PARTE TERZA.
LA STESSA VECCHIA STORIA.
Capitolo 9.
NUOVI FARDELLI PER L'UOMO BIANCO.
Il governo americano, mentre realizzava il suo progetto di deportazione degli indiani e di annessione delle loro terre, fu anch'esso assillato dal problema di come suscitare nelle menti dei 'rudi barbari' la consapevolezza dei loro reali bisogni. L'esempio probabilmente più rilevante si ebbe nel 1880, quando Washington decise di annullare i solenni trattati che riconoscevano alle 'cinque tribù civilizzate', brutalmente cacciate dalle loro terre d'origine, la proprietà dell'Oklahoma orientale. Il territorio indiano era stato concesso a queste nazioni, senza limiti di tempo, con un 'patto' del 1835 che molti capi indiani furono costretti ad accettare riconoscendo che "loro sono forti e noi siamo deboli". "Eravamo tutti contrari alla svendita della parte orientale del nostro paese", scrissero i firmatari al Congresso, condannando il governo Usa per "aver fatto di noi dei reietti e degli esuli nella nostra terra, facendoci allo stesso tempo cadere in un abisso di degradazione morale che sta portando il nostro popolo verso un rapido annientamento". Per i coloni inglesi, gli accordi di pace avevano un significato particolare, come spiegò il Consiglio di Stato della Virginia nel '600: non appena gli indiani "si sentiranno sicuri per il trattato, avremo un ottimo vantaggio sia per prenderli di sorpresa che per tagliare il loro granturco". Un'idea sempre attuale.
Il trattato del 1835 aveva già sostituito quelli precedenti, che risalivano al 1785, quando le colonie americane resesi recentemente indipendenti da Londra imposero ai Cherokee (i quali, ovviamente, avevano appoggiato gli inglesi nella guerra rivoluzionaria) di rinunciare ufficialmente a delle terre che, secondo antecedenti impegni, sarebbero invece spettate agli indiani. Il tutto mentre sulla carta veniva scritto che il Congresso "non vuole alcuna delle vostre terre, né qualsiasi altra cosa che vi appartenga". "Un atto umanitario e generoso da parte degli Stati Uniti", secondo le parole del rappresentante americano. Nel 1790, George Washington assicurò i Cherokee che "in futuro non potrete essere privati delle vostre terre": il nuovo governo "proteggerà tutti i vostri diritti... Gli Stati Uniti saranno onesti e manterranno i loro impegni". Il presidente Jefferson aggiunse: "Sinceramente vi auguro di avere successo nei vostri lodevoli sforzi per salvare ciò che resta della vostra nazione e di potervi dedicare a laboriose occupazioni, sotto un governo basato sulla legge. In questo potrete sempre far conto sui consigli e l'assistenza degli Stati Uniti". Negli anni che seguirono, i coloni continuarono ad occupare i territori indiani imponendo sempre nuovi trattati e cessioni territoriali. Nelle aree rimaste agli indiani, a partire dal 1800, sorse una fiorente società agricola con manifatture tessili, scuole, macchine da stampa, ed un governo efficiente molto ammirato dagli stranieri. Nel 1825, una relazione destinata al Dipartimento della Guerra dette "una descrizione entusiastica del paese e della nazione Cherokee", come ricordò Helen Jackson nella sua (per molti versi) eccezionale storia ottocentesca della deportazione degli indiani, citandone lunghi elogi nei confronti dell'avanzata civiltà sviluppata dai Cherokee e dei 'principi repubblicani' sui quali si basava. Intanto, i maggiori filosofi europei dissertavano sulla strana mancanza di 'forza psichica' all'origine della fine degli indiani e del loro 'scomparire non appena lo Spirito si sarà avvicinato' attraverso la presenza europea.
Per quanto notevoli, nel caso dei Cherokee, quei progressi erano stati compiuti dal popolo sbagliato che, in quanto tale, di nuovo sbarrava la via del 'progresso' inteso nel senso 'politicamente corretto' della parola. L'"Indian Removal Act" (Decreto sull'Allontanamento degli Indiani) del 1830 di Andrew Jackson fu seguito da un trattato imposto nel 1835, con il quale i firmatari rinunciavano a tutte le rivendicazioni delle 'nazioni civilizzate' indiane sulle loro terre ad est del Mississippi. Jackson fu profondamente colpito dalla propria generosità "nell'aver fatto il mio dovere nei confronti dei nostri figli rossi". "Ogni possibile fallimento rispetto alle mie buone intenzioni, non potrà essere attribuito a me ma al fatto che essi non sono stati capaci di assolvere ai doveri verso se stessi". Non solo Jackson stava concedendo a "questi figli della foresta" l'opportunità "di migliorare la loro condizione in una terra ignota" come avevano fatto "i nostri antenati", ma persino provvedeva a sostenere "il costo del loro allontanamento", un gesto colmo di "sentimenti amichevoli" che "migliaia di persone della nostra stessa gente accetterebbe lietamente" se solo fosse offerto anche a loro.
Tre anni dopo, 17 mila Cherokee furono cacciati dalle baionette dell'esercito americano verso l'Oklahoma "su un percorso così segnato dalle tombe che da allora fu sempre conosciuto come il 'sentiero delle lacrime'" (Thurman Wilkins); solo la metà dei Cherokee sopravvisse a quell'operazione che il ministro della Guerra definì, con il solito autocompiacimento che si accompagna ad indicibili atrocità, come il frutto di una "politica generosa e illuminata" del governo Usa.
Passando in rassegna le notevoli realizzazioni della nazione Cherokee ed il trattamento che le fu riservato, Helen Jackson scrive: "Nell'intera storia dei rapporti tra il nostro governo e le tribù indiane, non vi è un capitolo così oscuro quanto la storia delle perfidie commesse verso questa nazione. Verrà un giorno in cui, nel lontano futuro, allo studente di storia americana tutto ciò sembrerà quasi incredibile" - un giudizio indiscutibile, anche se quel giorno rimane ancora lontano (14).
Nel 1870, il Ministero degli Interni americano riconobbe che "i Cherokee, come le altre nazioni civilizzate indiane [del territorio dell'Oklahoma], possiedono per sempre le loro terre con titoli definiti dalla suprema legge della terra", una "dimora permanente" concessa "dietro la più solenne garanzia degli Stati Uniti" che "rimarrà loro per sempre - una dimora che non sarà mai in futuro ostacolata dall'estendersi intorno ad essa dei confini o dall'imposizione su di essa della giurisdizione di un Territorio o di uno Stato", o disturbata in alcun modo. Sei anni dopo, il Dipartimento dichiarava che la situazione nel territorio indiano è "complicata ed imbarazzante, e si pone la questione se sia possibile permettere che una notevole parte del paese debba rimanere per un periodo indefinito come un'incolta area improduttiva, oppure se il governo debba decidere la riduzione dell'estensione della riserva". Il Dipartimento aveva precedentemente descritto quella 'incolta area improduttiva' come un miracolo del progresso, con una prospera attività produttiva ed un popolo che viveva in un discreto benessere, con un livello di istruzione "paragonabile a quello impartito da un normale college degli Stati Uniti", un'industria ed un commercio fiorenti, un efficiente governo costituzionale, un alto tasso di scolarizzazione ed un'atmosfera generale di "civiltà e di illuminismo" non paragonabile a qualsiasi altro paese: "Quello che nel caso dei britannici ha richiesto per la sua realizzazione 500 anni, loro l'hanno ottenuto in 100", dichiarava meravigliato il Dipartimento degli Interni (15).
Nel 1880 Helen Jackson termina il suo resoconto con una domanda "Il governo degli Stati Uniti deciderà di 'ridurre l'estensione della riserva'?". Avrebbe avuto presto una risposta, esattamente nel senso da lei previsto. Ancora una volta, l'avanzata civiltà degli indiani impediva il progresso della Civiltà propriamente intesa.
Angie Debo nella sua famosa ricerca "E le Acque Continuano a Scorrere" descrive quello che sarebbe poi successo. Nel territorio indiano indipendente, la terra era di proprietà collettiva e la vita era prospera e felice. Il "Federal Indian Office" (Ufficio Federale Indiano del governo centrale) si opponeva al carattere comunitario della proprietà terriera sia per motivi ideologici, sia per i suoi effetti pratici: ostacolava la conquista da parte di intrusi bianchi. Nel 1883, un gruppo di presunti filantropi iniziò ad incontrarsi per discutere i problemi degli indiani. Al loro terzo incontro partecipò il senatore Henry Dawes del Massachussets, considerato un 'eminente esperto degli indiani', appena tornato da una visita nel territorio indiano. Come altri osservatori, il senatore era entusiasta di ciò che aveva visto: "Non esiste un solo povero in quella nazione, e la nazione non ha il minimo debito. Ha eretto la propria capitale, da noi visitata, ed ha costruito scuole e ospedali". Nessuna famiglia era senza casa.
Detto ciò Dawes consigliò di spazzar via quella società, perché aveva un difetto di fondo, del quale gli arretrati indigeni non si erano resi conto:
"Il difetto del sistema era ovvio: essi hanno raggiunto il loro limite, perché la loro terra è di proprietà comune. E' il sistema di Henry George, ed in esso non vi è alcuna spinta ad avere una casa migliore di quella del vicino. Non vi è egoismo, che è l'essenza della civiltà. Finché questo popolo non rinuncerà alle sue terre e non le dividerà tra i cittadini in modo che ognuno sia proprietario della terra che coltiva, non potranno progredire oltre".
In breve, anche se in apparenza civilizzato e avanzato, quel popolo era culturalmente arretrato, non avendo coscienza della 'fondamentale tendenza umana a consumare' o ad avere la meglio sui vicini, e ignorando la 'spregevole regola dei padroni'.
La proposta di Dawes di portare l'illuminismo ai selvaggi fu approvata dai filantropi della costa orientale, e presto applicata. Dawes fece varare una legge che vietava la proprietà collettiva della terra e presiedette i lavori della commissione che gestì la conseguente spoliazione degli indiani. Le loro terre e proprietà furono saccheggiate, e gli indiani furono dispersi nelle remote zone urbane dove soffrirono un'atroce povertà e miseria.
Così vanno gli esperimenti; non sempre funzionano. Ma, a ben vedere, questo come gli altri test condotti nelle nostre 'zone di sperimentazione' in genere si sono conclusi con il successo di coloro che li pensano e li realizzano: gli architetti della politica, secondo Adam Smith - uomini d'onore, sempre guidati dalle intenzioni più generose che, guarda caso, coincidono con i loro interessi. Se gli esperimenti non hanno funzionato per le popolazioni indigene del Nordamerica - o per i brasiliani, gli haitiani, i guatemaltechi, gli africani, i bengalesi, o le madri che ricevono negli Usa l'assistenza pubblica, o altri che intralciano il passo ai ricchi che comandano - possiamo cercarne il motivo nei loro geni, nei loro 'difetti' e insufficienze. Oppure possiamo meditare sulle ironie della storia.
Si comprende facilmente l'attrazione che provavano gli intellettuali del dopoguerra per l'opera di Reinhold Niebuhr, 'il teologo del sistema', il santone di intellettuali kennediani come George Kennan, e molti altri. Quanto deve essere confortevole meditare sul "paradosso della grazia", il punto cardine del suo pensiero: l'inevitabile "macchia del peccato su tutte le conquiste storiche". La necessità di "scegliere consapevolmente il male per la salvezza del bene" - dottrine rassicuranti per coloro che si preparano ad "assumersi le responsabilità del potere" o, in parole povere, ad iniziare una vita da criminali (16).
Note:
N. 14. Jackson, "Century". Wilkins, "Cherokee Tragedy",
p. 3, 4, 287. Sul trattato di pace, Stannard, "American Holocaust",
p. 106. Andrew Jackson, Rogin, Fathers, 215n. Per le valutazioni sul numero
delle vittime, vedi Lenore Stiffarm e Phil Lane, 'The Demography of Native North
America', in Jaimes, "State".
N. 15. Jackson, "Century".
N. 16. Per dettagli, vedi il mio 'Divine License to Kill', con discussioni di
opere di e su Niebuhr, pubblicate in gran parte in "Grand Street",
inverno 1987.