Testimonianze
del Mesoamerica e Sudamerica,
Venerdì 12 ottobre 2007
Per
il pomeriggio del venerdì del Giorno della Razza,
come hanno chiamato questa data i governi colonizzatori,
una lunga carovana di delegati sfila sul palco, raccogliendo
le parole dei fratelli del nord e aggiungendovi le disgrazie,
terribilmente simili, patite dai nativi del Sud. Un continente
rosso, purtroppo anche rosso sangue. A volte si fatica a
concepire la sistematica violenza che ha perpetrato in ogni
angolo della terra l'opera di civilizzazione del capitalismo
bianco.
Aprono
la sessione pomeridiana i delegati di Via Campesina. Berretto
verde, bandiera e mani callose, come quasi tutti i quasi
570 delegati indigeni dei 66 popoli presenti. L'attività
agricola e la cultura rurale appartengono al comune denominatore
dei popoli partecipanti, e dunque le parole "terra"
e "territorio" risultano le più argomentate.
Prendono
il microfono i Maya del Guatemala del popolo Q'euchì,
coi volti segnati di chi ha vissuto 30 anni di guerra civile,
una strage che ha mietuto 200.000 vittime tra gli indigeni
e ne ha causato la diaspora di altri 500.000. Parla una
donna e parla della sua condizione, orfana e analfabeta,
contadina senza terra. L'educazione e il diritto alla salute,
dice, devono essere la battaglia centrale del movimento
campesino, senza dimenticare le donne, le bambine delle
comunità più remote, per darle loro gli strumenti
per crescere e non rimanere schiavizzate e discriminate
tutta la vita.
Dopo
alcuni interventi prendono la parola una coppia con una
bambina di Maya guatemaltechi Quichè, orfani
della guerra civile e profughi in Canada, che con un discorso
articolato espongono la complessa situazione del loro paese.
Il Guatemala è composto da milioni di indigeni, il
66% della popolazione, eppure continuano ad essere i più
discriminati. I trattati di pace firmati nel 1996, tra la
guerriglia e il governo, non hanno cambiato di una virgola
le prassi di sterminio contro gli indigeni; durante la guerra
civile i Maya si scannarono fra loro arruolati a forza o
nella guerriglia o, addirittura a 10 anni, nell'esercito
che rastrellava i bambini maschi nelle scuole. Oggi i giovani,
in crisi di identità, collocano le loro speranze
e sfogano la loro violenza nelle pandillas, baby-gang che
imperversano per il Paese, uccidendosi per nulla, per il
controllo di una via, per un'offesa, per un tiro di crack.
Al resto e agli altri ci pensa la droga, l'alcol e l'estrema
povertà delle campagne, costantemente devastate dall'azione
dei paramilitari. La sinistra parlamentare ha tradito tutte
le aspettative.
In
Canada, dicono, coordinano un lavoro di educazione delle
bambine nelle comunità e lottano direttamente nel
"cuore della bestia", cioè dove hanno sede
tutte quelle compagnie che approfittano del Trattato di
Libero Commercio per saccheggiare il Guatemala e finanziare
lo sterminio dei Maya. "Dobbiamo educare ed educarci"
dicono, "perché nel Nord, quando diciamo
che siamo Maya ci prendono per bugiardi: 'I Maya sono estinti!',
ci rispondono. Dobbiamo lavorare per tornare alla nostra
cosmovisione". Dicono di non vergognarsi di parlare
in lingua, di diffonderla, di vestirsi col "traje"
tipico e mangiare tortillas. "I nostri figli li
cresciamo nella cultura del Mais, affinché non debbano
passare anche loro, come noi, per il processo di decolonizzazione".
"Sono
commosso di essere qui", conclude lui, "però
anche un po' triste. Mancano ancora molti popoli, dove sono
i Mapuche e tutti i fratelli del sud? Dove sono gli altri
21 popoli Maya del Guatemala? E quelli non Maya? Le frontiere,
il permesso di soggiorno, i soldi sono un problema per molti
indigeni. Per il prossimo incontro, che propongo più
a sud nel continente, dobbiamo farci carico anche di questi
ostacoli posti dal sistema coloniale capitalista".
Ritornando
ai delegati di Via Campesina, prende la parola una giovane
indigena Leinca, dell'Honduras. Parla essenzialmente
della questione agraria, di terre assegnate formalmente
da 35 anni e non ancora consegnate. Inoltre, una macabra
beffa: il 36% di queste terre è minato. Parla di
alleanze strategiche nella lotta, come con alcuni settori
della Chiesa e dello sciopero, dei blocchi stradali, delle
17 occupazioni che il 28 agosto del 2007 hanno paralizzato
il Paese al grido di "Acqua e terra per tutti!".
Per
il Nicaragua parla un indigeno Mequito, membro di
Via Campesina, che ripercorre le tappe della rivoluzione
sandinista fino alla legge di autonomia proclamata nel 1987
ma mai applicata dai successivi governi della destra fino
al 1997, quando si sono svolte le prime elezioni autonomiste
e le scuole indigene hanno iniziato a impartire lezioni
in lingua originaria oltre che in spagnolo. Il delegato
definisce l'attuale governo nicaraguese (ancora una volta
in mano agli Ortega) un "governo amico".
Sempre
della medesima organizzazione di contadini, parla un indigeno
del popolo Taino della regione caraibica. Il prologo
ormai è noto: più il capitale cresce, più
i contadini muoiono di fame e sfruttamento. Lo scopo del
Fondo Monetario Nazionale, della Banca Mondiale e della
Banca di Sviluppo Interamericano è quello di far
sparire la piccola e media proprietà agraria. Si
augura un rinascimento politico, come i movimenti indigeni
hanno saputo fare in Venezuela (con Chavez), in Ecuador
(con Correa) e in Bolivia (con Morales) unendosi con i settori
operai e lavoratori, ugualmente colpiti dalla catastrofe
neoliberista.
Un
altro Taino, della Repubblica Dominicana appartenente però
alla combattiva "Warriors Alliance" composta da
molte nazioni indigene del nord, si presenta sulle stampelle
e con la figlia giocando fra le sue gambe. Forse l'intervento
più radicale e più emozionante. Inizia da
molto lontano: nella sua isola Colombo calpestò il
suolo esattamente 515 anni fa. Il suo popolo fu il primo
a scagliargli subito una freccia contro. Iniziò una
resistenza secolare, nelle cui file chiamò anche
moltissimi schiavi africani fuggiaschi e insieme, nella
grande sollevazione del 1868, cacciarono gli spagnoli che
comunque non erano mai riusciti, in tre secoli e mezzo,
a penetrare l'isola, accontentadosi di installare i propri
insediamenti sulla costa. Dove non riuscirono gli iberici,
riuscirono gli Stati Uniti, che nel 1898 imposero le riserve
e il trasferimento forzato delle comunità. "Quando
a noi indigeni ci levano la nostra terra sotto i piedi,
allora sì, perdiamo, perché con lei lasciamo
la nostra identità". Oggi nella Repubblica
Dominicana il sangue Taino scorre nelle vene della maggioranza
dei suoi abitanti, "ma le menti sono state occupate
dall'invasore e dal suo stile di vita".
Dà
vita poi, con lo sguardo fisso all'orizzonte, ad una appassionante
arringa: "Dal Polo Nord al Polo Sud, dagli eschimesi
ai Mapuche bisogna ricercare l'unità del Popolo Rosso,
forgiando le nuove generazioni sull'esempio di Cavallo Pazzo,
Nuvola Rossa, Toro Seduto e Geronimo. Perché l'uomo
bianco ha voluto affrontarci uno alla volta, sterminandoci
uno dopo l'altro: che la prossima battaglia sia invece contro
tutti noi messi insieme, e allora sì, vinceremo.
[...] Non c'è alternativa, o con noi, o contro di
noi. E' una scelta radicale che parte dallo stile di vita:
o la città e dunque la legge dell'uomo bianco, o
la montagna, dunque la legge della Natura. E' una lotta
senza quartiere e siamo disposti a dare la nostra vita:
perché il solo fatto di essere indigeni non garantisce
il paradiso, solo per chi lotta c'è posto in un mondo
migliore".
Il
sole tramonta, laggiù lontano nel mare. In un'atmosfera
dorata e commossa il guerriero Taino invita a osservare
un minuto di silenzio per le centinaia di milioni di indigeni
sterminati dalla colonizzazione. Poi un battito di tamburo
e una voce melodica, un canto in onore a Leonard Peltier,
da 30 anni incarcerato nelle prigioni Yankee per essere
un leader dell'American Indian Movement. E con lui, nell'aria
tiepida e rosseggiante di Vicam, vengono ricordati tutti
i prigionieri politici, i Mapuche, quelli di Oaxaca, quelli
di Atenco, di Guerrero, del Chiapas e degli altri popoli
nativi dell'America Latina. Battiti di tamburo. Si aggiungono
donne sul palco con lo striscione "Free Political Prisoners"
e le voci si sommano. Un brivido e un grido attraversa la
folla, il sole muore, un popolo risorge: libertà!
Intervengono
due signore del popolo Guaranì del Paraguay,
in diversi momenti. La prima, membra di Via Campesina e
della parte occidentale del Paese, ribadisce essenzialmente
la disparità di classe, la forbice tra ricchi e poveri
nel Paraguay, una disparità anche etnica visto che
i più poveri, come sempre sono indigeni. L'altra
signora viene dalla terre orientali e dice che loro non
usano delegati, ma messaggeri. Quindi tira fuori dalla tasca
un registratore e si sparge una musica e delle voci che
parlano in guaranì. E' l'appello di alcuni indigeni
in planton, cioè in presidio permanente, nel centro
di Asuncion perché qualcuno ascolti la loro giusta
richiesta di terre e la voce di uno sciamano, durante una
festa, che saluta l'evento, invitando tutti a sognare insieme,
perchè nei sogni, dice, s'incontra il giusto cammino
nella selva.
Vale
la pena citare, pescando fra i tanti popoli che hanno testimoniato
le loro lotte e che non abbiamo potuto riportare, l'intervento
di Quechua ecuadoregno di Via Campesina. Esordisce
con un sorriso e cosciente che le cose cambiano, "per
esempio io ho paura delle macchine fotografiche, però
ora so che possono esserci utili". Risate del pubblico
e lui aggiunge: "E abbiamo avuto paura anche della
Croce, che per noi non significa nulla se non il simbolo
del massacro". Ripercorrendo la storia del suo
popolo, che apparteneva a una tradizionale guardia Inca,
afferma: "la storia delle Nazioni Indigene, storia
di lotta e civiltà millenarie, è l'orgoglio
e la vera ricchezza dell'America Latina: compagni, noi non
siamo poveri!".
L'attuale
governo, prosegue, sta portando un vento di cambiamento
nel riconoscimento dei diritti indigeni ed è frutto
del successo ottenuto dall'unione dei 24 popoli ancestrali
ecuadoregni; oggi ci sono finalmente scuole in lingua quechua
e si stanno organizzando non per una riforma agraria, ma,
a questo punto, per una vera e propria rivoluzione agraria
che distrugga una volte per tutte il latifondo. Ringrazia
gli organizzatori Yaqui e rende omaggio all'Esercito Zapatista
di Liberazione Nazionale, come hanno fatto tutti i delegati,
perché, dice, gli hanno dato modo di scoprire che
pure nel Nord esistono indios, cosciente di non essere l'unico
a ignorare questa realtà. Invita a costruire una
nuova spiritualità, ricordando che gli europei si
sbagliano a dire che loro ADORANO la terra, i monti, i fiumi;
la realtà è che loro RISPETTANO la terra,
i monti, i fiumi. E sigilla: "Per un'America indigena
e sovrana, globalizziamo la lotta, globalizziamo la speranza!"