nel XIX secolo: posero taglie sui guerrieri 
                      uccisi, violentarono e schiavizzarono nei bordelli le donne, 
                      inquinarono i fiumi coi solventi per selezionare l'oro, 
                      distrussero i boschi. Dunque gli Achumawi furono costretti 
                      a migrare a nord e a negoziare col governo. Dei 18 trattati 
                      che si firmarono con lo Stato, neanche uno fu ratificato, 
                      rimasero sulle scrivanie degli uffici, perché da 
                      sempre le imprese minerarie ed estrattive hanno fatto pressioni 
                      perché non gli si riconoscessero le terre, finchè, 
                      approfittando di alcune autorità corrotte, del freddo 
                      e della fame, riuscirono a comprarsi la zona a tranci di 
                      14 centesimi di dollaro. La gente Achumawi successivamente 
                      si è resa conto dell'imbroglio e, organizzandosi, 
                      con azioni dirette e occupazioni ha recuperato 1000 ettari, 
                      dove attualmente risiede. 
                    Al 
                      riprendere possesso della terra resero conto che, non essendoci 
                      stati più loro a custodirla, fiumi erano stati deviati 
                      e inquinati, e i salmoni, nutrimento base della loro alimentazione, 
                      si erano estinti in quei corsi. La proposta di un impianto 
                      sciistico su una montagna sacra è stata sventata 
                      con la lotta e con una valanga su un versante della montagna 
                      stessa, che s'è autodifesa. Adesso proteggono un 
                      lago, considerato sacro per le erbe e le alghe medicinali 
                      che vi si incontrano, dalle mire dell'industria del turismo. 
                      Evidenziano l'inutilità insulsa delle centrali elettriche 
                      e delle turbine che devastano il territorio, quando la maggioranza 
                      della popolazione vive in case senza luce e senza acqua 
                      potabile. Polemicamente si rivolgono agli ambientalisti 
                      bianchi, invitandoli a sostenere la lotta zapatista e non 
                      a essere complici di riserve concepite solo per il turismo, 
                      e con certo disprezzo si rivolgono agli antropologi che 
                      riesumano le spoglie dei loro antepassati e addirittura 
                      una volta hanno portato all'università il cervello 
                      di un loro anziano, considerato l'ultimo selvaggio.
                     Un 
                      guerriero giovane, bello, lungilineo, elegante e pacato 
                      parla per il popolo Nek. Il prologo è una 
                      cadenzato ripercorre della storia del mondo, o meglio dei 
                      tre mondi, dei loro Prometeo (sono due donne però 
                      a consegnare la saggezza e gli strumenti di sopravvivenza 
                      all'umanità). Elenca le quattro montagne che delimitano 
                      il loro territorio, poste ai quattro punti cardinali. 
                      "Quando parlo di limtiti" dice "non 
                      intendo confini di proprietà. Noi non siamo padroni 
                      della terra, semplicemente queste montagne delimitano lo 
                      spazio che è nostro dovere custodire e proteggere. 
                      La Madre Terra è la padrona, anche di noi uomini". 
                      Gli spagnoli non riusciro a sconfiggere i Nek, mentre nel 
                      1845 gli statunitensi iniziarono un massacro indiscriminato 
                      contro chiunque gli capitasse a tiro in quei paraggi. Nel 
                      1864 gli 8.000 furono trasferiti con quella che passò 
                      alla storia come la "lunga marcia", quattro mila 
                      miglia. Per quattro anni resistettero lontano dalle loro 
                      terre, ma poi, con un trattato, ottenero il rientro alle 
                      Quattro Montagne. Ancora una volta il "colonialismo 
                      energetico" decide di installare lì le sue miniere 
                      di carbone, fomentando una guerra intestina nella comunità. 
                      Con la scusa dell'ingovernabilità hanno cercato di 
                      deubicarli ancora una volta, però un'accanita resistenza 
                      ha respinto questo tentativo. In queste terre il potere 
                      federale ha riconosciuto un governo indigeno Navaho e Hopi, 
                      però, racconta il delegato, loro solo riconoscono 
                      la legge della Madre Terra, accusando come strumentali agli 
                      interessi delle multinazionali i governi indigeni imposti 
                      dal potere. L'attuale obbiettivo è appunto la resistenza 
                      all'impiantazione di una centrale elettrica appoggiata dal 
                      corrotto governo Navaho e l'impiantazione di un impianto 
                      sciistico con neve artificiale, qualcosa che alle loro orecchie 
                      suona come una bestemmia.
Un 
                      guerriero giovane, bello, lungilineo, elegante e pacato 
                      parla per il popolo Nek. Il prologo è una 
                      cadenzato ripercorre della storia del mondo, o meglio dei 
                      tre mondi, dei loro Prometeo (sono due donne però 
                      a consegnare la saggezza e gli strumenti di sopravvivenza 
                      all'umanità). Elenca le quattro montagne che delimitano 
                      il loro territorio, poste ai quattro punti cardinali. 
                      "Quando parlo di limtiti" dice "non 
                      intendo confini di proprietà. Noi non siamo padroni 
                      della terra, semplicemente queste montagne delimitano lo 
                      spazio che è nostro dovere custodire e proteggere. 
                      La Madre Terra è la padrona, anche di noi uomini". 
                      Gli spagnoli non riusciro a sconfiggere i Nek, mentre nel 
                      1845 gli statunitensi iniziarono un massacro indiscriminato 
                      contro chiunque gli capitasse a tiro in quei paraggi. Nel 
                      1864 gli 8.000 furono trasferiti con quella che passò 
                      alla storia come la "lunga marcia", quattro mila 
                      miglia. Per quattro anni resistettero lontano dalle loro 
                      terre, ma poi, con un trattato, ottenero il rientro alle 
                      Quattro Montagne. Ancora una volta il "colonialismo 
                      energetico" decide di installare lì le sue miniere 
                      di carbone, fomentando una guerra intestina nella comunità. 
                      Con la scusa dell'ingovernabilità hanno cercato di 
                      deubicarli ancora una volta, però un'accanita resistenza 
                      ha respinto questo tentativo. In queste terre il potere 
                      federale ha riconosciuto un governo indigeno Navaho e Hopi, 
                      però, racconta il delegato, loro solo riconoscono 
                      la legge della Madre Terra, accusando come strumentali agli 
                      interessi delle multinazionali i governi indigeni imposti 
                      dal potere. L'attuale obbiettivo è appunto la resistenza 
                      all'impiantazione di una centrale elettrica appoggiata dal 
                      corrotto governo Navaho e l'impiantazione di un impianto 
                      sciistico con neve artificiale, qualcosa che alle loro orecchie 
                      suona come una bestemmia.
                    Un 
                      messaggio politico e spirituale, chiude l'intervento del 
                      guerriero Nek, che regge in mano una pannocchia di mais: 
                      "Come i frutti della terra sono di mille colori, 
                      così siamo noi, tutti diversi; però germogliamo 
                      da una sola radice, germogliamo tutti dalla stessa terra, 
                      fratelli indigeni. Allo stesso modo dobbiamo capire che 
                      anche i nostri numerosi mali hanno una sola radice: il capitalismo".
                    La 
                      sessione si chiude con due donne Ticapù, che 
                      parlano a nome del movimento chicano, cioè dei messicani 
                      migrati negli USA. Però specificano: "Essere 
                      'chicano' non è solo essere e sentirsi un messicano 
                      nel Paese dei Gringos, ma significa appartenere alla coscienza 
                      indigena continentale: mangiare mais, parlare in lingua, 
                      seguire il calendario tradizionale". Il movimento 
                      chicano, che abbraccia qualcosa come 13 milioni di migranti, 
                      assume su di sè la condizione esemplare dei "desplazados", 
                      di quelle culture sradicate dalla propria terra per colpa 
                      del processo di spoliazione e saccheggio capitalista e coloniale; 
                      sottolineano la presa di coscienza dell'identità 
                      indigena da parte dei giovani e una delle due donne racconta: 
                      "Mio padre, una volta migrati negli USA, mi diceva 
                      sempre: dentro questa casa è Messico, fuori dalla 
                      porta, è Messico occupato. Oggi alle mie figlie le 
                      dico: dentro questa casa è territorio indigeno, fuori 
                      dalla porta è territorio indigeno occupato!".