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Anno 501 la conquista continua (indice)


PARTE QUARTA.
AMNESIE OCCIDENTALI.


Capitolo 10.
QUANDO SI UCCIDE LA STORIA.

2. UNA COLONIA ALLE HAWAII.

Le riflessioni storiche di questi mesi tralasciano inoltre di ricordare quell'aria di complicità che accompagnò le imprese del Giappone in Manciuria quando, nel 1932, vi istituì lo stato 'indipendente' del Manchukuo sotto il precedente imperatore Manchu. La procedura era "ben nota", scrisse all'epoca Walter Lippmann, non dissimile da quella seguita dagli Usa "in Nicaragua, ad Haiti, ed altrove". Eppure la Manciuria rivendicava l'indipendenza con ragioni senza dubbio più valide di quelle del Vietnam del Sud venticinque anni dopo. Un fatto del quale il regime filo-Usa di Seul era pienamente consapevole tanto da definirsi come il governo di tutto il Vietnam; persino in un articolo non emendabile della Costituzione imposta dagli Usa. Gli studiosi hanno notato che se non fosse stato per l'intervento statunitense a sostegno della dominazione cinese sulle vicine regioni, motivato dal desiderio di allargare "il campo per i futuri investimenti occidentali e moltiplicare le possibilità di sfruttamento", i tibetani, i mongoli ed i manciuriani avrebbero potuto conquistarsi l'indipendenza (Owen Lattimore, 1934). Il Giappone colse l'occasione per scendere in campo e "difendere" lo "stato indipendente" della Manciuria contro i "banditi" che l'avevano attaccato dalla Cina. L'obiettivo dell'esercito giapponese di Kwantung era di "liberare le masse" dallo sfruttamento dei gruppi feudali e militari e di proteggerle dai terroristi comunisti. Le forze armate del Manchukuo, portando avanti una politica che molti anni più tardi sarebbe stata caldeggiata dalle colombe kennediane, intrapresero delle vere e proprie campagne controinsurrezionali, con tanto di 'villaggi strategici', zelanti iniziative per conquistare le menti ed i cuori, ed altre idee che hanno avuto in tempi a noi vicini una certa popolarità. Tra i molti fatti spiacevoli - e quindi cancellati - vi è la grande somiglianza tra queste operazioni e quelle non meno atroci e brutali condotte anni dopo dagli Stati Uniti vicino al confine meridionale della Cina in Vietnam. Operazioni che, del tutto ignorate dai manager della cultura, raggiunsero la punta massima di violenza omicida poco dopo la pubblicazione, nel 1967, ad opera della "Rand Corporation", dei documenti giapponesi sulla Manciuria (7).

La somiglianza non è del tutto casuale. A parte il fatto che certe idee vengono in mente a soggetti simili che si trovano ad agire nelle stesse circostanze, la dottrina controinsurrezionale degli Usa aveva preso esempio dalle pratiche e dai successi del fascismo durante la Seconda guerra mondiale; anche i modelli preferiti dagli strateghi erano nazisti. Esaminando i manuali dell'esercito Usa degli anni '50, Michael McClintock nota la "preoccupante somiglianza tra come i nazisti vedevano il mondo ed il punto di vista americano durante la guerra fredda". Dai manuali emergeva che gli obiettivi di Hitler erano stati molto simili a quelli degli Usa quando questi si erano assunti la guida a livello internazionale della lotta contro la resistenza antifascista ed altri criminali (etichettati come 'comunisti' o 'terroristi'). Gli Usa adottarono inoltre con naturalezza la stessa cornice di riferimento dei nazisti: i partigiani erano "terroristi", mentre i nazisti "proteggevano" la popolazione dalla loro violenza e coercizione. L'uccisione di chiunque "dia aiuto o conforto, direttamente o indirettamente, a questi partigiani, o di chiunque nasconda informazioni sui partigiani", sostenevano i manuali Usa, era "legale" e rientrava "nelle misure previste dalla Convenzione di Ginevra". Del resto i tedeschi ed i loro collaborazionisti si consideravano i "liberatori" del popolo russo. Quei manuali dell'esercito Usa erano stati preparati con l'aiuto di ex ufficiali della Wehrmacht, ed erano il frutto della sperimentazione dei loro modelli: per esempio, quello che prevede "l'evacuazione di tutti gli indigeni da zone infestate dai partigiani e la successiva distruzione dei poderi, dei villaggi e delle abitazioni" - come suggerivano i pacifisti consiglieri di Kennedy, e come era prassi normale per gli Usa in Centroamerica. Alla stessa logica fu improntata la decisione delle amministrazioni civili Usa dalla fine degli anni '40 in poi, di ritirare fuori i criminali di guerra nazisti assegnandoli alle loro precedenti mansioni (Reinhard Gehlen, Klaus Barbie, ed altri) oppure, quando non era più possibile proteggerli negli Usa, di trarli in salvo in America Latina o altrove dove poterono continuare a svolgere la loro opera (8).

Quei concetti vennero perfezionati durante l'amministrazione Kennedy, grazie anche alla nota attrazione che il Presidente provava per la guerra non convenzionale. I manuali militari Usa e gli "esperti dell'antiterrorismo" di quel periodo consigliavano "la tattica dell'intimidazione, del sequestro, dell'uccisione di alcuni membri attentamente selezionati dell'opposizione in modo da trarne il massimo effetto psicologico", avendo come obiettivo quello "di diffidare tutti dal collaborare con il movimento guerrigliero". Rispettabili storici e commentatori americani avevano poi il compito di fornire il necessario sostegno intellettuale e morale; tra questi Guenter Lewy che, nella sua ammiratissima storia della guerra del Vietnam, spiega che gli Usa non erano colpevoli di alcun crimine contro "civili innocenti", semplicemente perché in Vietnam non c'erano vittime innocenti. Coloro che si erano uniti alla nostra giusta causa non erano stati toccati (se non per errore, al massimo un omicidio colposo). Coloro che non cooperavano con il 'governo legittimo' imposto con la violenza Usa non erano innocenti, per definizione; perdevano ogni diritto di esserlo nel momento in cui rifiutavano di mettersi sotto la 'protezione' dei loro liberatori come, ad esempio, avvenne con i bambini del delta del Mekong o dell'interno della Cambogia. Quindi si sono meritati la loro sorte (9).

Alcuni inoltre non erano innocenti perché si trovavano nel posto sbagliato; per esempio la popolazione della città di Vinh, "la Dresda vietnamita", come osserva di passaggio Philip Shenon in un articolo di prima pagina del "New York Times Magazine" sulla tardiva vittoria del capitalismo nel Vietnam. Vinh era stata "rasa al suolo dai B-52 americani" perché "maledetta a causa della sua posizione geografica" che ne faceva "un obiettivo naturale" per i bombardieri, come Rotterdam e Coventry. Funzionari canadesi riferirono che nel 1965 questa città di 60 mila persone fu "rasa al suolo", mentre una vasta zona circostante fu ridotta ad un paesaggio lunare (10). Si poteva venire a conoscenza di tutti questi fatti storici solamente al di fuori della cultura ufficiale da cui erano generalmente ignorati, o persino decisamente smentiti; per esempio da Lewy che, appellandosi all'autorità delle dichiarazioni del governo Usa, ci assicurava che i bombardamenti erano diretti contro obiettivi militari e solo casualmente avevano colpito zone civili.

In certi casi è meglio nascondere la storia sotto il tappeto. L'approccio 'politicamente corretto', adottato in genere nell'anniversario di Pearl Harbor consisteva nel fissare la data di inizio dei crimini di guerra giapponesi al 7 dicembre 1941, giorno 'dell'attacco a tradimento' alla base Usa nelle Hawaii; nel ricordare le precedenti atrocità solo per sottolineare maggiormente la differenza tra la loro natura malvagia e la nostra purezza; nell'ignorare la contraddizione tra la teoria ufficiale, secondo la quale l'aggressione giapponese sarebbe iniziata il giorno di Pearl Harbor, ed il fatto che noi stessi avessimo denunciato il Giappone per le atrocità commesse durante gli anni '30, crimini che tra l'altro erano stati considerati invece accettabili in influenti circoli Usa. In generale, l'approccio ufficialmente 'corretto' tende così ad eliminare ogni nota discordante nella storia passata e presente.

E' interessante vedere le reazioni ufficiali quando, alle volte, violando le regole del decoro qualcuno paragona le politiche e le azioni del Giappone a quelle Usa in Vietnam. In genere tali paragoni sono così incredibili da non essere neppure presi in considerazione, oppure scartati come assurdi. In altri casi si è accusati di voler con essi giustificare i crimini del Giappone; un'interpretazione questa abbastanza usuale. Dato il carattere assiomatico della nostra perfezione, ne consegue che qualsiasi confronto con noi conferisca agli altri una parte della nostra nobiltà e diventi quindi una giustificazione dei loro crimini. Secondo la stessa incontestabile logica, non si plaude ai nostri crimini per autocelebrazione, ma solo come giusto omaggio alla nostra magnificenza; e passarli sotto silenzio è semplicemente un po' meno meritevole dell'entusiastica approvazione. Coloro che non riescono a comprendere queste verità vengono quindi condannati per il loro evidente "odio irrazionale verso l'America". Oppure, se non sono completamente esclusi dal mondo civile, si può offrire loro un corso di rieducazione, come ai generali giapponesi.

Il divieto di formulare pensieri così sovversivi emerse con chiarezza in occasione dell'anniversario di Pearl Harbor. Tipica la sorte capitata all'articolo scritto per l'occasione, su sollecitazione del "Washington Post", dall'eminente studioso del Giappone John Dower. In esso l'esperto sosteneva di considerare "piuttosto singolare il fatto che gli americani delirino sulle violenze belliche e le amnesie storiche altrui", tenendo presente come le guerre del Vietnam e della Corea vengono trattate dalla storia ufficiale statunitense. L'articolo, anche se era stato richiesto, non fu pubblicato (11).

Un'altra domanda, assai pertinente, non venne mai posta in occasione delle ricostruzioni storiche sull'aggressione giapponese del 7 dicembre del 1941: perché mai gli Usa avevano una base militare a Pearl Harbor e controllavano le Hawaii? La risposta è che, mezzo secolo prima di quella 'data infame', il nostro paese aveva sottratto con la forza e con l'astuzia le Hawaii ai loro abitanti, con l'obiettivo tra l'altro di poter disporre di una base navale a Pearl Harbor. Il centenario di quella conquista cadde poco dopo l'inizio dell'Anno 501 e forse, mentre ci lamentavamo del rifiuto del Giappone a riconoscere le sue colpe, avrebbe meritato una piccola riflessione. Alzando il velo imposto dalla censura, si scoprono sempre storie molto interessanti come quella delle Hawaii.

Finché la Gran Bretagna fu abbastanza forte, Londra agì da deterrente all'espansionismo Usa e Washington preferì difendere strenuamente l'indipendenza delle Hawaii. Nel 1842, il presidente Tyler dichiarò che gli Stati Uniti non cercavano "alcun vantaggio particolare, nessun controllo esclusivo sul governo hawaiano ma, al contrario, sono soddisfatti della sua indipendenza e desiderano sinceramente la sicurezza e la prosperità del paese". Dunque, Washington si sarebbe opposta ad ogni tentativo da parte di qualunque paese "di prendere possesso delle isole, colonizzarle e sovvertire il governo locale". Con questa dichiarazione, Tyler estese la Dottrina Monroe alle Hawaii. L'indipendenza delle isole fu riconosciuta anche dai principali paesi europei e non, e venne sancita da numerosi trattati e dichiarazioni ufficiali.

Verso la fine dell'800, i rapporti di forza si spostarono a favore degli Stati Uniti, offrendo loro nuove opportunità nel Pacifico, come in America Latina. I coloni Usa misero su alle Hawaii una fiorente industria per la produzione dello zucchero, mentre emergeva con sempre maggiore chiarezza l'importanza strategica di quelle isole come ponte verso ancor più ampi orizzonti nel Pacifico. L'ammiraglio DuPont osservò che "è impossibile stimare il valore e l'importanza sia commerciale che militare delle isole hawaiane". Ovviamente, la nostra sfera di 'legittima autodifesa' doveva essere ampliata per includere anche questo nuovo trofeo. Ma c'erano due ostacoli: l'indipendenza di quel regno insulare ed il "problema demografico" costituito dal fatto che gli indigeni hawaiani, nonostante fossero rimasti un sesto di quanti erano prima dell'arrivo degli occidentali, costituivano ancora il 90% della popolazione. I coloni quindi decisero di guidare ed assistere quel popolo, così "carente intellettualmente", e di regalargli un buon governo - formato da chi di dovere, i proprietari delle piantagioni.

Il mensile "Planters' Monthly" osservò nel 1886 che l'hawaiano medio "ancora non ha compreso" "i confini, i limiti" e gli "obblighi morali e personali conseguenti" al dono che gli abbiamo fatto. "L'uomo bianco ha organizzato per gli indigeni un governo, ha messo loro in mano la scheda elettorale ed ha dato loro il potere legislativo ed esecutivo; ma purtroppo dare tali poteri a chi non sa ancora usarli, è come consegnare coltelli affilati, strumenti appuntiti ed arnesi pericolosi nelle mani dei bambini".

Preoccupazioni simili nei confronti della 'moltitudine di canaglie' e della sua innata stupidità ed indegnità sono state espresse da "uomini della migliore qualità" durante tutta la storia moderna ed hanno fatto da trama alle teorie ufficiali sulla democrazia (12).

Il primo sbarco dei Marines alle Hawaii a sostegno dei coloni risale al 1873, ad appena 30 anni dalle dichiarazioni altisonanti di Tyler a favore dell'indipendenza di quel paese. Un primo golpe organizzato dall'oligarchia filo-Usa dei proprietari delle piantagioni venne tentato, senza molto successo, durante le elezioni del 1886. Più fortunato un secondo tentativo, un anno dopo, andato in porto grazie alle formazioni militari degli "Hawaiian Rifles". Il re fu costretto ad accettare la 'Costituzione delle Baionette' che dava il diritto di voto ai cittadini Usa, escludeva vasti settori della popolazione indigena, riservando il godimento di determinati diritti solo a chi possedeva delle proprietà, e considerava invece come stranieri le comunità di origine asiatica che vivevano da tempo sulle isole. Il nuovo governo golpista cedette quindi agli Stati Uniti l'estuario del fiume Pearl per costruirci un'importante base navale.

Confermando quell'interpretazione 'uniforme' della Dottrina Monroe da parte delle varie amministrazioni Usa di cui parlò il segretario di Stato Cordell Hull, un suo predecessore, James Blaine, aveva osservato nel 1889: "Esistono solo tre posti abbastanza importanti da essere conquistati. Il primo è l'arcipelago delle Hawaii. Gli altri due sono Cuba e Porto Rico". Tutti e tre sarebbero presto caduti nelle loro mani.

I successivi interventi dell'esercito regolare Usa fecero sì che gli indigeni hawaiani si comportassero bene. Nel 1891, ad esempio, la corazzata Usa "Pensacola" venne spedita alle Hawaii per "salvaguardare gli interessi americani", che oramai ammontavano ai quattro quinti delle terre coltivabili. Nel gennaio del 1893, la regina Liliuokalani fece un ultimo sforzo per salvare la sovranità hawaiana, concedendo il suffragio universale a tutti (e solo) i cittadini hawaiani, ricchi e poveri, senza alcuna discriminazione. A quel punto, su ordine del ministro americano John Stevens, le truppe Usa sbarcarono sulle isole ed imposero la legge marziale - per aiutare "i cittadini migliori e i nove decimi dei possidenti del paese", secondo le parole del comandante della spedizione. Stevens comunicò al segretario di Stato: "La pera hawaiana adesso è veramente matura ed è giunto il momento che gli Stati Uniti la colgano". Molto tempo prima, John Quincy Adams aveva usato la stessa metafora in riferimento al secondo paese 'che valeva la pena di conquistare', Cuba, un 'frutto maturo' che sarebbe caduto nelle nostre mani appena si fosse indebolito l'impero britannico che ce lo impediva.

I coloni Usa ed i loro collaborazionisti locali lanciarono un proclama nel quale sostenevano che la "stragrande maggioranza dei membri conservatori e responsabili della comunità" - poche centinaia di uomini - "ritengono che non sia più possibile, con l'attuale sistema, avere alle Hawaii un governo indipendente, costituzionale, rappresentativo e responsabile, capace di difendersi dalle insurrezioni rivoluzionarie e dall'aggressione monarchica". Contro la propria volontà, la Regina si arrese alla "forza superiore degli Stati Uniti d America" e alle loro truppe, abdicando nella speranza di salvare i suoi seguaci dalla pena di morte; lei stessa subì una multa di 5000 dollari e fu condannata a cinque anni di lavori forzati per i suoi crimini contro l'ordine pubblico (poi commutata nel 1896). Venne così instaurata la Repubblica di Hawaii ed il colono americano Sanford Dole si autoproclamò presidente il 4 luglio del 1894. Ogni volta che sorseggiamo un succo di ananas Dole abbiamo così l'occasione di celebrare un ennesimo trionfo della civiltà occidentale.

Nel 1898 il Congresso approvò l'annessione delle Hawaii e gli Usa dichiararono guerra alla Spagna. Quello stesso anno la squadra navale del comandante George Dewey affondò a Manila una decrepita marina militare spagnola, aprendo la strada alla raccolta di un altro 'frutto maturo', le Filippine, ed al massacro di centinaia di migliaia di abitanti di quelle isole. Il presidente McKinley firmò la dichiarazione di annessione delle Hawaii il 7 luglio del 1898, sancendo la creazione del "Primo Avamposto della Grande America", come proclamò trionfalmente un periodico dei 'membri conservatori e dei responsabili della comunità' delle Hawaii. Il pugno di ferro esercitato da questi ultimi eliminò poi qualsiasi interferenza residua negli affari delle isole da parte della 'maggioranza ignorante', come i coloni chiamavano gli indigeni, che costituivano ancora il 90% della popolazione. Così ben presto, privati delle terre e della loro cultura, gli abitanti originari delle Hawaii furono dispersi, ridotti in miseria e sottomessi (13).

In questo modo Pearl Harbor, bersaglio dello scandaloso 'attacco a tradimento' da parte dei mostri giapponesi pronti ad incamminarsi sulla via del crimine, era divenuta cinquant'anni prima la più importante base navale Usa alle Hawaii.

Il 2 gennaio del 1992, l'"Institute for the Advancement of Hawaiian Affairs" pubblicò un documento dal titolo "La Causa della Sovranità Hawaiana", in preparazione per il "100esimo anniversario della conquista delle Hawaii" nel gennaio del 1993 (14). A meno di cambiamenti radicali nella cultura dominante, questo anniversario è destinato a rimanere sepolto nella storia, insieme a tutti gli altri che ricordano il destino delle vittime della Conquista dei 500 anni.


Note:

N. 7. Ibid., per estratti.
N. 8. Vedi Chomsky, "Turning the Tide", 194n. Simpson, "Blowback". Reese, "Gehlen".
N. 9 McClintock, "Instruments", 59n.n., 230n.n. Lewy, "America in Vietnam". Per discussione di questa parodia della storia, vedi la recensione di Chomsky ed Edward Herman, ristampata in Chomsky, "Towards a New Cold War". Per le idee di Lewy sul come eliminare l'autonomia di giudizio all'interno del paese, vedi Chomsky, "Necessary Illusions", 350n.
N. 10. Bernard Fall, "Ramparts", dicembre 1965, ristampato in "Last Reflections". Per una testimonianza oculare del dopoguerra, vedi John Pilger, "New Statesman", 15 settembre 1978. Shenon, "New York Times Magazine", 5 gennaio 1992.
N. 11. Dower, 'Remembering (and Forgetting) War', m.s., MIT.
N. 12. Hietala, "Manifest Design", p. 61. Kent, "Hawaii", 41n. Daws, "Shoal of Time", p. 241. Poka Laenui, 'The Theft of the Hawaiian Nation', "Indigenous Thought", ottobre 1991. Vedi p. 17-18, 38, sopra. Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 12.
N. 13. Kent, Daws, Laenui, op. cit.
N. 14. Institute for the Advancement of Hawaiian Affairs, 86-649 Puuhulu Rd., Wai'anae Hawaii 96792 .


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