PARTE PRIMA.
VINO VECCHIO IN BOTTIGLIE NUOVE.
Capitolo 3.
NORD-SUD / EST-OVEST.
Non vi è ragione di aspettarsi che 'la grande impresa della Conquista' cambi fondamentalmente con la fine di quella fase del conflitto Nord-Sud nota come guerra fredda. Ma le politiche devono essere adattate alle contingenze particolari, come avvenne con la creazione di un Nuovo Ordine Mondiale nel 1945, e di nuovo quando Richard Nixon nel 1971 annunciò la sua 'nuova politica economica'; due eventi che riflettevano dei reali cambiamenti negli equilibri di potere a livello internazionale. Lo stesso è avvenuto alla fine degli anni '70 con l'accelerazione del declino dell'Urss ed il delinearsi di una situazione in gran parte nuova, anche se permangono alcune tendenze di fondo, come l'internazionalizzazione della produzione e della finanza, i conflitti interni al 'club dei ricchi', il relativo indebolimento della sempre dominante economia Usa, e l'emarginazione di gran parte della popolazione in quei paesi che dominano il mondo.
Il collasso dell'Urss ha avuto come conseguenze, da una parte, il tentativo degli Stati Uniti di imporre dei modelli neoliberisti di subordinazione al Nord su gran parte di quelle regioni e, dall'altra, la necessità di trovare nuovi pretesti per giustificare gli interventi americani nel Sud del mondo. Malgrado le roboanti dichiarazioni propagandistiche, il problema dell'affievolirsi e poi della scomparsa del pretesto sovietico era già emerso negli anni '80. Non a caso in quel periodo vi è stata sui media una fioritura di nuovi spauracchi come terroristi internazionali, narcotrafficanti ispanici, fondamentalisti islamici, arabi pazzi ed altre comode storie, ed il potere cercava di adattare alla nuova situazione l'usuale formula atta a sviare e ad ingannare l'opinione pubblica: la minaccia di un qualche 'grande Satana', alla quale far seguire l'ammirazione per i nostri 'leader massimi' quando riescono a sconfiggerlo e marciano verso nuovi trionfi. Si prefabbricarono così ricorrenti scontri con la Libia, un vero e proprio sacco da allenamento per la boxe. Si udirono grida d'allarme perché Grenada stava per tagliare le nostre linee di comunicazione marittima e bombardarci da una base costruita dai cubani; i sandinisti, da parte loro, diffondevano 'la rivoluzione senza frontiere' e si preparavano a marciare verso il Texas; Noriega (dopo essere stato licenziato dagli Usa) era divenuto il capo del cartello colombiano e complottava per avvelenare i nostri bambini; Saddam Hussein, avendo disubbidito agli ordini, improvvisamente diventò la 'belva di Baghdad', eccetera. Ma in generale, come dimostra la varietà dei bersagli, la formula non è più così efficace come durante la guerra fredda. Il presidente Bush è stato più volte criticato per non aver formulato un progetto globale come i suoi predecessori, ma non si è tenuto conto delle difficoltà da lui incontrate in seguito alla scomparsa della "congiura monolitica e spietata" (ordita dall'Urss, N.d.C.) e delle sue varianti, contro la quale aveva potuto fare appello J. F. Kennedy. Inoltre la formula della minaccia esterna potrebbe aver perso parte della sua efficacia anche per altre ragioni come, ad esempio, il peggioramento delle condizioni di vita di vasti settori della società considerati 'superflui'.
Gli esperti di politica internazionale hanno indicato anche altre conseguenze derivate dalla scomparsa dell'Urss. In un lungo articolo di fine anno sulla guerra fredda, apparso nel 1988 sul "New York Times", Dimitri Simes sostenne che l'imminente scomparsa del nemico sovietico offriva agli Usa vari vantaggi: primo, trasferire i costi della Nato sui concorrenti europei; secondo, mettere fine "a qualsiasi influenza sull'America da parte dei paesi del Terzo Mondo"; terzo, "resistere alle inopportune richieste di aiuto [da parte di quei paesi]"; quarto, poter condurre duri negoziati con gli "insolenti debitori del Terzo Mondo"; ed infine, Washington avrebbe potuto usare più liberamente la forza militare "come strumento di politica estera... contro coloro che pensano di sfidare gli interessi Usa" senza alcun timore, dal momento che non c'è più il deterrente sovietico, e senza la possibilità di "far scattare un controintervento". In breve, gli Stati Uniti possono riacquistare un maggior potere all'interno del 'club dei ricchi', aumentare la stretta sul Terzo Mondo e ricorrere più liberamente alla violenza contro vittime indifese. Il noto socio della "Carnegie Endowment for International Peace" aveva colto il nocciolo della questione (30).
La caduta del muro di Berlino, nel novembre del 1989, può essere intesa come la fine simbolica della guerra fredda. Da allora, è stato veramente difficile resuscitare lo spettro del pericolo sovietico, ma le abitudini sono dure a morire. Perciò, all'inizio del 1990, provocò viva impressione un documento, non firmato, del sovietologo dell'Università della California Martin Malia, nel quale l'autore denunciava come, mentre "la corrente maggioritaria liberal-radicale della sovietologia anglo-americana" vedeva nello stalinismo "un tocco di democrazia", indulgendo in "sfacciate fantasie... su una sua versione democratica" ed in una "puerile esaltazione di Lenin", Breznev era "intervenuto a suo piacimento nel Terzo Mondo", "la Russia stava a cavalcioni del mondo intero" ed altre banalità apprese in qualche caffè parigino. Ma negli anni '90, solo le menti più addestrate possono maneggiare questo genere di teorie con la dovuta bravura (31).
Si può imparare molto sull'era della guerra fredda osservando quel che è successo dopo la caduta del muro di Berlino. Prendiamo il caso di Cuba. Per ben 170 anni, gli Usa hanno tentato di impedire l'indipendenza dell'isola. Dal 1959, il pretesto per l'invasione, per gli attacchi terroristici e la guerra economica è stato il presunto pericolo costituito per la 'sicurezza' nazionale degli Usa da questo avamposto del Cremlino. Scomparso il pericolo sovietico, la reazione degli Stati Uniti è stata unanime: intensifichiamo l'assedio. Lo stendardo ora agitato è quello della democrazia e dei diritti umani. Una bandiera innalzata da politici e commentatori che in passato avevano già dimostrato con grande coerenza il loro impegno in questo campo, prendendo parte alla criminale crociata Usa contro la Chiesa e tutti coloro che si azzardavano ad organizzare gli 'immeritevoli' abitanti del Centroamerica nel corso degli anni '80. Conferma incontrovertibile della falsità del pretesto della guerra fredda; ma dato che tutto ciò è inaccettabile per la cultura ufficiale allora viene regolarmente ignorato (vedi cap. 6).
Ad esempio nessuno ricorda un'altra delle costanti della politica estera Usa
negli ultimi due secoli del tutto indipendente dalla guerra fredda: l'opposizione
di Washington all'autonomia di Haiti. Gli avvenimenti succedutisi dagli anni
'80, in particolare, dopo la caduta del muro di Berlino ad oggi, illustrano
del resto con chiarezza la tradizionale avversione del governo Usa per la democrazia
e la sua indifferenza verso i diritti umani.
Esempio istruttivo a questo riguardo è la vicenda del presidente iracheno
Saddam Hussein, amico e socio di affari dell'Occidente proprio ai tempi in cui
commise le sue peggiori atrocità. Mentre il muro di Berlino già
traballava, nell'ottobre del 1989, la Casa Bianca intervenne direttamente, in
un incontro della massima segretezza, per fare in modo che l'Iraq ricevesse
un altro miliardo di dollari in prestiti garantiti, soprassedendo alle obiezioni
del Dipartimento del Commercio e del Tesoro. Il Dipartimento di Stato motivò
il suo atteggiamento con il fatto che l'Iraq era "molto importante per
gli interessi Usa nel Medioriente", "per il processo di pace",
"determinante per il mantenimento della stabilità nella regione
e che, allo stesso tempo, offriva grandi opportunità commerciali alle
ditte Usa". Come di norma, i delitti di Saddam Hussein non ebbero alcun
peso finché il presidente iracheno non commise l'errore di disubbidire
a Washington. Del resto l'Occidente, come abbiamo già visto, sarebbe
tornato poi subito dopo la guerra a dargli una sorta di tacito sostegno contro
un nemico potenzialmente ancora maggiore, un processo che poteva portare la
libertà e la democrazia in un paese del Terzo Mondo (32).
Ancora una volta, la lezione è chiara: la vera priorità è
il profitto ed il potere, una piena democrazia costituisce una minaccia da eliminare
ed i diritti umani hanno valore solo come strumento di propaganda.
Il crollo sovietico, come ha osservato Simes, ha ora reso più facili
gli interventi diretti americani nel Sud. Non è sorprendente quindi che
Bush abbia inaugurato l'era del dopo-guerra fredda con l'invasione di Panama
destinata a salvarci dall''arcidiavolo' Noriega. L'attacco venne preparato da
una campagna propagandistica nella quale la stampa fece scendere in campo i
suoi migliori talenti, tralasciando di ricordare che in quelle stesse ore venivano
decisi nuovi aiuti per gli amici di Bush a Pechino e a Baghdad, rispetto ai
quali Noriega sembrava un chierichetto. A Panama, del resto, l'invasione raggiunse
i suoi veri obiettivi: i soci d'affari degli americani tornarono al potere,
gli Usa assunsero il controllo delle forze di sicurezza locali e Washington
ebbe di nuovo nelle sue mani il destino del canale di Panama. Il vero significato
della guerra fredda emerge con chiarezza da questi avvenimenti, anche se il
sistema dottrinario ufficiale non ne sembra neppure scalfito (33).
Il secondo atto aggressivo registratosi dalla fine della guerra fredda fu l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, il 2 agosto del 1990. Un evento che improvvisamente trasformò Saddam Hussein da 'moderato-che-sta-migliorando' in 'Attila il barbaro'. L'alleanza Usa-Gran Bretagna si mosse subito per impedire una soluzione diplomatica temendo che, come sostenne nell'agosto di quell'anno il corrispondente diplomatico del "Times" Thomas Friedman, il processo negoziale potesse "disinnescare la crisi" dando "alcuni risultati simbolici" al loro ex amico. In tal caso, l'invasione irachena del Kuwait sarebbe apparsa assai simile a quella di Panama, e questo gli Usa non potevano permetterselo. Così il "Times" ed i suoi compari fecero il loro dovere e tacquero sull'eventualità di un ritiro iracheno condizionato la cui possibilità, secondo alti funzionari Usa, si era presentata alla metà dell'agosto del 1990. Basti ricordare che ancora alla vigilia del bombardamento del 17 gennaio 1991, i due terzi della popolazione americana erano favorevoli ad un accordo diplomatico che ricalcava una proposta irachena nota ai funzionari Usa, ma della cui esistenza (come del relativo rifiuto americano) l'opinione pubblica era stata tenuta all'oscuro grazie al disciplinato silenzio dei media. Le 'moltitudini di canaglie', ancora una volta, erano state tenute fuori dal gioco. L'amministrazione Bush non è stata mai chiamata a chiarire i veri motivi che le fecero preferire la guerra alla diplomazia - delle ragioni addotte non ve n'era una che un qualsiasi adolescente istruito non avrebbe potuto immediatamente contraddire. La cultura ufficiale riuscì a bloccare brillantemente tutte quelle domande di fondo che in una vera democrazia sarebbero invece state poste al governo.
Ancor più contrarie alla guerra erano le popolazioni del Medioriente. La stessa opposizione irachena, sempre ignorata da Washington (e quindi dalla stampa), criticò la politica Usa per il sostegno dato prima dell'agosto del 1990 al dittatore iracheno, il rifiuto di una soluzione diplomatica e infine il tacito appoggio a Saddam Hussein durante la repressione delle ribellioni sciite e curde. Un suo portavoce, il banchiere Ahmad Chalabi, descrisse gli esiti della guerra come "i peggiori possibili" per il popolo iracheno e attribuì l'atteggiamento Usa alla tradizionale politica di "sostegno alle dittature per mantenere la stabilità". In Egitto, l'unico paese arabo alleato degli Usa dove vi sia un certo grado di libertà, la stampa semi-ufficiale sostenne che il dopo-guerra del Golfo avrebbe dimostrato come gli Stati Uniti in realtà volevano solo far rientrare l'Iraq nei ranghi e quindi stabilire la propria incontrastata egemonia, se necessario "con lo stesso Saddam", con colui che avevano definito la "belva feroce", nell'ambito di un'intesa sull'opportunità di "bloccare qualsiasi progresso ed abortire ogni speranza, per quanto fievole, di libertà, eguaglianza e di progresso verso la democrazia" (9 aprile). I media furono disciplinati anche in questo caso. In seguito alle critiche della stampa egiziana, il corrispondente del "Times" Alan Cowell scrisse su "l'unanime sostegno" degli alleati arabi alla politica Usa secondo la quale "qualunque fossero i peccati del leader iracheno, egli poteva offrire all'Occidente e alla regione migliori assicurazioni sulla stabilità del suo paese, di quanto non potessero fare coloro che aveva represso" (11 aprile). Al "Times" bisogna comunque riconoscere il merito di aver chiarito con sincerità i motivi che spingono gli Usa a preferire un altro Saddam Hussein che domini l'Iraq con un 'pugno di ferro' piuttosto che correre i rischi connessi con una democratizzazione (leggi 'instabilità') del paese.
La Crisi del Golfo ha assestato duri colpi alle Nazioni Unite. E' vero che in quell'occasione gli Usa e la Gran Bretagna non ebbero bisogno di ricorrere, come al solito, al diritto di veto o ad altri espedienti per bloccare i tentativi dell'Onu di restaurare la legalità, in quanto si trovarono ad opporsi ad un atto di aggressione da loro non autorizzato. Ma con le loro pressioni 'convinsero' comunque il Consiglio di Sicurezza a non occuparsi della faccenda, lasciandoli liberi di agire unilateralmente e violare la stessa Carta dell'Onu. Ulteriori pressioni americane impedirono poi al Consiglio di rispondere ai numerosi appelli di paesi membri che chiedevano di discutere del problema, come stabilito da quelle stesse regole che gli Usa avevano in passato invocato a loro vantaggio. Il fatto che Washington non abbia intenzione di ricorrere alla diplomazia o alle istituzioni internazionali, se non quando siano puri strumenti del proprio potere, è stato drammaticamente dimostrato da quanto avvenuto nel Sud-Est asiatico, in Medioriente, in Centroamerica ed altrove. E probabilmente nulla cambierà a questo riguardo, compresa l'efficacia con cui i media riescono ad occultare i fatti (34).
Nel caso dell'Iraq, come abbiamo già visto, la scomparsa del deterrente sovietico fu un fattore determinante nella scelta bellica di Usa e Gran Bretagna. E potrebbe anche esserlo stato per l'invasione di Panama, come dichiarato dall'incaricato per l'America Latina sotto Reagan, Elliot Abrams, il quale sostenne, esultando, che gli Usa erano ormai liberi di usare la forza senza timore di una reazione russa.
Finita la guerra fredda, l'ostilità degli Usa verso una vera democratizzazione
in Centroamerica non accennò comunque a diminuire. Mentre cadeva il muro
di Berlino, si tennero in Honduras nuove elezioni politiche definite da George
Bush "la realizzazione delle speranze di democrazia oggi così diffuse
nelle Americhe". I candidati rappresentavano i grossi proprietari terrieri
ed i ricchi industriali, strettamente legati ai militari; il vero centro del
potere sotto il controllo Usa. Dal momento che i loro progetti politici erano
praticamente identici, la campagna elettorale si svolse a forza di insulti ed
intrattenimenti, mentre si moltiplicarono le violazioni dei diritti umani da
parte delle forze di sicurezza. Tutto ciò sullo sfondo di una carestia
ed una miseria dilaganti, ulteriormente aggravatesi nel corso del precedente
'decennio di democrazia', di una massiccia fuga di capitali e di un sempre più
pesante debito estero. Ma per gli Usa tutto era a posto perché non vi
era alcuna seria minaccia all'ordine, o agli interessi degli investitori americani.
Non così in Nicaragua dove, più o meno allo stesso tempo, la popolazione
venne chiamata alle urne per scegliere il presidente. Le precedenti elezioni
del 1984 erano scomparse dai commentari Usa. In quell'occasione Washington non
era riuscita ad influenzarne il risultato e, quindi, non potevano essere considerate
una 'prova di democrazia'. Per non correre alcun rischio questa volta Bush,
all'inizio della campagna elettorale del 1990, annunciò che in caso di
vittoria del suo candidato avrebbe tolto l'embargo economico a Managua. Contemporaneamente
la Casa Bianca ed il Congresso rinnovarono il loro sostegno ai Contra sfidando
i presidenti centroamericani, la Corte Internazionale e l'Onu, resa impotente
dal veto Usa. I media, dandosi da fare per nascondere il boicottaggio Usa del
processo di pace nella regione, seguirono a ruota con la tipica dedizione richiesta
dagli affari di stato. I nicaraguensi furono così avvisati che solo il
voto a favore del candidato appoggiato dagli Stati Uniti avrebbe portato alla
fine degli attacchi terroristici e della illegale guerra economica contro il
loro paese. Il risultato elettorale fu interpretato in America Latina, persino
da coloro che ne furono soddisfatti, come una vittoria di George Bush. Negli
Stati Uniti, invece, venne accolto come "una vittoria del rispetto delle
regole da parte degli Usa", salutata dagli "Americani uniti nella
gioia", stile albanese, come titolò il "New York Times".
E non fu certo per ignoranza. Coloro che celebrarono la vittoria del candidato Usa sapevano bene com'era stata ottenuta. Assistemmo piuttosto all'espressione di una malcelata gioia per essere riusciti nell'impresa di sovvertire una democrazia. Per esempio la rivista "Time", parlando della "democrazia che stava prorompendo" in Nicaragua, fu piuttosto sincera sui mezzi usati per realizzare l'ultima "serie positiva di sorprese democratiche". Il metodo seguito era stato quello di "distruggere l'economia del paese e di condurre una lunga e mortale guerra per procura, finché gli stessi abitanti, esausti, non avessero rovesciato l'indesiderato governo", il tutto ad un costo "minimo" per gli Usa e lasciando la vittima "con ponti distrutti, centrali elettriche sabotate e poderi rovinati", in modo da dare al candidato americano nelle elezioni nicaraguensi "uno slogan vincente": mettere fine all'"impoverimento del popolo del Nicaragua". Per comprendere appieno il carattere di questa cultura politica, basta immaginare la stessa storia, con solo alcuni nomi cambiati, pubblicata su qualche giornale della Russia di Stalin; ma si tratta di un esercizio intellettuale al di là delle capacità dei commissari politici del sistema occidentale (35).
La sincerità dell'articolo del "Time" è rinfrancante
e rivela esattamente quel che s'intende quando si parla di 'Americani uniti
nella gioia' che proclamano la loro fedeltà agli 'ideali democratici'.
L'Angola è un altro paese nel quale il governo di Washington impiegò
metodi di questo tipo per portare la 'democrazia'; anche in questo caso il paese
è stato distrutto e si sono avuti centinaia di migliaia di morti. A partire
dal 1975, l'Angola venne più volte attaccata dal Sudafrica e dalle forze
terroristiche dell'"Unita" di Jonas Savimbi che, sostenute dagli Usa,
operavano a partire dalla Namibia e poi dallo Zaire. Gli Stati Uniti, da parte
loro, non solo si rifiutarono di riconoscere il governo dell'M.P.L.A., ma lanciarono
contro l'Angola una vera e propria guerra economica. Il Sudafrica, dopo essere
stato sconfitto dalle forze cubane che dal 1975 ne avevano bloccato l'avanzata,
al fine si ritirò e nel maggio del 1991 venne firmato un accordo di pace
che prevedeva la convocazione di elezioni politiche generali. Ma, come in Centroamerica,
gli Usa decisero subito di boicottare l'intesa e continuarono a sostenere i
terroristi dell'"Unita". Gli effetti della politica americana sono
stati così descritti dal giornalista sudafricano Phillip van Niekerk:
i contadini "non amano l'"Unita"", scrisse citando un membro
olandese della cooperazione, "ma la maggior parte di loro teme che se perderà
le elezioni, la guerra continuerà".
Coloro che sono "a conoscenza delle atrocità commesse dall'"Unita"" potrebbero essere "atterriti" da una simile prospettiva, continua van Niekerk, ma la popolazione non può sopportare la continuazione della guerra. Il governo dell'M.P.L.A. "ha sacrificato una generazione per resistere ad anni di attacchi sudafricani e di tentativi destabilizzanti dell'"Unita", finanziata dagli Usa", scrive Victoria Brittain, ed ha perso la sua precedente credibilità; quello che avrebbe potuto fare senza l'attacco Usa-sudafricano è pura speculazione. Una "nuova ondata di bianchi" sta "ricolonizzando" l'Angola, prosegue van Niekerk; per adesso sono gli "Afrikaner", in seguito forse saranno i portoghesi tornati a reclamare le loro terre. "Gli unici ad essere ottimisti", per Brittain, "sono gli uomini d'affari sudafricani che occupano le lobby degli alberghi rimessi a nuovo" di Luanda, dove i cinici dicono che "se vince l'"Unita", il paese verrà servito loro su un piatto d'argento, se vince l'M.P.L.A. l'Angola gli verrà servita lo stesso, ma per una manciata di rand" (36).
E' quindi ovvio che negli Usa un dissidente radicale come Anthony Lewis elogi
la "coerenza della politica americana" tesa, fin dagli anni '70, "a
favorire una soluzione negoziata della brutale guerra civile" in Angola
ed il buon successo della "politica di pace" dell'amministrazione
Bush che si proponeva di trovare "una soluzione politica alla crisi del
Nicaragua" (37).
L'usuale atteggiamento Usa nei confronti della democrazia venne ribadito in
una conferenza indetta dal Pentagono, nel settembre del 1990, sugli "Sviluppi
Strategici per l'America Latina". Nelle conclusioni del convegno si sostiene
che i rapporti con la dittatura messicana sono "straordinariamente buoni",
per nulla turbati dai brogli elettorali, dalle squadre della morte, dalla pratica
della tortura, dal trattamento scandaloso riservato ai lavoratori ed ai contadini,
e via di seguito. Ma "un'apertura democratica in Messico, con l'elezione
di un governo più incline a sfidare gli Usa con motivazioni di ordine
economico e toni nazionalistici, potrebbe mettere a rischio questo speciale
rapporto"; la vera preoccupazione di fondo della politica estera degli
Usa da molti anni a questa parte (38).
Ogni anno la Casa Bianca invia al Congresso una relazione nella quale giustifica le enormi spese militari con le gravi minacce che, altrimenti, penderebbero sulle nostre teste - spese queste che, tra l'altro, servono in patria a sostenere l'industria nazionale ad alta tecnologia e, all'estero, la repressione. La prima edizione dopo-guerra fredda di quel rapporto risale al marzo del 1990. Scomparsi dalla scena i russi, il documento finalmente dovette riconoscere con sincerità che il vero nemico degli Usa era il Terzo Mondo: la potenza militare americana doveva tener d'occhio il Sud, soprattutto il Medioriente, dove "i pericoli per i nostri interessi... non potevano certo essere imputati al Cremlino", una realtà che a quel punto si poteva anche riconoscere, visto che il pretesto sovietico era scomparso. Per la stessa ragione, ora gli Usa sarebbero minacciati dalle "sempre più sofisticate tecnologie impiegate nei conflitti del Terzo Mondo". Gli Stati Uniti devono quindi rafforzare le loro "industrie della difesa", con incentivi "per gli investimenti in nuovi impianti e attrezzature, nella ricerca e nello sviluppo", e inoltre potenziare le loro capacità di intervento rapido per fronteggiare insurrezioni e 'conflitti a bassa intensità' (39).
Riassumendo, le priorità strategiche degli Usa nel dopo-guerra fredda sono ancora il mantenimento della loro supremazia nel 'club dei ricchi', il controllo delle aree subordinate del Sud ed i massicci finanziamenti pubblici alle industrie nazionali ad alta tecnologia. Parimenti si oppongono con decisione ad ogni democrazia sostanziale, a meno che non la si intenda nel senso ufficiale di dominio incontrastato delle grandi imprese. I diritti umani continuano ad essere, come sempre, irrilevanti. Le politiche Usa mantengono una loro coerenza, al di là degli aggiustamenti congiunturali e delle relative modifiche nella cultura ufficiale. Questa strategia è così chiara, e ribadita con tale maniacale coerenza, da richiedere un vero talento per non accorgersene.
Note:
N. 30. Simes, "New York Times", 27 dicembre 1988. Per ulteriori
dettagli, vedi Chomsky, "Deterring Democracy", 97n.
N. 31. Vedi "Daedalus", inverno 1990. "New York Times",
4 gennaio, 31 agosto 1990. Per ulteriori informazioni, Chomsky, "Deterring
Democracy", p. 61.
N. 32. Lionel Barber e Alan Friedman, "Financial Times", Londra, 3
maggio 1991. Negli Usa una seria copertura nei media iniziò con il "Los
Angeles Times", 23, 25, 26 febbraio 1992. Sulle informazioni disponibili,
spesso ignorate, prima dell'invasione del Kuwait, vedi Chomsky, "Deterring
Democracy", 152, 194n.
N. 33. Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 4-5.
N. 34. Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 6 e 'Afterword'. Per maggiori
dettagli, il mio articolo in Peters, "Collateral Damage", 'Iron fist',
p. 38.
N. 35. Chomsky, "Deterring Democracy", 141n., cap. 10. Vedi "Culture
of Terrorism"; "Necessary Illusions"; "Deterring Democracy";
per un resoconto del boicottaggio dei negoziati di pace e la complicità
dei media. Vedi Robinson, "Faustian Bargain", sul tentativo Usa di
sovvertire le elezioni.
N. 36. Van Niekerk, "Toronto Globe & Mail", 25, 29 gennaio 1992.
Gran Bretagna, "Guardian", Londra, 30 marzo. "Guardian Weekly",
5 aprile 1992. Per approfondimenti, vedi George Wright, "Z magazine",
maggio-giugno 1992.
N. 37. Lewis, "New York Times", 24 agosto 1992.
N. 38. "Latin America Strategy Development Workshop", 26, 27 settembre
1990, verbale, p. 3.
N. 39. Per ulteriori dettagli, Chomsky, "Deterring Democracy", p.
29-30.