Dalla terra che chiamano Canada
                      11 ottobre 2007, TmCrew
                     Hanno 
                      cominciato con l'accecante luce del primo pomeriggio, osservando 
                      poi alcuni minuti di silenzio di fronte a un fluido tramonto, 
                      e hanno terminato con la frescura giunta insieme all'oscurità. 
                      I nativi delle terre del Nord hanno infranto con violente 
                      martellate, battute da fervidi interventi, l'immagine di 
                      un Canada pacifico e tollerante. Sguardi fieri, molti giovani 
                      e fra questi, molte ragazze, che hanno riportarto l'esperienza 
                      di varie Nazioni guerriere che resistono in tutto quel territorio 
                      che la geografia coloniale chiama "Canada". Storie 
                      raccontate in inglese, perchè le lingue originarie 
                      sono state soppiantate con quella ufficiale dell'invasore, 
                      alternando all'oratoria tipica di questi incontri, esperienze 
                      personalissime, lacrime commosse, battute sarcastiche, dubbi 
                      atroci sul cammino da intraprendere e sulla divisione interna 
                      tra i popoli originari.
Hanno 
                      cominciato con l'accecante luce del primo pomeriggio, osservando 
                      poi alcuni minuti di silenzio di fronte a un fluido tramonto, 
                      e hanno terminato con la frescura giunta insieme all'oscurità. 
                      I nativi delle terre del Nord hanno infranto con violente 
                      martellate, battute da fervidi interventi, l'immagine di 
                      un Canada pacifico e tollerante. Sguardi fieri, molti giovani 
                      e fra questi, molte ragazze, che hanno riportarto l'esperienza 
                      di varie Nazioni guerriere che resistono in tutto quel territorio 
                      che la geografia coloniale chiama "Canada". Storie 
                      raccontate in inglese, perchè le lingue originarie 
                      sono state soppiantate con quella ufficiale dell'invasore, 
                      alternando all'oratoria tipica di questi incontri, esperienze 
                      personalissime, lacrime commosse, battute sarcastiche, dubbi 
                      atroci sul cammino da intraprendere e sulla divisione interna 
                      tra i popoli originari.
                    Si 
                      apre dunque così la prima parte degli interventi 
                      previsti per questa giornata dal tema: parole e storie dei 
                      popoli, ubicazione e origine, lotta storica e situazione 
                      attuale. L'esposizione ha tardato molto, necessitando della 
                      traduzione in spagnolo. 
                    Prendono 
                      la parola due bellicosi uomini della nazione Mikmaq, 
                      della zona orientale del Canada. Raccontano di una lunga 
                      storia di guerre interne, alimentate dal regime coloniale, 
                      che hanno ridotto la loro popolazione a 24.000 persone. 
                      Hanno perso, come quasi tutte le nazioni indios del Nord, 
                      la lingua madre e solo ora, dopo un lungo sonno, si stanno 
                      risvegliando le coscienze dei nativi. In questa lotta, dicono, 
                      non sono mancati scontri con la polizia e anche così 
                      i giovani reincontrano lo spirito guerriero dei loro antenati. 
                      Questa generazione apre una nuova fase nella lotta.
                     Tra 
                      bandiere rosse ricamate con la testa di un guerriero con 
                      la cresta al centro di un sole giallo, riportano la loro 
                      esperienze, con le parole di una compagna, il popolo Mohawk, 
                      stanziato tra il Canada e lo stato USA di New York. Raccontano 
                      di una lotta storica contro le grandi corporazioni di questi 
                      Paesi colonialisti e di un'interminabile processo giuridico 
                      per il possesso della terra che nessuno (nè il congresso, 
                      nè la corte) gli riconosce. Solo recentemente, dopo 
                      che hanno intrapreso una serie di azioni dirette, tra cui 
                      l'occupazione di terre in sei stati (recuperando 1800 ettari 
                      di territorio), lo Stato li ha riconosciuti come soggetto 
                      politico e sociale. Ma la risposta prevalente, da parte 
                      delle istituzioni, è la repressione, attraverso la 
                      criminalizzazione del movimento e l'arresto dei suoi attivisti: 
                      "Ci chiamano terroristi nella nostra propria terra. 
                      Per assurdo, dato che le nostre azioni dirette creano loro 
                      perdite economiche, ci citano in giudizio per rinsancire 
                      i danni. Noi che dobbiamo qualcosa a loro! Questa situazione 
                      fa ridere..."
Tra 
                      bandiere rosse ricamate con la testa di un guerriero con 
                      la cresta al centro di un sole giallo, riportano la loro 
                      esperienze, con le parole di una compagna, il popolo Mohawk, 
                      stanziato tra il Canada e lo stato USA di New York. Raccontano 
                      di una lotta storica contro le grandi corporazioni di questi 
                      Paesi colonialisti e di un'interminabile processo giuridico 
                      per il possesso della terra che nessuno (nè il congresso, 
                      nè la corte) gli riconosce. Solo recentemente, dopo 
                      che hanno intrapreso una serie di azioni dirette, tra cui 
                      l'occupazione di terre in sei stati (recuperando 1800 ettari 
                      di territorio), lo Stato li ha riconosciuti come soggetto 
                      politico e sociale. Ma la risposta prevalente, da parte 
                      delle istituzioni, è la repressione, attraverso la 
                      criminalizzazione del movimento e l'arresto dei suoi attivisti: 
                      "Ci chiamano terroristi nella nostra propria terra. 
                      Per assurdo, dato che le nostre azioni dirette creano loro 
                      perdite economiche, ci citano in giudizio per rinsancire 
                      i danni. Noi che dobbiamo qualcosa a loro! Questa situazione 
                      fa ridere..."
                      Mostrano una cintura, vecchia, a bande verticali. Simboleggia 
                      la pacifica convivenza dei popoli, a cui si sottomettevano 
                      tutti i visitatori, bianchi o indigeni che fossero, che 
                      entravano nelle loro terre. E' dal 1600 che portano questo 
                      ricamo, accolto e poi tradito da francesi, inglesi e, infine, 
                      statunitensi. 
                    Le 
                      Cinque Nazioni del Fiume Grande parlano attraverso 
                      la voce di una giovane ragazza emozionata. Racconta della 
                      guerra fratricida che insaguina la sua tribù, di 
                      10.000 persone, dall'arrivo dell'uomo bianc nell'era della 
                      rivoluzione americana, che ha diviso la comunità 
                      in cristiani, osservanti di una setta evangelica, tradizionalisti 
                      e semplici rassegnati che vorrebbero essere nient'altro 
                      che "gringos". Ancora oggi queste profonde divisioni 
                      lacerano il suo popolo, rallentando e annegando il processo 
                      di organizzazione e resistenza. Ricorda però una 
                      fiammata di dignità, quando la parte della tribù 
                      che lotta per la sopravvivenza degli usi e costumi ha occupato, 
                      nel 2006, un terreno nell'Ontario. Il 20 aprile di quell'anno 
                      le forze di polizia canadiensi sgomberano il sito e arrestano 
                      8 attivisti; si sparge la voce e iniziano a giungere giovani 
                      da ogniddove per scontrarsi con la polizia, ritenendo l'azione 
                      di quest'ultima una vera intrusione alle vicende interne 
                      del popolo indio. Migliaia di giovani respingono centinaia 
                      di poliziotti, recuperando la terra. Comunque questo evento 
                      non ha cancellato i problemi di rivalsa interna, di delazione, 
                      di disorganizzazione, incrementati dal malgoverno che non 
                      pensa affatto di voler rinunciare alle numerose città 
                      che ormai sono sorte nel territorio che gli indigeni rivendicano 
                      come proprio.
                    Prosegue 
                      un'altra donna possente, sguardo fiero e altero, accompagnata 
                      da alcuni guerrieri della Nazione Anishnawbe. "Vengo 
                      da luogo dove gli alberi stanno piangendo perché 
                      li tagliano e ringrazio la terra, l'aria, i fiumi, il fuoco, 
                      i monti, il sottosuolo e tutti gli elementi per avermi concesso 
                      di arrivare qui, di fronte a voi". Porta con se 
                      una coperta ricamata, che simboleggia la promessa che fece 
                      alla madre, in punto di morte, di portare il messaggio di 
                      difesa della Madre Terra in lungo e largo per tutti i popoli 
                      nativi. 
                    La 
                      voce si spezza commossa, un applauso la incita.
                    Rivendica 
                      il diritto all'esistenza anche per gli alberi e per i minerali, 
                      il cui saccheggio, dice, non è mai stato autorizzato 
                      dal suo popolo, violando le corporazioni il loro patrimonio 
                      sacro. "Non siamo illegali, perché la legge 
                      che ci giudica è straniera, mentre la nostra la legge 
                      è quella naturale. Semplicemente ogni nazione ha 
                      le sue regole e la sua spiritualità". Il 
                      tono informale dell'intervento, che ironicamente e più 
                      volte interagisce con il pubblico, cede il passo ad una 
                      riflessione profetica: "Gli ultimi animali che ho 
                      visto prima di questo lungo viaggio, sono state delle aquile 
                      che volteggiavano in cielo; è un segnale, dobbiamo 
                      insorgere!". Chiude invitando a onorare le madri 
                      e le figlie, vere custodi della tradizione, coloro che si 
                      prendono cura, con la loro saggezza, della Madre Terra.
                    La 
                      compagna passa la parola ad uomo massiccio, occhiali da 
                      sole e maglietta con scritto "Indigenous Resistance". 
                      Il suo nome è Orso di Zucchero:
                      "Non sapevo che avrei dovuto parlare da un palco, 
                      sono emozionato. Quindi sarò breve. Mi considerò 
                      un sopravvissuto all'occupazione della mia terra, all'inquinamento 
                      delle nostre comunità perpetrato dai colonizzatori, 
                      con la droga, l'alcol, l'inglese", racconta della 
                      vicenda di sua madre "sequestrata all'età 
                      di 8 anni e portata nelle scuole residenziali governative" 
                      e poi abbandonata a se stessa, con un misera pensione, 
                      disabile per le torture ricevute dagli educatori cristiani 
                      e dalla polizia. Come raccontasse una parabola, dice: "Sono 
                      arrivato qui di notte e alcuni compagni stavano montando 
                      questo tendone che vi protegge dal sole. Era buio e non 
                      si vedeva nulla. Ho acceso i fari del mio pick-up per fare 
                      luce e tutti sono accorsi a dare una mano, vedendo che c'era 
                      un gran da fare. Così, con lo sforzo d'ognuno, abbiamo 
                      alzato i pali all'unisono, distruggendo le barriere della 
                      lingua, dell'età, delle etnie. E' stato fantastico 
                      e profetico vedere questo sforzo collettivo e armonico di 
                      decine di persone: SIAMO FORTI, COMPAGNI, E POSSIAMO FARE 
                      VERAMENTE TANTO!"
                     Un 
                      anziano signore, faccia scavata da una mappa di rughe, prende 
                      la parola con la sicurezza di un vecchio capo indiano. E' 
                      uno dei saggi anziani della Nazione Secwepemc e dopo 
                      aver ricordato che il suo fiero popolo non ha MAI firmato 
                      un trattato col governo invasore, fa un appello perché 
                      non si dimentichi il lato spirituale della lotta. Si rivolge 
                      soprattutto ai ragazzi e presenta quelli che l'accompagnano 
                      sul palco, la maggioranza donne, raccontandoci che ben il 
                      70% della popolazione della sua tribù è composto 
                      da giovani, i quali sempre più stanno prendendo coscienza 
                      di essere l'ultima generazione chiamata a risolvere questo 
                      secolare conflitto con l'uomo bianco. Poi racconta di una 
                      battaglia nel '95, dove in piena cerimonia religiosa il 
                      supposto proprietario del latifondo aveva deciso di farla 
                      finita a modo suo con gli indios, "io mi sono abbastanza 
                      irato e, a quel punto, gli ho detto cosa pensavo di lui 
                      e ho preso il mio giocattolino: un AK47". La sparatoria 
                      è durata due mesi, con tanto di entrata di tank nella 
                      riserva e non ricordo quante migliaia di pallotole scambiate.
Un 
                      anziano signore, faccia scavata da una mappa di rughe, prende 
                      la parola con la sicurezza di un vecchio capo indiano. E' 
                      uno dei saggi anziani della Nazione Secwepemc e dopo 
                      aver ricordato che il suo fiero popolo non ha MAI firmato 
                      un trattato col governo invasore, fa un appello perché 
                      non si dimentichi il lato spirituale della lotta. Si rivolge 
                      soprattutto ai ragazzi e presenta quelli che l'accompagnano 
                      sul palco, la maggioranza donne, raccontandoci che ben il 
                      70% della popolazione della sua tribù è composto 
                      da giovani, i quali sempre più stanno prendendo coscienza 
                      di essere l'ultima generazione chiamata a risolvere questo 
                      secolare conflitto con l'uomo bianco. Poi racconta di una 
                      battaglia nel '95, dove in piena cerimonia religiosa il 
                      supposto proprietario del latifondo aveva deciso di farla 
                      finita a modo suo con gli indios, "io mi sono abbastanza 
                      irato e, a quel punto, gli ho detto cosa pensavo di lui 
                      e ho preso il mio giocattolino: un AK47". La sparatoria 
                      è durata due mesi, con tanto di entrata di tank nella 
                      riserva e non ricordo quante migliaia di pallotole scambiate.
                    Dello 
                      stesso popolo, Secwepemc, parlano alcune ragazze, una con 
                      la figlia in braccio. Parlano delle scuole residenziali 
                      in cui sono stati cresciuti i loro genitori. Sono dei campi 
                      di concentramento, attivi per quasi tutto il '900, in cui 
                      i bambini strappati alle comunità venivano educati, 
                      forzatamente civilizzati dai sacerdoti e maestri del Dio 
                      bianco. Lo scopo di queste scuole era sradicare i fanciulli 
                      dalla propria terra, famiglia e tradizioni e incanalarli 
                      al sistema occidentale. La maggioranza di questi bambini 
                      e bambine sono stati violentati dai preti che li "accudivano". 
                      Il frutto di questa scuola del terrore si vede oggi: molti 
                      adulti hanno paura di uscire dalla riserva e andare a cacciare 
                      nei monti e boschi vicini, anche perché quando lo 
                      fanno, vengono arrestati dalla polizia forestale.
                    Dicono 
                      di appartenere al "movimento giovanile nativo" 
                      della "Società dei Guerrieri", però 
                      questo è solo l'ultimo nome, perché questo 
                      movimento in realtà è sempre esistito da quando 
                      i giovani hanno cominciato a dare la propria vita per difendere 
                      la propria terra, vestita di boschi, ghiacciai e aria pura, 
                      dall'invasore. Che scelgano la via pacifica, ci dicono, 
                      o la via armata, sempre si trovano di fronte la polizia 
                      antiterrorista. L'ultima campagna che stanno intraprendendo 
                      è il boicottaggio delle Olimpiadi Invernali del 2010 
                      in Canada e si augurano di riuscire quello che nessuno è 
                      mai riuscito a fare: fermare l'ipocrita macchina del business 
                      mascherata da evento sportivo. Invitano a visitare il sito 
                      no2010.org 
                      e soprattutto a partecipare alla costruzione di questa azione 
                      anticapitalista. 
                    Prosegue 
                      una giovane indigena urbanizzata della Nazione Gitxsan, 
                      che vive a Vancouver. Le perdizioni della città distraggono 
                      i giovani con feticci artificiali, mentre i loro padri e 
                      i loro nonni muoiono di overdose o alcolizzati. C'è 
                      però un progetto, una rivista chiamata Filo Rosso, 
                      che raccoglie le vicende dei giovani nativi, le loro poesie, 
                      i loro racconti, affinchè tutti i ragazzi possano 
                      riscoprire e riconoscere in una memoria, in una storia comune. 
                      Il periodico è più che una semplice rivista, 
                      è un'arma di resistenza culturale di decolonizzazione 
                      mentale, ampiamente diffuso tra Canada e USA. Il sito è 
                      www.redwiremag.com. 
                      
                    Un'altra 
                      ragazza impone una riflessione di genere sulla questione 
                      indigena; racconta che prima dell'arrivo dell'uomo bianco 
                      molte delle nazioni indigene del Nord avevano un sistema 
                      tendenzialmente matriarcale e nelle decisioni comunitarie 
                      le donne ponevano la parola decisiva. I colonizzatori incominciarono 
                      a rivolgersi esclusivamente agli uomini, ignorando, per 
                      costume occidentale, le donne. Questo atteggiamento, perpetuato 
                      per cinque secoli, ha cambiato decisamente i rapporti di 
                      potere e i ruoli di genere nelle comunità. In questo 
                      contesto culturale si colloca la spietata campagna di sterminio 
                      del patriarcato che giustifica l'abberrante e quotidiana 
                      violenza che le donne subiscono, nelle case, nelle strade. 
                      C'è una strada in Canada, detta "la via delle 
                      lacrime" dove sono state assassinate circa 200 donne, 
                      la maggioranza minori di 25 anni e non c'è un colpevole. 
                      Ossia, colpevole è lo stato e il sistema patriarcale 
                      che minimizza mentre ricerca scientificamente la repressione 
                      dell'intelligenza indigena femminile. In Canada ci sono 
                      1000 donne indigene "scomparse". Tutto ciò 
                      è triste, dice, però, ricorda, dove c'è 
                      oppressione, c'è resistenza. Invita a non confidare 
                      in nessun governo ma concentrare gli sforzi nella costruzione 
                      dell'autodifesa.
                     Chiude 
                      la tribù Esthalù, un territorio di 
                      500 km di costa tra Vancovuoer e l'Alaska. Raccontano la 
                      storia di un orgoglioso popolo guerriero, con un'alta coesione 
                      comunitaria che gli invasori non riuscirono a sconfiggere 
                      sul campo di battaglia. Questa tribù si installò 
                      in enormi case dove convivevano fino a 400 persone. Lo sterminio 
                      fu perpetrato con armi biologiche: epidemie di vaiolo e 
                      morbillo, immesse intenzionalmente, attraverso i regali 
                      dei mercanti mandati dall'esercito; i sopravvissuti furono 
                      internati nelle scuole residenziali. Oggi, però, 
                      i giovani rappresentano la rinascita e, con un racconto 
                      di una profezia su un'aquila e un condor, sono convinti 
                      di reincarnare le forze ancestrali di una generazione di 
                      guerrieri, resuscitata e rigenerata con l'occupazione di 
                      Wounded Knee del 1973, tappa di rinascita spirituale e politca 
                      del Movimento dello spirito del Nord.
Chiude 
                      la tribù Esthalù, un territorio di 
                      500 km di costa tra Vancovuoer e l'Alaska. Raccontano la 
                      storia di un orgoglioso popolo guerriero, con un'alta coesione 
                      comunitaria che gli invasori non riuscirono a sconfiggere 
                      sul campo di battaglia. Questa tribù si installò 
                      in enormi case dove convivevano fino a 400 persone. Lo sterminio 
                      fu perpetrato con armi biologiche: epidemie di vaiolo e 
                      morbillo, immesse intenzionalmente, attraverso i regali 
                      dei mercanti mandati dall'esercito; i sopravvissuti furono 
                      internati nelle scuole residenziali. Oggi, però, 
                      i giovani rappresentano la rinascita e, con un racconto 
                      di una profezia su un'aquila e un condor, sono convinti 
                      di reincarnare le forze ancestrali di una generazione di 
                      guerrieri, resuscitata e rigenerata con l'occupazione di 
                      Wounded Knee del 1973, tappa di rinascita spirituale e politca 
                      del Movimento dello spirito del Nord. 
                    Oltre 
                      a rendere noto che nella loro terra, in Canada, circa 150 
                      fiumi sono minacciati dalla privatizzazione promossa dallo 
                      Stato della California, interessato a quelle fonti idriche, 
                      i compagni ci fanno sapere che circa 180 compagnie petrolifere, 
                      energetiche e estrattive hanno sede nella city di Vancouver. 
                      Invitano quindi a coordinare azioni, perchè il nemico, 
                      dicono, ha le sue sedi e i suoi punti deboli. Nella Colombia 
                      Britannica, il nome coloniale delle loro terre, c'è 
                      un forte movimento indigeno, che compie costantemente blocchi 
                      stradali, cortei, occupazioni, azioni dirette con l'obbiettivo 
                      a medio termine di "convertire le prossime Olimpiadi 
                      in un disastro". 
                    Le 
                      ultime parole di un guerriero Esthalù, sono un inno 
                      alla resistenza: "Quando pensiamo di non farcela, 
                      per gli arresti, i morti, per il fatto che ci sentiamo soli 
                      contro un nemico invincibile, dobbiamo ripercorrere con 
                      la memoria la storia dei grandi imperi e vedremo che non 
                      ne esiste uno che duri in eterno. Questo, quello degli yankee, 
                      già sta accusando duri colpi impantanandosi in una 
                      guerra che gli iracheni non gli lasciano vincere. Infine, 
                      trionferemo, perché dalla nostra parte abbiamo la 
                      Natura e le forze della Madre Terra, quelle forze veramente 
                      invincibili."