PARTE TERZA.
LA STESSA VECCHIA STORIA.
Capitolo 8.
LA TRAGEDIA DI HAITI.
Nel giugno del 1985, il Parlamento haitiano adottò all'unanimità una nuova legge che imponeva a tutti i partiti politici il riconoscimento del presidente a vita Jean-Claude Duvalier quale arbitro supremo della nazione, metteva al bando i cristiani democratici e concedeva al governo l'opzione di sospendere, anche senza motivo, l'attività dei partiti. La legge fu approvata con una maggioranza del 99,98%. Il governo di Washington rimase molto colpito da questa decisione: si trattava di "un incoraggiante passo avanti", disse ai suoi ospiti l'ambasciatore americano nel corso dei festeggiamenti del 4 luglio, anniversario dell'indipendenza degli Stati Uniti. L'amministrazione Reagan poté quindi sostenere al Congresso che la 'democratizzazione' stava procedendo e che l'assistenza militare ed economica poteva quindi continuare a fluire verso Haiti- nelle tasche di 'Baby Doc' e dei suoi collaboratori. A questo fine il Congresso venne informato - come avviene ogni qual volta un regime ha bisogno dei nostri aiuti militari per reprimere, a fin di bene, la popolazione locale - che ad Haiti vi era un netto miglioramento della situazione dei diritti umani. Del resto la Commissione Affari Esteri della Camera, controllata dai democratici, aveva già chiesto all'Amministrazione di "mantenere relazioni amichevoli con il governo non comunista di Duvalier", dando così implicitamente il suo assenso ai progetti di Reagan.
Ma questi positivi sviluppi furono di breve durata. Con il mese di dicembre, le proteste popolari misero di nuovo alla prova le mille risorse del terrore di stato. Due mesi dopo il "Wall Street Journal" descrisse l'accaduto con convincente franchezza:
"Un funzionario dell'Amministrazione ha dichiarato che, alla fine dello scorso anno, la Casa Bianca era giunta alla conclusione, in seguito a manifestazioni di dimensioni mai viste prima di allora, che il regime stava andando in pezzi... Gli analisti Usa sapevano bene che gli stessi circoli dominanti ad Haiti avevano perso fiducia nel trentaquattrenne presidente a vita. E così i funzionari statunitensi, a partire dal segretario di Stato George Shultz, cominciarono a parlare apertamente di una 'democratizzazione' di Haiti".
Il cinismo della posizione di Washington venne confermato dai contemporanei sviluppi della situazione nelle Filippine dove la Casa Bianca, dopo che l'esercito e l'aristocrazia le avevano fatto capire di non essere più disposti a sostenere un bandito (Ferdinand Marcos) al quale Reagan e Bush avevano da poco espresso la loro ammirazione e persino 'amore', "aveva lanciato un appello per una 'democratizzazione' " del paese. Successivamente quegli avvenimenti sono stati invece presentati come prove che, particolarmente negli anni '80, gli Usa "ispirarono il trionfo della democrazia" ("New Republic") (9).
Duvalier fu quindi debitamente rimosso e trasportato a bordo di un aereo militare Usa nel suo confortevole esilio francese, ed il potere fu assunto dal capo delle forze armate, il generale Henri Namphy. Quest'ultimo, protetto dagli Usa e stretto collaboratore di Duvalier, secondo il vicesegretario di Stato Eliott Abrams (che anche in quest'occasione rivelò il suo amore per la democrazia) rappresentava "la migliore garanzia per una democratizzazione di Haiti". Non tutti furono d'accordo. Un sacerdote di una piccola parrocchia di campagna, padre Jean-Bertrand Aristide, dichiarò: "Siamo felici che Duvalier se ne sia andato" ma "adesso abbiamo il duvalierismo senza Duvalier". Pochi lo ascoltarono, ma gli eventi gli avrebbero dato presto ragione.
Le elezioni vennero fissate per il novembre del 1987, ma Namphy ed i suoi sostenitori, l'esercito e la vecchia élite dominante, erano decisi a non farsi sfuggire di mano la situazione. I "Tontons Macoute" furono riorganizzati ed il terrore continuò a mietere numerose vittime. Un massacro particolarmente efferato ebbe luogo nel luglio del 1987 ad opera dei militari e dei "Macoute". Questi infatti furono i responsabili di un vero e proprio dilagare della violenza che culminò nel massacro del giorno delle elezioni, e fornì a Namphy il pretesto per cancellarle. Durante tutto quel periodo, con la scusa di aiutare le forze armate a mantenere l'ordine, l'assistenza militare americana non venne mai sospesa - mentre invece erano proprio i militari ed i "Macoute", con le loro violenze ed atrocità a sconvolgere 'l'ordine' del paese. I programmi di aiuti all'esercito haitiano vennero temporaneamente bloccati solamente dopo la strage del giorno delle elezioni, quando già il 95% dei finanziamenti per il 1987 era già stato erogato.
Seguirono nuove elezioni-farsa organizzate dai militari, un colpo di stato che riportò Namphy al potere ed una serie di atrocità 'duvalieriste senza Duvalier' da parte dell'esercito e dei "Macoute", in particolare contro i sindacati e le organizzazioni contadine. Quando alcuni gruppi americani per la difesa dei diritti umani chiesero spiegazioni all'ambasciatore Usa Bruce McKinley, lui rispose: "Non vedo prove dell'esistenza di una politica contraria ai diritti umani". E' vero, la violenza esiste, ma "fa parte della cultura". Viene da chiedersi di quale cultura parlasse (10).
Un mese dopo, un gruppo di killer attaccò la chiesa di Aristide mentre il sacerdote stava celebrando la messa, uccidendo almeno 13 fedeli e ferendone altri 77. Aristide decise allora di darsi alla clandestinità. Successivamente il generale duvalierista, Prosper Avril, riuscì con un altro golpe ad impadronirsi del potere, arrestò Namphy e lo espulse dal paese. A questo punto Aristide fu autorizzato dal capo dell'ordine salesiano di Haiti, al quale apparteneva, a tornare nella sua parrocchia, ma non vi sarebbe restato a lungo. Tra la costernazione delle gerarchie ecclesiastiche conservatrici, Aristide continuò a lanciare appelli per la libertà e ad invocare la fine del terrorismo esercitato dalle autorità contro l'inerme popolazione. Così, poco tempo dopo, il sacerdote ricevette dai suoi superiori di Roma l'ordine di lasciare immediatamente il paese. Ciò provocò una vera sollevazione popolare che gli impedì di partire e così Aristide continuò la sua opera dalla clandestinità. Pur avendo deciso all'ultimo momento di partecipare alle elezioni presidenziali del dicembre del 1990, il sacerdote ottenne una vittoria straordinaria conquistando il 67% dei voti; in tal modo sconfisse il candidato sostenuto dagli americani, l'ex funzionario della Banca Mondiale Marc Bazin, arrivato secondo con il 14% dei consensi. Il coraggioso teologo della liberazione, impegnato nella 'opzione preferenziale per i poveri' dei vescovi latinoamericani, si insediò così nel mese di febbraio del '91 come il primo presidente democraticamente eletto della storia haitiana - ma per poco tempo: fu rovesciato con un colpo di stato militare il 30 settembre di quello stesso anno.
"Con la presidenza di Aristide, per la prima volta nella tormentata storia della Repubblica, sembrava che Haiti stesse per liberarsi dal giogo del dispotismo e della tirannide che avevano soffocato ogni precedente tentativo di arrivare ad una vera democrazia ed autodeterminazione", osservò il "Washington Council on Hemispheric Affairs" in un rapporto stilato dopo il golpe. La vittoria del sacerdote "rappresentò il frutto del suo più che decennale impegno civile ed educativo", sostenuto dagli attivisti religiosi locali, dalle piccole comunità di base e da altre organizzazioni popolari raccolte nel movimento "Lavalas" ('inondazione') che lo portarono al potere; "esempio da manuale di un processo di partecipazione politica e democratica partito dal basso". Aristide si era impegnato con la sua base popolare a "dare il potere ai poveri", secondo un 'modello populista' che avrebbe potuto divenire un esempio per altri paesi. Questa possibilità suscitò forti timori a Washington, dal momento che il modello Usa di 'democrazia' non prevede l'esistenza di movimenti popolari che si prefiggano la "giustizia economica e sociale, la partecipazione politica e la trasparenza negli affari di governo" piuttosto che "il mercato internazionale o qualche altro luogo comune in voga". Inoltre il "successo fenomenale" di Aristide nel risanare il bilancio dello stato e "ridurre l'eccessivo numero di burocrati" suscitò "grande inquietudine" a Washington perché, in tal modo, il presidente haitiano riuscì ad ottenere più di mezzo miliardo di dollari in aiuti dalla comunità finanziaria internazionale, in gran parte non americani. Tutto ciò fece sorgere a Washington il sospetto che "Haiti stesse per scivolar fuori dall'orbita finanziaria Usa" e "volesse dimostrare un certo grado di indipendenza". Stava così nascendo una nuova 'mela marcia' (11).
A Washington tutto ciò non piaceva affatto. Dopo la caduta del loro alleato Duvalier, l'unica forma di democrazia possibile per gli Usa era quella caratterizzata dalla 'opzione preferenziale per i ricchi', intendendo con ciò soprattutto gli investitori americani. Per facilitare questa soluzione, la bipartitica (democratica e repubblicana) "National Endowment for Democracy" ("Ned") inviò i suoi fondi 'per la costruzione della democrazia' all'"Haitian International Institute for Research and Development" ("Ihred") ed a due sindacati conservatori. L'"Ihred" sosteneva Bazin ed altre figure politiche che, pur avendo uno scarso sostegno popolare in patria, potevano contare su forti appoggi negli Usa, dove la "Ned" li faceva passare come esponenti di un movimento democratico di massa. Il Dipartimento di Stato, da parte sua, contattò l'A.I.F.L.D., un'affiliata del sindacato A.F.L.-CIO nota per le sue attività antisindacali nel Terzo Mondo, perché rafforzasse la sua presenza ad Haiti "a causa della presenza di sindacati radicali e dell'eventualità che altri lo potessero diventare". L'A.I.F.L.D. rispose positivamente dando ulteriore sostegno ad un sindacato, da questa finanziato sin dal 1984, che era in parte gestito dalla polizia politica di Duvalier. Alla vigilia delle elezioni, l'americana "Ned" finanziò inoltre varie altre organizzazioni, tra le quali quella per i diritti umani diretta da Jean-Jacques Honorat, ex ministro del Turismo sotto Duvalier ed in seguito oppositore del suo regime. Inoltre la "Ned", tramite il "Puebla Institute", organismo della destra, finanziò anche "Radio Soleil" passata, grazie all'influenza delle gerarchie cattoliche reazionarie, da posizioni anti-duvalieriste all'area conservatrice.
In seguito alla vittoria di Aristide nelle elezioni presidenziali, gli Usa decisero un drastico aumento dei loro finanziamenti, in gran parte attraverso l'"Usaid", ad esponenti ed organizzazioni politiche haitiane. Secondo Kenneth Roth, vice direttore di "Human Rights Watch", tali finanziamenti avevano come obiettivo il rafforzamento dei gruppi conservatori che potevano "agire come un freno istituzionale contro Aristide", nel tentativo di "spostare il paese verso destra". Dopo il rovesciamento del presidente eletto ed il ritorno al potere delle élite locali, Honorat divenne il primo ministro "de facto" sotto il regime militare. Le organizzazioni popolari che avevano sostenuto Aristide furono violentemente represse, mentre quelle appoggiate dal "Ned" e dall'"Usaid" si salvarono (12).
Un'attenta osservatrice delle vicende haitiane, Amy Wilentz, scrive che durante il breve periodo della presidenza di Aristide "per la prima volta nell'era post-Duvalier, il governo degli Stati Uniti si interessò ai diritti umani ed al primato del diritto" (sotto i Duvalier, del resto, Washington non era andata oltre un po' di retorica sull'argomento). Il Dipartimento di Stato avrebbe inoltre "fatto circolare una vasta documentazione relativa a presunte violazioni dei diritti umani" commesse durante la presidenza di Aristide - "cosa che non aveva fatto sotto i governi precedenti, duvalieristi e militari", i quali erano stati invece considerati idonei destinatari di aiuti, anche militari, "in base a mai dimostrati miglioramenti nel campo dei diritti umani":
"Durante i quattro regimi che precedettero Aristide, gli organismi internazionali per la difesa dei diritti umani e molti democratici avevano supplicato il Dipartimento di Stato di prendere in considerazione l'invio di aiuti all'opposizione democratica di Haiti. Ma le uniche misure prese, finché Aristide non diventò presidente, furono quelle in favore del governo e dei militari. Con il nuovo presidente invece, improvvisamente, gli Stati Uniti cominciarono a pensare come meglio aiutare quegli haitiani che volevano limitare i poteri dell'esecutivo o sostituire, costituzionalmente, il governo".
L'enorme progetto "Sviluppare la Democrazia" dell'"Usaid" fu "specificamente creato per finanziare quei settori del mondo politico haitiano più disposti ad opporsi al governo di Aristide" (13).
Tutto assolutamente normale. Una prova ulteriore che la 'democrazia' ed i 'diritti umani' sono considerati puri strumenti di potere, di nessun valore intrinseco, anzi pericolosi e discutibili; come sa qualsiasi persona razionale che conosca un po' la storia ed il funzionamento delle istituzioni americane.
Prima di decidere se candidarsi o meno alle elezioni presidenziali del '90, Aristide aveva osservato che "naturalmente gli Usa hanno i loro progetti per Haiti", aggiungendo poi di trovare normale che i ricchi volessero investire ottenendo il massimo profitto: "Si tratta di un comportamento normale per i capitalisti, e non m'importa se gli Usa si regolano in questo modo a casa loro... Ma è impensabile che vengano qui ad imporre la loro volontà su un altro popolo", che non capiscono e di cui non hanno alcun rispetto. "Non posso accettare che Haiti sia ciò che gli Usa vogliono che sia". E' chiaro quindi perché Aristide se ne doveva andare (14).
Da queste parti, anche nell'era del dopo-guerra fredda con il suo acclamato
Nuovo Ordine Mondiale, le eccezioni sono rare.
Nel mese di dicembre l'osservatorio per i diritti umani "Americas Watch"
denunciò che l'esercito, immediatamente dopo aver ripreso il potere (il
30 settembre del 1991), "iniziò una campagna sistematica e continua
per schiacciare la vivace società civile sviluppatasi ad Haiti con la
caduta della dittatura dei Duvalier". Nelle prime due settimane che seguirono
il golpe, secondo stime di "gruppi per i diritti umani generalmente affidabili",
furono uccise almeno 1000 persone e successivamente, entro dicembre, altre centinaia.
Una stima che non teneva conto di quel che accadeva nelle campagne, tradizionalmente
teatro delle peggiori atrocità. Con il passare dei mesi il terrore non
accennò a diminuire soprattutto dopo che, alla fine di dicembre, i "Macoute",
riorganizzati, furono di nuovo sguinzagliati per il paese. Decine di migliaia
di persone, forse anche di più, vivono ancora in clandestinità.
Molti considerano il terrore di oggi "peggiore di quello di Papa Doc".
"L'obiettivo della repressione è duplice: primo, cancellare le conquiste
sociali e politiche realizzate dopo la caduta della dinastia Duvalier; secondo,
far sì che qualunque sia il futuro politico di Haiti, non vi siano più
nel paese le organizzazioni di base in grado di difendere quanto ottenuto in
quegli anni". Perciò le autorità hanno preso di mira soprattutto
le organizzazioni popolari, duramente represse, e le "vivaci e combattive
emittenti radiofoniche - la principale forma di comunicazione con la popolazione
di Haiti, dispersa sul territorio ed in gran parte analfabeta" - sopprimendole
duramente. La 'plebaglia' deve rimanere divisa, sparpagliata, senza sindacati
od altre organizzazioni popolari attraverso cui agire per formulare ed esprimere
i propri interessi, e senza mezzi indipendenti di comunicazione ed informazione.
Un obiettivo assai diffuso anche da noi; ma che nelle Haiti del Terzo Mondo può essere perseguito con mezzi più spicciativi.
Il primo ministro "de facto" Jean-Jacques Honorat così giustificò il golpe: "Non c'è rapporto tra elezioni e democrazia". Il governo di Haiti sarebbe così diffamato dai 'razzisti' stranieri che operano nella stampa e nell'ambasciata francese. A suo parere invece sarebbe stato legittimo riportare al potere i banditi duvalieristi dando loro il compito di sceriffi nelle campagne perché "nessuna società può esistere senza una polizia". Così, insieme ai proprietari terrieri, i killer di Duvalier "si stanno vendicando contro coloro che li avevano perseguitati", cioè sacerdoti, comunità cristiane di base ed il movimento contadino "Papaye", tutti colpevoli di 'atti di terrorismo'. Honorat, dando la colpa del golpe ad Aristide, dichiarò ad una delegazione di un organismo per i diritti umani: "I militari erano stati sistematicamente perseguitati" da coloro che, sotto Aristide, credevano "di potersi permettere tutto". Quando i soldati attaccarono una conferenza stampa della Federazione degli Studenti Haitiani ("Feneh") all'Università Nazionale, malmenando ed arrestando i presenti, la moglie di Honorat, come riferisce Kenneth Roth, "offrì la libertà a 50 studenti in cambio di una loro dichiarazione registrata che erano stati trattati bene durante la detenzione".
"Nel momento in cui molti haitiani, all'inizio di novembre [del 1991], cominciarono a fuggire da queste violenze e persecuzioni", continua il rapporto di "Americas Watch", "l'amministrazione Bush da aperta sostenitrice dei diritti umani e della democrazia ad Haiti diventò una vergognosa apologeta" del pugno di ferro dei militari. Il Dipartimento di Stato, quindi, "rilasciò la falsa notizia secondo la quale le persecuzioni ai danni dei sostenitori di Aristide erano cessate", fornendo così "con le sue parole una copertura alla campagna di repressione da parte dell'esercito allora ancora in corso" e gettando le basi per il rimpatrio forzato dei profughi costretti a tornare ad Haiti sotto il terrore del regime golpista. "Allo stesso tempo, temendo che dure e pubbliche denuncie degli abusi compiuti dai militari ad Haiti avrebbero reso meno difendibile davanti ai tribunali la sua politica di 'interdizione' contro i profughi, denunciata da molti organismi per i diritti umani, l'Amministrazione pose fine ad ogni denuncia dei golpisti. Dalla fine di ottobre del 1991, il governo di Haiti non è stato più criticato dal Dipartimento di Stato per quanto concerne i diritti umani" (15).
L'amministrazione Bush rapidamente "prese le distanze" dal presidente deposto Aristide, come riferì alla stampa senza alcun imbarazzo, "a causa del suo poco chiaro passato in materia di diritti umani"; inoltre la Casa Bianca "si rifiutò di considerare la sua restaurazione come una condizione necessaria per sancire il ritorno della democrazia ad Haiti" (Thomas Friedman). Lo stesso giorno di questa dichiarazione, il capo della delegazione dell'Organizzazione degli Stati Americani, in visita nell'isola, dichiarava invece: "Siamo arrivati [ad Haiti] con un mandato estremamente chiaro: Aristide deve tornare al suo posto".
Ma sulla stampa riecheggiarono solo le note che provenivano da Washington. Aristide fu così descritto come un "leader provinciale e pericoloso che considerava la propria grezza popolarità un sostituto della flessibilità politica", scrisse il corrispondente del "Times" Howard French. Il Presidente di Haiti avrebbe governato "con l'aiuto della paura", appoggiandosi "in maniera determinante sul "Lavalas", un movimento spontaneo composto da idealisti benestanti e da esuli di sinistra" il cui modello era la Rivoluzione Culturale cinese - secondo la versione data dal "Times" di quello che il "Council On Hemispheric Affairs" considerava un "esempio da manuale di un processo di partecipazione politica e democratica partito dal basso". La brama di potere di Aristide avrebbe inoltre suscitato dei problemi con la "società civile" che evidentemente, secondo il "Times", non comprende la maggior parte della popolazione rimasta con passione e coraggio al fianco del presidente legittimo. Inoltre, "secondo diplomatici e dirigenti politici haitiani, il clima di crescente militanza e le sempre più dure accuse di padre Aristide alle classi abbienti, additate come responsabili della povertà delle masse, avrebbero finito per incoraggiare" il golpe, logica conseguenza di accuse così assurde ed oltraggiose. Il "Times" così concludeva il suo articolo: "Malgrado godesse ancora di quel sostegno popolare che gli aveva permesso di riscuotere il 67% dei voti nelle elezioni del dicembre del 1990, padre Aristide venne deposto anche perché alcuni settori politicamente impegnati nutrivano dubbi sulla sua fedeltà alla Costituzione ed erano preoccupati per la crescente violenza politica e di classe approvata, secondo molti, dallo stesso presidente".
In realtà, come il corrispondente del "Times" ben sapeva, la 'violenza politica e di classe' era quasi del tutto monopolio dei militari e della élite dominante, la cui 'fedeltà alla Costituzione' era inesistente. Costoro fecero subito ricorso al terrore per eliminare 'i settori politicamente attivi' e le loro organizzazioni - troppo strutturate ed efficaci per i gusti di coloro che soli, secondo i criteri dell'amministrazione Usa e del "Times", costituiscono la 'società civile'. Questi intendono mantenere ad ogni costo il loro ruolo, con i relativi privilegi, ed i militari che, come ci assicura il corrispondente del "Times" Howard French, "hanno mostrato chiaramente di non voler aggrapparsi al potere", saranno felici di accontentarli; a condizione, però, che l'esercito possa "mantenere il controllo effettivo del paese e riprendere attività redditizie quali il narcotraffico dal Sud al Nord America" ("Financial Times") (16).
Ruminando i dilemmi dell'era post-guerra fredda, il direttore di "Foreign Affairs", William Hyland, osservò che "ad Haiti non è stato facile distinguere tra democratici e dittatori"; la differenza tra Aristide da una parte, e Duvalier ed i suoi nuovi imitatori dall'altra, è del resto troppo sottile persino per un occhio allenato come il suo. Alle volte Hyland mostra però una certa umanità, come quando ci ricorda che la nostra giusta tendenza al 'pragmatismo' deve essere temperata dal riconoscimento che gli Usa "hanno un debito morale verso il popolo d'Israele"; quindi, non dobbiamo far sì che la nostra politica sia vittima dell'"antisemitismo virulento" che si cela "sotto un superficiale sostegno a Israele", e che "comincia ad emergere nel dibattito sulle colonie ebraiche" nei Territori Occupati. Nel caso di Haiti, invece, è difficile individuare chi possa meritare il nostro appoggio.
I commentatori, che riuscirono a distinguere Aristide da 'Papa Doc' e dai generali al potere, espressero la speranza che il sacerdote riuscisse a convincere la Casa Bianca della sua buona fede. Una visita a Washington, scrisse Pamela Constable, potrebbe "rafforzare la sua immagine di leader ragionevole votato alla democrazia e, quindi, ottenere un forte gesto di sostegno dall'amministrazione Bush" - la quale, sicuramente, esitava nel sostenere Aristide per problemi di natura morale (17).
In seguito al golpe l'Organizzazione degli Stati Americani (Osa), seguita poi dagli Usa, impose immediatamente un embargo ad Haiti e sospese ogni commercio a partire dal 29 ottobre. Quella decisione fu denunciata dall'élite al potere, ma venne salutata con gioia da coloro che maggiormente avrebbero sofferto per gli effetti delle sanzioni. Nelle bidonville, scrisse Howard French il 9 ottobre, "la notizia dell'embargo Osa era l'unica cosa piacevole alla quale molti pensavano mentre, accalcati sugli autobus, fuggivano verso le campagne per non subire le violenze notturne dei soldati". Ogni commercio con Haiti deve essere interrotto, dicevano ai giornalisti "cittadini dall'aria inquieta": "Non importa quanta miseria dovremo patire. Siamo pronti a morire se necessario". Mesi dopo, i sentimenti della gente non erano mutati. "Mantenete l'embargo" era la richiesta che i più poveri rivolgevano agli occidentali: "Titid [Aristide] ci ha dato la dignità e la speranza... Siamo pronti a soffrire se servirà a farlo tornare".
In realtà l'embargo è sempre stato piuttosto blando ed inefficace. L'Europa lo ha ignorato ed i membri della 'società civile' di Haiti continuarono a recarsi in volo a Miami e New York per il loro shopping, ed a commerciare con la Repubblica Dominicana, rimpinguando così anche le casse dell'esercito di quel paese. Washington, che sa bene come fare pressioni quando sono in gioco seri interessi di potere e forti profitti, non trovò, in questo caso, il modo per convincere i suoi alleati della necessità di salvare la democrazia haitiana e di lanciare un'iniziativa internazionale per imporre la fine del terrorismo di stato contro le popolazioni locali. A questo proposito tornano alla mente i delicati sentimenti che dopo la guerra del Golfo impedirono a Bush di dare qualsiasi appoggio ai democratici kuwaitiani; sentimenti così profondi da spingerlo a vietare la parola 'democrazia' persino nelle comunicazioni private con l'Emiro perché, spiegavano i suoi collaboratori, "non si può prendere un paese e paragonarlo ad un altro". E poi nel caso di Haiti le petroliere, per la maggior parte europee, arrivavano più velocemente "di quanto non impiegassero per scaricare", disse un funzionario del Dipartimento di Stato nell'aprile del 1992 (18).
L'Amministrazione, scrisse nel gennaio del 1992 il corrispondente da Washington del "Wall Street Journal", Robert Greenberger, del resto non varò neppure ovvie sanzioni come "il congelamento dei beni posseduti negli Usa dagli ufficiali golpisti e dai loro ricchi sostenitori haitiani", e neppure "sospese i visti di entrata negli Usa". Ma c'era una precisa ragione per tutto ciò: i difetti di Aristide. Il democratico liberale Robert Torricelli, presidente del sottocomitato per l'Emisfero Occidentale della Commissione Affari Esteri della Camera, rubò un po' del suo tempo consacrato agli sforzi (ispirati da sentimenti profondamente democratici) per rendere più stringente l'embargo a Cuba e ci spiegò che "la democratizzazione non sempre porta risultati ideali" e che, dato "il passato del signor Aristide", non è facile ottenere l'approvazione di ulteriori sanzioni contro Haiti. I 'terroristi' cubani non sembrano creare a Torricelli problemi analoghi. Malgrado Aristide fosse stato "eletto con una maggioranza assoluta nelle prime libere elezioni haitiane" e fosse "immensamente popolare tra i poveri", continua Greenberger, "la sua retorica focosa a volte incitava alla violenza di classe", e ciò ha sempre turbato profondamente il "Journal" ogni volta che i suoi redattori ne scorgono qualche traccia ad Haiti, in Guatemala, in Brasile, Indonesia, ed altrove.
Torricelli lanciò quindi un appello per porre fine all'embargo ad Haiti e sostenne il rimpatrio forzato dei profughi haitiani clandestini che erano stati portati nella base Usa di Guantànamo (Cuba), dimostrando chiaramente quale passione per la democrazia e per i diritti umani animi le sue iniziative legislative contro Cuba (19).
Molti hanno soppesato le difficili scelte di fronte alle quali si trovò l'amministrazione Bush a proposito di Haiti. Il settimanale "Time" suggerì che il presidente Usa avrebbe potuto "alleggerire il fardello degli haitiani esentando dall'embargo le aziende di assemblaggio che lavorano per le società americane e ricreando così oltre 40 mila posti di lavoro" - e, incidentalmente, rilanciando i profitti degli investitori Usa, anche se il motivo ufficiale era solo quello di 'alleggerire il fardello degli haitiani' i quali per altro, come riporta il medesimo articolo, chiedevano invece agli Usa "di mantenere l'embargo".
A questo punto potremmo soffermarci su un altro tema ricorrente nella fraseologia 'politicamente corretta'. In essa l'espressione 'posti di lavoro' ha assunto un significato interamente nuovo, quello di 'profitti'. Così quando George Bush partì per il Giappone, tirandosi dietro una frotta di dirigenti dell'industria automobilistica e innalzando lo stendardo 'lavoro, lavoro, lavoro', egli intendeva in realtà 'profitti, profitti, profitti', come dimostrato inequivocabilmente dalle sue politiche socioeconomiche.
La stampa e le testate radio-televisive riportano così appassionate proposte in favore della creazione di 'posti di lavoro', avanzate da coloro che in realtà fanno tutto il possibile per trasferire le industrie in regioni dove la manodopera è più a buon mercato e la repressione più dura, e che non risparmiano sforzi per distruggere quel po' di lavoro e di diritti dei lavoratori che ancora rimangono; tutto ciò nell'interesse esclusivo di una parola di otto lettere, il profitto.
Bush non perse tempo a seguire i consigli del "Time". Il 4 febbraio del 1992, il governo di Washington esentò dall'embargo le industrie haitiane che impiegavano manodopera locale a basso costo nella produzione di beni da esportare verso gli Usa e che, in gran parte, appartenevano a società nordamericane. Alcuni mesi dopo, apparvero nelle ultime pagine dei giornali brevi articoli secondo i quali "l'amministrazione Usa da una parte rende più stretto l'embargo contro le navi che commerciano con Haiti", secondo quanto stabilito da una risoluzione dell'Osa del 17 maggio del 1992, ma dall'altra "continua invece a ridurre i controlli sui prodotti americani destinati a Port-au-Prince", permettendo l'esportazione di semi, concimi e pesticidi dagli Stati Uniti ad Haiti. Tutto per creare nuovi 'posti di lavoro'.
Il "Washington Post" scrisse a questo proposito che l'Amministrazione sarebbe stata sottoposta a "forti pressioni da parte di imprese americane che hanno interessi ad Haiti". Il giornale comunque giudicava saggia la decisione del 4 febbraio: l'embargo era stato un "grave errore politico" che "ha causato molte sofferenze tra la gente, ma non tra i killer. Visto che non ha raggiunto il suo scopo, è giusto che venga tolto" - non reso più efficace per raggiungere i suoi obiettivi, come chiedevano supplicando coloro che ne pagavano le conseguenze. In ogni caso, continua il giornale, il rimpatrio forzato dei profughi non è in linea con "il profondo impegno degli Usa in difesa dei diritti umani" - che i media vedono manifestarsi in ogni dove (20).
Il segretario generale dell'Osa, che già in precedenza aveva chiesto al Dipartimento di Stato di non alleggerire l'embargo ad Haiti, condannò la decisione (unilaterale) di Washington di procedere verso una riduzione delle sanzioni. Il ritorno forzato nell'isola dei profughi che avevano cercato di entrare negli Usa fu condannato inoltre dall'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (U.N.C.H.R.), un organismo che, conoscendone bene le conseguenze, raramente affronta gli Usa. Nel novembre del 1991, l'U.N.C.H.R. aveva chiesto agli Stati Uniti di far entrare nel paese i profughi haitiani "al fine di poter determinare l'esistenza o meno delle condizioni per la concessione dell'asilo politico" ed aveva fatto presente che le convenzioni dell'Onu vietano il rimpatrio dei rifugiati "in ogni circostanza" e "senza eccezioni" nei paesi dove la loro vita o libertà possa essere in pericolo. Nel maggio del 1992, l'U.N.C.H.R. si pronunciò di nuovo sulla questione sostenendo che il rimpatrio forzato dei profughi violava il diritto internazionale; il "New York Times" riportò la notizia ponendovi accanto un commento in cui si citava un uomo d'affari conservatore legato agli Usa, secondo il quale ad Haiti "si stavano moltiplicando" gli omicidi degli squadroni della morte: "La gente è terrorizzata e molti vengono uccisi"; l'"ondata di violenza" avrebbe coinciso proprio con la decisione di Washington di "rimpatriare" gli haitiani che tentavano di raggiungere gli Stati Uniti (21).
L'alleggerimento dell'embargo "fu salutato entusiasticamente dagli industriali", scrive Lee Hockstader, ma non dai "lavoratori che, pur pagando sulla propria pelle l'effetto delle sanzioni", le avevano "accolte come il mezzo migliore per favorire il ritorno di Aristide". "Tutto dimostra che il sostegno popolare ad Aristide tra la maggioranza dei poveri... rimane forte... E' difficile trovare qualcuno per le strade della capitale o nelle province, che non sostenga il sacerdote divenuto uomo politico". I sostenitori di Aristide hanno condannato duramente la mossa americana di sospendere parzialmente le sanzioni. Tra questi un sacerdote ed ex consigliere del presidente ha accusato Washington di aver tradito Aristide "del tutto" fin "dall'inizio". La politica Usa, a suo parere, è "la più cinica che si possa trovare sulla Terra... penso che gli Stati Uniti non vogliano in realtà il ritorno di Aristide", perché "non è sotto il loro controllo. Non è un fantoccio" (22).
Una valutazione abbastanza plausibile. Che gli Usa avessero cercato di realizzare una sorta di 'duvalierismo senza Duvalier' potrebbe sorprendere solo chi voglia chiudere gli occhi di fronte alla realtà della politica estera di Washington. Per simili motivi, l'amministrazione Carter, visti fallire i suoi sforzi per salvare il tiranno, aveva tentato disperatamente di far sopravvivere in Nicaragua un 'somozismo senza Somoza', mentre Reagan, per ottenere lo stesso scopo, ricorse a metodi ancor più violenti e nonostante ciò, tranne alcuni distinguo di facciata, ebbe l'approvazione dell'opinione pubblica illuminata (23).
La tesi del consigliere di Aristide è inoltre confermata da un documento segreto, fatto arrivare alla stampa, probabilmente scritto da un impiegato dell'ambasciata Usa a Port-au-Prince dietro richiesta del primo ministro Honorat e di altri funzionari haitiani. La sua autenticità era stata messa in dubbio in un primo momento dal "Council on Hemispheric Affairs" ("Coha"), e negata dal Dipartimento di Stato, ma lo stesso "Coha" ha poi sostenuto che "ulteriori ricerche ne hanno confermata l'assoluta veridicità". Nel documento si delinea un piano per arrivare ad una 'restaurazione' simbolica di Aristide ad uso dei media e dell'opinione pubblica interna ed internazionale, alla quale dovrebbe seguire, sviata l'attenzione generale, un suo nuovo e definitivo allontanamento.
Quando il documento venne reso noto alla stampa, nel gennaio del 1992, gran parte di quel piano - nota il "Coha"- era già divenuto realtà. Il resto lo sarebbe diventato di lì a poco. Come abbiamo visto, l'embargo fu reso ancora più inefficace dalla sospensione parziale delle sanzioni decisa dagli Usa il 4 febbraio. Tre settimane dopo, Aristide accettò quella che il "Coha" descrisse come "una sconfitta quasi definitiva per la democrazia haitiana", "una tragica svendita da parte di un uomo disperato" costretto ad accettare un "governo di unità nazionale" nel quale avrebbe avuto un ruolo solamente simbolico. Aristide, ha dichiarato il "Council of Hemispheric Affairs", "effettivamente non aveva altra scelta che quella di incrinare la sua statura morale rinunciando ai suoi poteri di presidente in cambio dell'incerta prospettiva di un suo ritorno ad una carica oramai simbolica". Il governo di 'unità nazionale' sarà formato da due componenti: da una parte René Théodore ed il suo gruppo, rappresentanti l'1,5% dell'elettorato, l'esercito haitiano, le élite tradizionali ed il governo Usa; dall'altra troviamo Aristide, con il 67% dell'elettorato ma senza assi nella manica. Dati i rapporti di forza, l'esito è chiaro; e non sorprende il fatto che il vicesegretario di Stato Usa, Bernard Aronson, si sia dichiarato molto soddisfatto dell'intesa.
In riferimento al piano Usa, il "Coha", polemicamente, formulò questo scenario: ipotizziamo che "[in Nicaragua] dopo un golpe [il presidente Violeta Chamorro] fosse costretta a fuggire per salvarsi la vita e, per poter tornare, dovesse accettare come primo ministro un esponente sandinista a cui spetterebbe il controllo effettivo del paese. Bernard Aronson e gli Usa avrebbero accettato una soluzione di questo tipo se i sandinisti, dopo aver deposto ed espulso la Chamorro, colpendo e assassinando oltre 2000 dei suoi seguaci, l'avessero poi indotta a rinunciare ai suoi poteri in cambio del ritorno in patria?". E, per rendere l'analogia più precisa, nel caso il fronte sandinista nicaraguense fosse un partito senza una base popolare e con un passato terrorista nello stile dei satelliti centroamericani degli Usa? Nessuno si è mai curato di rispondere.
Ad Haiti i militari, insieme alla 'società civile', salutarono con gioia l'accordo raggiunto. In quell'occasione un senatore haitiano dichiarò soddisfatto che "sarebbe surrealistico pensare o scrivere che [Aristide] possa tornare entro il 30 giugno del 1993, o entro una qualsiasi altra data definita" perché, come disse il deputato americano John Conyers, "quei militari gangster laggiù... capiscono di avere il tacito consenso del governo Usa".
Rimaneva solo da realizzare la sostituzione di René Théodore con Marc Bazin, il favorito degli americani. Questi fu insediato come primo ministro nel giugno del 1992. "I rappresentanti del Vaticano e della Conferenza Episcopale haitiana... entrarono nel Palazzo Nazionale per dare la loro benedizione al nuovo governo sostenuto dai militari", scrisse il "National Catholic Reporter", anche se fu solo il Vaticano, che aveva atteso l'esilio di Aristide prima di inviare ad Haiti un nunzio papale, a riconoscere il nuovo governo. Quel riconoscimento formale "dimostra la loro volontà di disfarsi di Aristide e di allearsi con i poteri tradizionali di Haiti - l'esercito e la borghesia", dichiarò al "National Catholic Report" un diplomatico occidentale. La libertà ed i diritti umani andavano difesi nell'Europa Orientale, ma nei Caraibi e nel Centroamerica dovevano essere repressi nell'interesse dei privilegi tradizionali; 'l'opzione preferenziale per i poveri', in quest'area, non è ben accetta da Roma. Bazin tenne il suo discorso di insediamento in francese, scrisse Howard French, in un "soffocante raduno ufficiale di uomini in vestiti scuri e profumate donne in abiti bianchi"; Aristide aveva invece pronunciato il suo in creolo, la lingua del popolo, ed aveva ricevuto la sua fascia presidenziale da una contadina (24). La democrazia continua ad avanzare.
Un consigliere del governo Bazin, facendo eco ad Aristide, disse: "Basterebbe una telefonata" da Washington perché i capi dell'esercito facciano fagotto. Howard French conferma questo punto di vista: "Quasi tutti gli osservatori sono d'accordo", ci vorrebbe ben poco. Ma "la profonda ambivalenza di Washington riguardo ad un nazionalista di sinistra il cui stile, secondo fonti diplomatiche, è stato a volte molto discutibile", impedisce qualsiasi reale pressione in questo senso. "Malgrado il molto sangue di cui si è macchiato l'esercito, quest'ultimo per i diplomatici Usa è un importantissimo contrappeso a padre Aristide, la cui retorica della lotta di classe... ha minacciato o provocato l'ostilità dei centri tradizionali del potere all'interno ed all'estero". Il 'contrappeso' quindi ha mantenuto il potere reale, il 'discutibile' nazionalista è rimasto a lungo in esilio, mentre la retorica ed il terrore di classe continuano con il tacito consenso dei tradizionali centri di potere (25).
Il "New York Times" cercò di dare una versione addomesticata della decisione statunitense del 4 febbraio di portare avanti il piano anti-Aristide e di favorire, sollevando parzialmente l'embargo, le imprese americane. Con il titolo "Piano Usa per rendere più efficaci le sanzioni contro Haiti", Barbara Crossette scrisse da Washington: "L'amministrazione Bush ha annunciato oggi la sua decisione di modificare le norme dell'embargo contro il governo militare di Haiti al fine di punire le forze antidemocratiche ed alleviare le sofferenze degli operai rimasti senza lavoro a causa del blocco degli scambi commerciali". Il Dipartimento di Stato avrebbe "meglio sintonizzato" le sanzioni economiche, "ultima mossa" negli sforzi della Casa Bianca per trovare "modi più efficaci per accelerare il crollo di quello che secondo l'Amministrazione è l'illegittimo governo di Haiti". Gli ingenui potrebbero pensare ad una logica un po' oscura: in quale modo l'attenuazione dell'embargo possa punire le forze antidemocratiche che l'hanno accolta plaudendo ed alleviare le sofferenze dei lavoratori che invece l'hanno vigorosamente avversata, è e rimane un mistero. Almeno, finché non traduciamo quelle parole dal linguaggio della pretesa 'correttezza politica' nel loro vero significato. Allora tutto diventa chiaro (26).
Un più sincero articolo sulla decisione Usa di limitare le sanzioni apparve pochi giorni dopo in un servizio da Port-au-Prince sotto il titolo: "Si smorza ad Haiti la spinta alla democratizzazione: i leader del golpe si rallegrano perché gli Usa alleggeriscono l'embargo e rimpatriano i profughi". L'autore del pezzo, Howard French, scrive che "lo stato d'animo dominante negli ambienti militari e politici sta passando dall'ansia alla speranza che gli Stati Uniti, non avendo alcuna pressione interna riguardo ai problemi di Haiti, li lascino in pace". Lo stesso giorno, anniversario dell'insediamento di Aristide, il traffico di New York fu bloccato da una grande manifestazione di protesta contro la politica Usa ad Haiti. Un'analoga dimostrazione si ebbe anche a Miami. Ma queste però non sono considerate forme di 'pressione interna'. Per la maggior parte neri, i manifestanti non erano degni di nota - di loro parlò invece la stampa dell'Alaska, la quale riportò anche la seguente dichiarazione del console generale haitiano a New York: "Esiste una tacita collaborazione tra i militari haitiani ed il Dipartimento di Stato. Gli americani avranno l'ultima parola. Ed essi non vogliono il ritorno di Aristide". Il "Time" citò poi un "disilluso assistente parlamentare repubblicano del Congresso" secondo il quale: "La Casa Bianca fa affidamento sul fatto che alla gente non importa nulla di Haiti. La politica, non i principi morali, ha la preminenza" (27).
Ciò sembra indiscutibile. Per quelli che vogliono capire, quella frase in corsivo 'non avendo alcuna pressione interna... ' esprime una verità sancita da due secoli di storia. Senza un sostegno popolare nel nostro paese, l'albero della libertà di Toussaint rimarrà profondamente sepolto, al massimo un sogno - e non solo ad Haiti.
Note:
N. 9. Chomsky, "On Power and Ideology", 69n. "The Wall Street
Journal", 10 febbraio 1986. "N.R", p. 194, sopra.
N. 10. Wilentz, "Rainy Season", p. 341, 55, 326, 358. Wilentz dà
una brillante testimonianza degli anni 1986-89.
N. 11. COHA, 'Sun Setting on Hopes for Haitian Democracy', 6 gennaio 1992.
N. 12. "The NED Backgrounder", Inter-Hemispheric Education Resource
Center, Albuquerque, aprile 1992.
N. 13. Wilentz, "Reconstruction", vol. 1.4, 1992.
N. 14. Wilentz, "Rainy Season", p. 275.
N. 15. Americas Watch, National Coalition for Haitian Refugees, and Physicians
for Human Rights, 'Return to the Darkest Days', 30 dicembre 1991. Roth, 'Haiti:
the Shadows of Terror', "The New York Review of Books", 26 marzo 1992.
N. 16. Friedman, French, "New York Times", 8 ottobre 1991. French,
"New York Times", 22 ottobre 1991; 12 gennaio 1992. Canute James,
"Financial Times", 10 marzo 1992.
N. 17. Hyland, 'The Case for Pragmatism', "Foreign Affairs", "America
and the World", 1991-92. Constable, "Boston Globe". 13 marzo
1992.
N. 18. Americas Watch, 'Return'. French, "New York Times", 10 ottobre
1991. "Time", 10 febbraio. "Financial Times", 3 aprile 1992.
Su Bush-Kuwait, Andrew Rosenthal, "New York Times", 3 aprile 1991.
N. 19. Greenberger, "The Wall Street Journal", 13 gennaio 1992. Comunicato
stampa COHA, 5 febbraio 1992.
N. 20. "Time", 10 febbraio. Barbara Crossette, "New York Times",
28 maggio. Lee Hockstader, "Washington Post weekly", 17 febbraio.
Articolo di fondo, "Washington Post weekly", 10 febbraio 1992.
N. 21. Frelick, op.cit. Lee Hockstader, "Washington Post weekly",
10 febbraio. Barbara Crossette, French, "New York Times", 28 maggio
1992.
N. 22. Hockstader, "Washington Post weekly", 10 febbraio. "Washington
Post-M.G.", 16 febbraio 1992.
N. 23. Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 8, 10; Necessary "Illusions",
p. 61-6. Sklar, "War".
N. 24. Comunicato stampa COHA, 10 gennaio, 25 febbraio 1992. Barbara Crossette,
"New York Times", 26 febbraio. French, "New York Times",
27 febbraio, 21 giugno. James Slavin, "New Catholic Reporter", 14
agosto 1992.
N. 25. French, "New York Times", 27 settembre 1992.
N. 26. Barbara Crossette, "New York Times", 5 febbraio 1992.
N. 27. French, "New York Times", 7 febbraio, enfasi mia. Pierre-Yves
Glass, "Associated Press", "Anchorage Times", 17 febbraio.
"Time", 17 febbraio 1992.