PARTE TERZA.
LA STESSA VECCHIA STORIA.
Capitolo 7.
VECCHI E NUOVI ORDINI MONDIALI.
Vi sono molte altre 'storie di successo del capitalismo' nei Caraibi e nel Centroamerica, nelle Filippine, in Africa, dovunque siano arrivati il potere e l'ideologia occidentale. Le poche eccezioni, per la maggior parte nell'orbita giapponese, sono sfuggite a quella sorte violando radicalmente le regole del gioco, in circostanze particolari che probabilmente non si ripeteranno (35). Questa semplice verità ed il suo significato, che in società veramente libere si insegnerebbe nelle scuole elementari, nell'Anno 501 del Vecchio Ordine Mondiale, deve invece essere tenuta nascosta alla coscienza popolare.
E così avviene. Se prendiamo il caso più a portata di mano, quello del Centroamerica, per tutti gli anni '80 vero e proprio ossario gestito dagli Usa, vediamo che gli ambienti intellettuali sono orgogliosi di quel che abbiamo fatto. Tipico a questo riguardo il modo in cui il corrispondente per il Centroamerica del "Washington Post", Lee Hockstader, ha descritto un incontro in Guatemala della nuova razza di presidenti conservatori che sarebbero stati liberamente eletti senza alcuna influenza straniera. Questa "nuova ondata di democrazia" avrebbe "cambiato le priorità dei politici" rispetto ai giorni in cui "essi tradizionalmente rappresentavano l'ordine costituito".
Prova ne sia che quei presidenti si dedicherebbero ora al servizio dei poveri con un nuovo ingegnoso approccio. Il titolo dell'articolo annuncia: "I centroamericani per combattere la povertà usano la strategia "trickle down"" (teoria economica secondo la quale la diffusione spontanea della ricchezza avviene più facilmente se lo stato invece di finanziare i servizi sociali e le opere pubbliche, sovvenziona le grandi imprese, N.d.C.). "Fedeli all'economia del libero mercato", i presidenti hanno così abbandonato l'insulsa retorica della riforma agraria e dell'assistenza pubblica e, finalmente, hanno adottato un'idea seria: "Un approccio "trickle down" per aiutare i poveri". "L'idea è quella di aiutare i bisognosi senza mettere in pericolo la struttura fondamentale del potere", commenta un economista centroamericano. Questo concetto geniale ed innovatore rovescia 'l'opzione preferenziale per i poveri' dei vescovi latinoamericani. Adesso che, con un terrore alla Pol Pot, abbiamo cacciato questa ingenua idea dalla testa dei nostri piccoli 'fratelli marroni', possiamo tornare alla nostra tradizionale vocazione di servire i poveri, senza dover affogare più nella nostra ipocrisia - questo, sì, un trionfo veramente memorabile.
Barbara Crossette scrive sul "New York Times" che il Centroamerica costituisce "quella che i funzionari dell'amministrazione Bush considerano una delle loro più felici iniziative in politica estera: portare la pace, il disarmo e lo sviluppo economico in questa regione tormentata"; Crossette non si dilunga sul come ed il perché sia tormentata, né da chi. "La strategia è stata aiutata immensamente dal collasso dell'Unione Sovietica", continua la giornalista, ripetendo l'utile favola che l'aggressione Usa fosse una difesa contro l'Impero del Male. Il Salvador è "uno dei più violenti teatri del conflitto Est-Ovest dell'emisfero", proclamava Tim Golden in prima pagina; forse qualche suo collega sovietico avrà scritto nel 1956 che l'Ungheria era 'uno dei più violenti teatri del conflitto Est-Ovest dell'Europa Orientale' - una pretesa che, per quanto vergognosa, in questo caso, tenuto conto dei fatti, sarebbe stata comunque molto più plausibile.
Per avere un quadro d'insieme, ci rivolgiamo naturalmente al capo corrispondente diplomatico del "New York Times", Thomas Friedman, che in un suo articolo ha preso spunto da quanto una volta dichiarato dal membro del Congresso Les Aspin (attuale segretario alla Difesa): "Il mondo che sta emergendo probabilmente non avrà la chiarezza tipica della guerra fredda... Il vecchio mondo era fatto di buoni e cattivi. Nel nuovo mondo domina il grigio". Sviluppando il tema, Friedman osserva: "In genere, Washington si è sempre preoccupata, e non poco, quando sono stati rovesciati dei presidenti liberamente eletti". Ma adesso la vita è più dura. Tra gli eletti potrebbero esservene alcuni che non sono persone oneste e perbene come in passato, e forse dovremo esercitare un maggiore discernimento. Non sarà più così facile come quando Washington 'si preoccupava del rovesciamento dei Goulart, Arbenz, Allende, Bosch...
Del resto, anche prima non abbiamo sempre appoggiato dei bravi ragazzi, riconosce Friedman, ricordando tipi spiacevoli quali lo Scià e Marcos. Ma quelle deviazioni dai nostri sommi principi si giustificano facilmente: "Durante la guerra fredda gli Stati Uniti non potevano permettersi il lusso o il fardello di scegliersi gli amici", ma "dovevano semplicemente identificare chi era con chi nella grande lotta contro l'Impero del Male guidato da Mosca". I nostri veri valori erano dimostrati dal "fatto" che "Washington esercitava pressioni per la democrazia, liberi mercati ed altri ideali" - una dichiarazione piuttosto audace, ma al sicuro da contestazioni nella cultura intellettuale dominante.
Il "pericolo sovietico" ci ha costretti ad "un livello di cinismo negli affari esteri, contrario alla nostra natura e alle nostre tradizioni" aggiunge, con l'imprimatur del "Times", un autorevole esperto di strategie dell'Amministrazione. Ma né Thomas Friedman né l'accreditato funzionario si soffermano su alcune ovvie questioni. Ad esempio: come si sono manifestate nella pratica 'la nostra natura e le nostre tradizioni' prima che l'Unione Sovietica minacciasse la nostra esistenza nel 1917? E ancora, 'esse si sono forse manifestate' nella consuetudine di inventare 'minacce sovietiche' dietro i pretesti più insulsi per giustificare le atrocità commesse al fine di mantenere la 'stabilità' come noi la intendiamo? Inoltre i due non si curano di spiegare cosa avesse a che fare il pericolo sovietico con il nostro sostegno a coloro che conducevano veri e propri genocidi dall'Indonesia al Guatemala, e neanche la stretta correlazione tra la tortura e gli aiuti economici Usa.
Inoltre, lo stesso funzionario citato dal "Times" ci mette in guardia a non ripiegare sulla nostra posizione tradizionale di "voler basare la politica estera Usa quasi esclusivamente sull'idealismo". Il mondo è ancora troppo sgradevole per poter "ritornare alle formalità" e scivolare inavvertitamente di nuovo nel ruolo di benefattori dell'umanità e, così facendo, trascurare, confusi da un idealismo 'wilsoniano', "gli interessi nazionali". Quest'ultima espressione è interessante dal momento che non si riferisce affatto a ciò che fece realmente il presidente Wilson - per esempio, i sanguinari interventi ad Haiti e nella Repubblica Dominicana - e neanche a ciò che disse, quando si arrivò al dunque. Lo stesso vale, più in generale, per il concetto 'i nostri valori'. A questo proposito Friedman cita il filosofo politico di Harvard, Michael Sandel, il quale si dice preoccupato che gli Usa continuino a comportarsi come in passato invece di accettare le sfide del presente. "Per anni ci siamo limitati a premere per l'attuazione di una versione parziale dei nostri valori - libere elezioni e liberi mercati - senza capire che la loro piena realizzazione richiedeva ben di più" della circoscritta missione di giustizia che ci ha guidato fino ad oggi. Come nel caso del 'wilsonismo', il concetto 'i nostri valori' è completamente indipendente da quel che facciamo o persino teorizziamo normalmente, tranne quando siamo davanti alle telecamere.
Con la scomparsa del 'nemico globale', "il nuovo metro di giudizio è quello dei valori democratici", conclude Friedman, senza dubbio pensando all'atteggiamento di George Bush nei confronti di Suharto, degli emirati del Golfo e di Saddam Hussein (prima del suo spiacevole errore del 2 agosto del 1990), e di altre gradevoli figure il cui fascino è sopravvissuto alla guerra fredda - dal quale era, del resto, del tutto indipendente.
"Nessuna satira di Funston potrebbe raggiungere la perfezione, perché Funston è già perfetto", scrisse Mark Twain, parlando di uno degli eroi responsabili della strage filippina: lui è "la satira personificata" (36).
Visto tutto quel che la storia ci dice, lo stratagemma di cancellarla con la scusa della guerra fredda, non importa quanto assurda sia questa pretesa, va comunque raccomandato a tutti gli intellettuali aspiranti servi del potere. Questa del resto è solo la più recente applicazione della tecnica detta della 'deviazione', cui si ricorre ogni volta che qualche orrenda storia alla fine riesce a filtrare attraverso i soffici e scorrevoli meccanismi della rimozione: sì, sfortunatamente c'è stata una spiacevole, temporanea, 'deviazione' dalla retta via, ma ora tutto è a posto e possiamo riprendere a marciare dietro lo stendardo dei nostri 'sommi principi'.
Note:
N. 35 Cap. 4.2. Vedi Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 1,
nota 19; cap. 7.7. Anche Bello e Rosenfeld, "Dragons".
N. 36. Hockstader, "Washington Post", 20 giugno 1990. Crossette, "New
York Times", 18 gennaio. Tim Golden, "New York Times", 17 gennaio.
Friedman, "New York Times", 12 gennaio 1992. Aiuti-tortura, p. 120.
Zwick, "Twain", p. 111 .