PARTE PRIMA.
VINO VECCHIO IN BOTTIGLIE NUOVE.
Capitolo 2.
I CONFINI DELL'ORDINE MONDIALE.
Come alla fine dell'800 i coloni americani avevano il compito di 'allargare i confini naturali' del loro paese, che allora si estendeva sino al Pacifico, oggi gli Stati Uniti si trovano a difendere altri 'confini naturali', quelli del loro potere nel Sud. Di qui gli sforzi di Washington per assicurarsi che nessun paese di quell'area divenga realmente indipendente, le trepidazioni e gli isterismi quando invece si manifesta qualche eccezione a questa regola. Ciascun paese deve mantenere il ruolo affidatogli nel sistema economico internazionale, controllato dalle società industrializzate a 'capitalismo di stato'.
Le funzioni attribuite al Sud sono esclusivamente subalterne: fornire risorse, manodopera a basso costo, mercati, opportunità di investimenti e, ultimamente, accogliere i rifiuti tossici del Nord. Nell'ultimo mezzo secolo questo 'ordine' è stato assicurato dagli Usa che si sono assunti la responsabilità di proteggere gli interessi delle "nazioni satolle", le quali si pongono in virtù della loro forza "al di sopra delle altre", e quelli degli "uomini ricchi che vivono in pace nelle loro dimore" ai quali va affidato "il governo del mondo", come sottolineò Winston Churchill dopo la Seconda guerra mondiale.
Gli interessi nazionali degli Usa sono sempre formulati a livello mondiale. Nelle direttive strategiche ufficiali il pericolo principale viene generalmente identificato in quei "regimi radicali e nazionalisti" che rispondono positivamente alle richieste popolari per "un miglioramento immediato del basso livello di vita delle masse" e per uno sviluppo che soddisfi i bisogni dei singoli paesi. Programmi questi in conflitto con la richiesta di un "clima economico e politico che favorisca gli investimenti privati", con un adeguato rientro dei profitti (Consiglio per la Sicurezza Nazionale-N.S.C. 5432/1, 1954) e con la "protezione delle nostre materie prime" (George Kennan). Per questi motivi, come riconobbe nel 1948 il lungimirante capo del gruppo per la Pianificazione Politica del Dipartimento di Stato: "Dovremmo cessare di parlare di obiettivi vaghi e... illusori quali i diritti umani, l'innalzamento dei livelli di vita e la democratizzazione" e piuttosto "agire in termini di puro potere", non "condizionati da slogan idealistici" quali "l'altruismo e la beneficenza mondiale", al fine di mantenere quella "diseguaglianza" che separa la nostra enorme ricchezza dalla povertà altrui (Kennan).
A questo punto è facile capire la spinta profondamente antidemocratica della politica Usa nel Terzo Mondo, con il suo continuo ricorrere al terrorismo per eliminare "la partecipazione alla vita politica della maggioranza" della popolazione. Essa deriva direttamente dall'opposizione a quel 'nazionalismo economico', spesso frutto delle pressioni di organizzazioni popolari. Tali eresie dunque devono essere sradicate. Un obiettivo che nel corso degli anni ha influenzato assai più della guerra fredda la politica estera americana. Eppure, nell'ultimo decennio, grazie ai nostri intellettuali ben addestrati, tali politiche selvagge e distruttive sono state salutate come portatrici di democrazia e di un nuovo rispetto per i diritti umani nel mondo.
Processi analoghi hanno avuto luogo all'interno dei paesi del Nord, anche se in questi casi i metodi per domare la 'mandria smarrita' sono diversi (1).
Come abbiamo già visto, il principio del 'libero scambio' è molto in voga presso coloro che si aspettano di vincere in questo modo la concorrenza, anche se essi stessi sono i primi a fare delle eccezioni quando ciò giova ai loro interessi. E così, solo il nazionalismo economico (degli altri) suscita lo sdegno dei politici del Nord. Ma in realtà questo atteggiamento divenne tipico della politica Usa solamente dopo che, grazie al protezionismo, alla 'sostituzione delle importazioni' (con prodotti fatti in patria, N.d.C.) ed altri metodi 'ultranazionalisti', gli Stati Uniti furono in grado di giocare la partita del libero mercato con ottime possibilità di successo. Alla metà degli anni '40, quando la potenza Usa aveva ormai raggiunto livelli straordinari, riecheggiarono sempre più forti le lodi del liberismo economico, spesso accompagnate dagli appelli per sempre maggiori stanziamenti a favore delle imprese nazionali. Restava solo il problema di come riuscire a convincere quelle menti arretrate all'estero della validità di una politica che serviva così splendidamente gli interessi statunitensi.
Alla Conferenza Mondiale di Chapultepec (Messico) del 1945, gli Usa lanciarono un appello per uno "Statuto economico delle Americhe" che avrebbe eliminato il nazionalismo economico "in tutte le sue forme". Una posizione in aperto disaccordo con quella assunta dai paesi dell'America Latina, che un funzionario del Dipartimento di Stato aveva descritto come "la filosofia del 'nuovo nazionalismo' caratterizzato da politiche che si prefiggono una vasta ridistribuzione della ricchezza e l'innalzamento dei livelli di vita delle masse". Il consigliere politico del Dipartimento di Stato, Laurence Duggan, scrisse allora: "Il nazionalismo economico è l'elemento comune ai paesi che aspirano all'industrializzazione. I latinoamericani sono convinti che i benefici dello sviluppo delle risorse di un paese debbano andare prioritariamente a favore delle popolazioni locali". Al contrario, secondo gli Usa, "i primi beneficiari" dovevano essere proprio gli investitori americani ed i paesi dell'America Latina dovevano continuare ad essere subalterni. Anzi, secondo le amministrazioni Truman ed Eisenhower, l'America Latina non avrebbe dovuto dar vita ad un "eccessivo sviluppo industriale" in grado di ledere gli interessi nordamericani (2).
Dati i rapporti di forza, vinse la posizione Usa.
Per quanto riguarda l'Asia, come osserva Bruce Cumings, gli stessi principi furono sanciti per la prima volta in una direttiva del Consiglio per la Sicurezza Nazionale (la N.S.C. 48) dell'agosto del 1949, riassumibile nell'enunciazione 'reciproci scambi, mutui vantaggi'. A questo si aggiungeva inoltre il rifiuto di accettare uno sviluppo indipendente dell'area: "Nessuno [dei paesi asiatici] da solo ha risorse adeguate per un generale processo di industrializzazione". L'India, la Cina ed il Giappone potrebbero "avvicinarvisi", ma non più di tanto. Le prospettive del Giappone erano del resto considerate abbastanza limitate: secondo un'indagine Usa del 1950, Tokyo poteva produrre dei 'gingilli' ed altri prodotti per i paesi sottosviluppati, ma niente di più. Anche se indubbiamente tacciabili di razzismo, tali conclusioni allora non erano del tutto errate perché fu solo dopo la guerra di Corea che la stagnante economia del Giappone si rimise in moto. Secondo la direttiva del Consiglio per la Sicurezza Nazionale: "Un'industrializzazione generalizzata dei singoli paesi si potrebbe raggiungere solo ad un costo molto elevato, sacrificando quelle produzioni [per l'esportazione] nelle quali essi hanno un vantaggio relativo". Gli Usa devono quindi trovare i modi per "esercitare pressioni economiche" sui paesi che non accettano il ruolo impostogli di fornitori di "materie prime strategiche ed altri prodotti di base". Secondo Cummings, in questa posizione vi sarebbero già tutti gli elementi che avrebbero poi portato alle successive politiche dell'assedio economico.
Con l'eccezione dell''Africa Bianca' (il Sudafrica, N.d.C.), le prospettive per lo sviluppo di quel continente non furono mai prese sul serio. Per quanto riguarda il Medioriente, il principale obiettivo americano era quello di controllare le fonti energetiche seguendo le regole della politica britannica: delegare il potere locale ad una 'facciata araba', 'assorbire' le colonie "con finzioni costituzionali quali il protettorato, la sfera d'influenza, lo stato cuscinetto, e via di seguito", stratagemma questo meno costoso del dominio diretto (Lord Curzon e l'"Eastern Committee", 1917-1918). In ogni caso, come avvertì John Foster Dulles, non dobbiamo mai correre il rischio di "perderne il controllo". La 'facciata araba' locale consisteva in dittature di famiglia che in qualche modo eseguivano gli ordini, assicuravano il flusso dei profitti agli Usa, al loro alleato britannico ed alle grandi società petrolifere. Tali dittature inoltre erano sotto la 'protezione' di gendarmi regionali, preferibilmente non arabi (la Turchia, Israele, l'Iran nel periodo dello Scià, il Pakistan), mentre le forze americane e britanniche rimanevano pronte nell'ombra. Questo sistema, che ha funzionato discretamente per un lungo periodo, conosce oggi nuove fortune grazie allo sbando delle forze laiche e nazionaliste del mondo arabo ed al venir meno del deterrente sovietico (3).
Le ragioni profonde di certe politiche a volte arrivano casualmente all'opinione pubblica, come quando i commentatori del "New York Times", plaudendo al rovesciamento del regime parlamentare di Mossadegh in Iran, osservarono: "I paesi sottosviluppati, ricchi di materie prime, adesso hanno potuto constatare l'alto prezzo che devono pagare se si fanno trascinare dal fanatismo nazionalista". Le 'zone subordinate' devono essere protette dal 'bolscevismo' o dal 'comunismo', termini che in realtà indicano quel tipo di trasformazioni sociali "che potrebbero compromettere la volontà e la capacità di contribuire (con un ruolo subalterno) alle economie industriali dell'Occidente", come si sostiene in una ricerca accademica degli anni '50. Ma è la storia la migliore conferma di queste strategie nei confronti del Sud (4).
I 'regimi radicali e nazionalisti' non possono, di per sé, essere tollerati, ma ciò è ancor più vero se quei governi registrano dei successi che li trasformano in possibili punti di riferimento per i popoli oppressi e sofferenti: una sorta di 'virus' in grado di 'infettare' gli altri paesi o delle 'mele marce' che potrebbero 'rovinare il cesto'. Ufficialmente essi vengono descritti come le tessere di un domino che, con la violenza interna e la conquista, potranno destabilizzare altri paesi; negli ambienti politici Usa qualche volta si ammette l'assurdità di quest'immagine, e si riconosce che la minaccia è costituita piuttosto da quel che l'organizzazione umanitaria internazionale "Oxfam", riferendosi al Nicaragua, definì "il pericolo del buon esempio". Quando Kissinger disse che "l'esempio contagioso" del Cile di Allende avrebbe potuto "infettare" non solo l'America Latina ma anche l'Europa meridionale e lanciare all'elettorato italiano il messaggio di una possibile riforma democratica della società, egli non pensava certo che le orde di Allende sarebbero scese su Roma. Sebbene 'l'esportazione della rivoluzione' da parte dei sandinisti fosse un'invenzione dei media governativi, quella propaganda rifletteva una preoccupazione autentica: dal punto di vista di un potere egemone e dei suoi servitori intellettuali, l'intenzione di costruire un modello che sia d'ispirazione per gli altri - fonte per l'immaginario collettivo dei popoli del Terzo Mondo - equivale ad un'aggressione ai loro interessi (5).
Quando si scopre un virus, bisogna distruggerlo e vaccinare le sue vittime potenziali. Il 'virus' cubano venne affrontato con l'invasione, il terrore, la guerra economica e, per impedire che la malattia si propagasse, ci fu un moltiplicarsi degli 'Stati per la Sicurezza Nazionale' sotto un controllo militare. Lo stesso avvenne in quegli anni nel Sud-Est asiatico. L'approccio tipico nei confronti del 'virus', come nel caso del Cile di Allende, si muoveva su due binari. La linea dura voleva il golpe, e alla fine ci riuscì. L'ambasciatore Edward Korry, un liberal kennediano, spiega invece così la linea morbida: "Fare tutto il possibile per condannare il Cile ed i cileni alla privazione ed alla povertà estrema, tramite una politica di lungo periodo mirante a far emergere velocemente i lati più negativi di una società comunista". Quindi anche nel caso la linea dura non fosse riuscita a sterminare il 'virus' con gli assassini fascisti, lo spettro di una 'estrema privazione' sarebbe stato sufficiente ad impedire la propagazione dell'infezione all'estero e nello stesso tempo privare di ogni forza il 'paziente' stesso. Inoltre la 'linea morbida' aveva il vantaggio di fornire ampie opportunità ai manager della cultura di emettere grida angosciate sui 'duri aspetti della società comunista' e di ricoprire di contumelie i presunti 'apologisti', coloro che invece tentavano di descrivere ciò che realmente stava accadendo in quei paesi. Questo aspetto fu messo bene in luce da Bertrand Russell nei suoi polemici resoconti sui primi giorni della Russia bolscevica:
"Ogni fallimento industriale, ogni provvedimento tirannico causato da una situazione disperata, è strumentalizzato dall'Intesa [i paesi occidentali, N.d.C.] a giustificazione della propria politica. Se un uomo è privato del cibo e dell'acqua si indebolirà, perderà la ragione e alla fine morirà. Ma questa di solito non è una buon motivo per infliggergli la morte per fame. Ma quando si tratta di nazioni, la debolezza e le lotte sono considerate colpe morali, e sono addotte per giustificare altre punizioni".
Evidentemente si trae molta soddisfazione quando si scruta meticolosamente chi si dibatte sotto il nostro stivale per vedere se si sta comportando bene; quando non lo fa, come spesso accade, l'indignazione non ha limiti. Invece le nostre peggiori atrocità, o quelle dei nostri amici 'moderati' o in via di 'diventarlo', sono delle semplici 'deviazioni' che presto verranno corrette (6).
Introducendo un'altra espressione assai comune nel linguaggio ufficiale, le 'mele marce' costituiscono una minaccia alla 'stabilità'. Ad esempio mentre Washington si preparava a rovesciare il primo governo democratico del Guatemala nel 1954, un funzionario del Dipartimento di Stato avvertiva che quel paese "è diventato una minaccia crescente alla stabilità dell'Honduras e del Salvador. La sua riforma agraria è una potente arma propagandistica; il progetto sociale di sostegno ai lavoratori ed ai contadini nella vittoriosa lotta contro le classi privilegiate e le grandi imprese straniere è molto seducente per le vicine popolazioni centroamericane che hanno simili condizioni di vita". 'Stabilità' significa quindi sicurezza per le 'classi privilegiate e per le grandi imprese straniere' e così, naturalmente, va difesa. Si può capire, quindi, perché Eisenhower e Dulles, quando furono avvisati che uno 'sciopero' nell'Honduras sarebbe "stato ispirato e sostenuto dal lato guatemalteco del confine", abbiano potuto pensare che fossero in gioco "l'autodifesa e la conservazione" degli Stati Uniti (7).
La 'stabilità' è talmente importante che, per salvaguardarla, anche le pur 'auspicate riforme' devono essere bloccate. Nel dicembre del 1967, la "Freedom House" rilasciò una dichiarazione di quattordici noti studiosi i quali, affermando di rappresentare "il settore moderato della comunità accademica", lodavano le politiche Usa in Asia definendole "eccezionalmente buone". In modo particolare si riferivano a quelle messe in pratica in Indocina, dove la nostra coraggiosa difesa della libertà aveva contribuito "all'equilibrio asiatico", migliorando "il morale - e le politiche - dei nostri alleati orientali e dei paesi neutrali". Questa tesi è illustrata da ciò che essi citano come il nostro massimo trionfo, e cioè i "drammatici cambiamenti" che ebbero luogo in Indonesia nel 1965 quando l'esercito, incoraggiato dalla presenza Usa in Indocina, prese l'iniziativa e massacrò alcune centinaia di migliaia di persone, per la maggior parte contadini senza terra (vedi cap. 5). In generale, spiegano gli studiosi moderati, per quanto desiderabili ed essenziali possano sembrare a lungo termine, "molti tipi di riforme aumentano l'instabilità. Per un popolo in stato d'assedio, niente può sostituire la sicurezza". Le parole 'popolo', 'stabilità', eccetera, sono intesi qui ovviamente nel senso loro attribuito dalla retorica 'politicamente corretta' degli intellettuali del sistema.
Eminenti studiosi condividevano del resto la tesi dell'analista politico Ithiel Pool del MIT ("Massachussets Institute of Technology") secondo cui è ovvio che in tutto il Terzo Mondo, "per mantenere l'ordine bisogna in qualche modo indurre i settori [della popolazione, N.d.C.] recentemente mobilitatisi a tornare ad una certa passività e disfattismo". La "Trilateral Commission" avrebbe poi presto impartito i medesimi insegnamenti a chi in Occidente stava insidiando la 'democrazia' con la pretesa di entrare da protagonista nell'arena politica invece di rimanere 'spettatore' e lasciare ai 'migliori' la direzione dello spettacolo (8).
Questo modo di pensare è assai diffuso e persisterà finché vi saranno minacce all''ordine' ed alla 'stabilità'. Un problema ricorrente, del tutto indipendente dalle dinamiche della guerra fredda. Dopo la guerra del Golfo, senza più pretesti, George Bush tornò ad esempio a sostenere indirettamente il suo ex amico ed alleato Saddam Hussein mentre schiacciava gli sciiti nel sud ed i curdi nel nord dell'Iraq. Gli ideologi occidentali spiegarono che, anche se quelle atrocità offendevano la nostra sensibilità, dovevano essere comunque accettate nel nome della 'stabilità'.
L'esperto diplomatico del "New York Times", Thomas Friedman, così riassunse il punto di vista dell'amministrazione Bush: Washington pensa che "la soluzione migliore sia una giunta irachena dal pugno di ferro senza Saddam Hussein", un ritorno ai tempi in cui "il polso di Saddam controllava saldamente l'Iraq, con grande soddisfazione della Turchia e dell'Arabia Saudita, alleate dell'America", per non parlare degli sponsor a Washington. Saddam Hussein commise il suo primo vero misfatto il 2 agosto del 1990, quando disobbedì agli ordini. Doveva quindi essere distrutto, ma bisognava trovarne una copia esatta che potesse garantire la 'stabilità'. Coerentemente, per tutta la durata della crisi (ma anche prima e dopo), l'opposizione democratica irachena fu esclusa da ogni rapporto con Washington, e quindi dai principali media americani. Solo nell'estate del 1992, per ragioni elettorali, l'amministrazione Bush avviò limitati contatti con essa (9).
Queste sono le caratteristiche principali del Nuovo Ordine Mondiale, le stesse del Vecchio, ben documentate a livello nazionale, confermate dalla storia e destinate a ripetersi nonostante il mutamento delle circostanze.
La retorica ufficiale utilizza una lunga serie di espressioni interessanti. L'aspirante intellettuale deve imparare a padroneggiare termini come 'minaccia alla sicurezza', che indica qualsiasi cosa possa mettere in pericolo gli interessi degli investitori americani, oppure 'pragmatismo' che applicato al nostro caso significa 'fare quello che vogliamo noi', mentre quando viene riferito ad altri assume il significato che 'loro fanno quel che vogliamo noi'. Nel caso del conflitto arabo-israeliano, per esempio, gli Usa sono stati praticamente gli unici ad osteggiare per anni qualsiasi accordo di pace che desse diritti nazionali ai palestinesi, ma delle due forme assunte dal rifiuto israeliano ("Labur" e "Likud"), Washington ha sempre preferito la prima. Yitzhak Shamir del "Likud" era 'ideologico' mentre il laburista Yitzhak Rabin 'pragmatico'. "L'approccio pragmatico, non ideologico del signor Rabin piace molto a Bush ed ai suoi collaboratori", scrive il portavoce del "Times" presso il Dipartimento di Stato, Thomas Friedman, sottintendendo che l'amministrazione Bush dovrebbe essere 'pragmatica' per definizione, essendo sempre d'accordo con sé stessa. Il corrispondente da Gerusalemme, Clyde Haberman, accolse la vittoria di Rabin alle elezioni del 1992 come una vittoria del 'pragmatismo'. Allo stesso modo, i palestinesi sono 'pragmatici' se accettano che gli Usa stabiliscano le regole del gioco, e cioè che essi non hanno diritto all'autodeterminazione, perché così hanno decretato gli americani. Devono quindi accettare una "autonomia pari a quella che si ha in un campo per prigionieri di guerra" con le parole del giornalista Danny Rubinstein, una 'autonomia' che li renderà liberi di raccattare rifiuti in particolari zone non occupate da Israele - e soltanto finché, come ha sostenuto un noto difensore israeliano delle libertà civili, i secchi della spazzatura non mostreranno i colori della loro bandiera nazionale. Il termine 'processo di pace' è un'altra espressione da imparare: nella retorica della 'correttezza politica', si riferisce a qualunque cosa stiano facendo gli Stati Uniti, anche se in realtà si tratta di politiche che, come in questo ed in tanti altri casi, ostacolano una soluzione giusta del conflitto (10).
Ci sono altre astuzie che l'aspirante intellettuale deve imparare, come vedremo anche in seguito, ma non gli ci vorrà molto vista la spregiudicatezza con cui vengono comunemente utilizzate.
Ad esempio, il pericolo costituito dai 'comunisti' per la 'stabilità' è spesso aggravato dal loro comportamento sleale. Il presidente Eisenhower si lamentava per la capacità che avevano di "fare appello direttamente alle masse". I nostri progetti per 'le masse' rendevano invece impossibile una tale mobilitazione. Il segretario di Stato John Foster Dulles, in una conversazione privata con il fratello Alan, capo della Cia, biasimava dei comunisti "l'abilità di ottenere il controllo sui movimenti popolari", "cosa che noi non siamo in grado di imitare". Ciò perché essi "esercitano un richiamo per i poveri i quali, in fondo, hanno sempre voluto derubare i ricchi" (11). Le stesse preoccupazioni valgono per "la scelta preferenziale a favore dei poveri" della Chiesa Latinoamericana e di ogni iniziativa volta a favorire l'indipendenza economica o la democrazia - anche nel caso si tratti di loro ex amici come Mussolini, Trujillo, Noriega e Saddam Hussein, quando questi dimenticano il ruolo che è stato loro assegnato.
Note:
N. 1. Per dettagli e fonti, vedi Chomsky, "Turning the Tide";
"On Power and Ideology"; "Deterring Democracy". Per Kennan
ed altri documenti, "Turning the Tide", cap. 2.2; "On Power and
Ideology", lett. 1.
N. 2. Green, "Containment", 7.2. Vedi anche cap. 7. 1.
N. 3. Cumings, "Origins", p. 172-173. Sul disprezzo per il punto di
vista del Giappone, vedi Chomsky, "Deterring Democracy", p. 337-8,
Ibid., cap. 6 e 'Afterword'. Sul Medioriente, "Towards a New Cold War",
cap. 8. Sugli inglesi e Dulles, Stivers, "Supremacy", p. 28, 34; "America's
Confrontation", 20n.
N. 4. Chomsky, "Deterring Democracy", in modo particolare p. 49-51,
27.
N. 5. Ibid, p. 259; "Turning the Tide", p. 270; "Culture of Terrorism",
p. 219-221; "Necessary Illusions", p. 71-72. Su Kissinger, "Turning
the Tide", p. 67-68.
N. 6. Chomsky, "Deterring Democracy", p. 395. Russell, "Practice
and Theory", p. 68.
N. 7. Gleijeses, "Shattered Hope", p. 365. "Foreign Relations
of the United States", 1952-1954, Vol. 4, 1131n.n.; non fu citata alcuna
altra prova. Il Procuratore della Repubblica invocò "l'autodifesa
e la conservazione" delle proprie risorse per giustificare l'assedio imposto
in violazione del diritto internazionale". Memorandum del dibattito al
Consiglio per la Sicurezza Nazionale, 27 maggio 1954.
N. 8. Chomsky, "American Power and the New Mandarins", 33n.n.; "Towards
a New Cold War", p. 67-69, 89-90.
N. 9. Friedman, "New York Times", 7 luglio 1991. Sui democratici iracheni,
vedi Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 6.4: 'Afterword'. sez. 4;
ed articoli precedenti su "Z Magazine".
N. 10. Friedman, "New York Times", 24 giugno. Haberman, "New
York Times", 28 giugno 1992. Nabeel Abraham, "Lies of Our Times",
settembre 1992. Sulla posizione Usa contro i negoziati di pace ed i retroscena,
vedi Chomsky, "Deterring Democracy"; 'Afterword'; per un resoconto
più completo, "Towards a New Cold War"; "The Fateful Triangle";
"Necessary Illusions". Sulla 'correttezza politica' ufficiale, vedi
Herman, "Decoding Democracy".
N. 11. Eisenhower viene citato in Richard Immerman, "Diplomatic History"
(estate 1990). John Foster Dulles, Chiamata telefonica ad Albert Dulles, 19
giugno 1958, 'Minutes of telephone conversations of John Foster Dulles and Christian
Herter', Biblioteca Eisenhower, Abilene, Kansas.