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Anno 501 la conquista continua (indice)


PARTE QUARTA.
AMNESIE OCCIDENTALI.


Capitolo 10.
QUANDO SI UCCIDE LA STORIA.

3. ALCUNE LEZIONI DI CORRETTEZZA POLITICA.

Torniamo alle commemorazioni pubbliche per il cinquantesimo anniversario dell'attacco a Pearl Harbor, la 'data dell'infamia', attentamente sterilizzate da ogni impropria considerazione. Gli americani sono irritati per la riluttanza dei giapponesi ad assumersi la colpa del loro delitto a Pearl Harbor, scrisse Urban Lehner in un lungo articolo nel "Wall Street Journal" sul 'revisionismo' giapponese. Il giornalista cita lo storico dell'istituto annesso al memoriale di Pearl Harbor per ricordare la "totale assenza in Giappone di un giudizio sulla propria storia". Per illustrare "l'ambivalenza mostrata da Tokyo nel ricordare quegli eventi", Lehner descrive una sua visita nella casa di un "distinto" storico militare giapponese, il quale "non può capire perché gli Usa non vogliano dimenticarsene: 'Se gli Usa ed il Giappone sono alleati, che senso ha parlare sempre di Pearl Harbor? Questo è ciò che pensano i giapponesi. Perché continuate a rammentarcelo?'" (15).
Così termina l'articolo, non essendo necessario alcun commento sui gravi peccati dei giapponesi illustrati così chiaramente.

Il "New York Times Magazine" ha dedicato a questa particolare sindrome giapponese un servizio speciale del capo redattore a Tokyo, Weisman, dal titolo "Pearl Harbor visto dal Giappone". A Tokyo non c'è "alcun vero rimorso" - continua il sottotitolo - "né alcuna cerimonia commemorativa del bombardamento". Gli Usa vivono quell'evento "da una prospettiva completamente diversa", scrive Weisman, naturalmente quella giusta. Le riflessioni del giornalista del "New York Times Magazine" costituiscono un buon esempio dello stile e delle tecniche usate dai sostenitori della 'correttezza politica' quando hanno a che fare con il Sud del mondo o con le 'moltitudini di canaglie' in patria (16).

Gli americani, scrive Weisman, non sono stati sempre così convinti come oggi sui principi di fondo della loro politica. Negli anni '60, "sentendosi pieni di colpa per il conflitto in Vietnam... gli storici americani erano molto più disposti a contestare le motivazioni delle azioni Usa in Asia. Oggi, invece, non sembrano volersi scusare" - interessante la scelta di quest'ultima parola. Con la guerra del Golfo ed il crollo del comunismo, "i tempi sono cambiati" e "l'atto del presidente Roosevelt di tracciare una linea nella sabbia non sembra più sconveniente".

Le affermazioni di Weisman a proposito degli anni '60 contengono una piccola parte di verità: allora gli storici più giovani vicini al movimento pacifista sollevarono questioni una volta proibite. Per poter discutere ipotesi sovversive sull'esistenza di possibili magagne nei 'moventi americani' dovettero formare una propria associazione professionale ("Committee of Concerned Asian Scholars") alla quale aderirono pochissimi professori più anziani. E anche se all'epoca si trattava degli studiosi migliori, non molti di loro riuscirono a sopravvivere alla struttura autoritaria delle discipline ideologiche; alcuni furono eliminati direttamente dal mondo accademico con licenziamenti chiaramente politici, altri vennero emarginati in vario modo. I giovani studiosi, per la verità, ebbero un certo appoggio nell'establishment accademico ed in particolare da John King Fairbank, decano degli studi asiatici e considerato negli ambienti della cultura ufficiale quasi un estremista, persino accusato alle volte di sfiorare l'apologia del comunismo. John King Fairbank espresse le sue posizioni sulla guerra del Vietnam in occasione di una sua prolusione tenuta nel dicembre 1968 alla "American Historical Association" quando, già da tempo, le grandi imprese Usa avevano chiesto la fine dell'avventura nel Sud-Est asiatico. La guerra era stata un "errore", sostenne convinto Fairbank, frutto di malintesi ed ingenuità, in breve un altro esempio della "nostra eccessiva integrità e benevolenza disinteressata" (17).

All'epoca, negli ambienti rispettabili, come del resto avviene anche oggi, non vi era alcuna seria contestazione delle motivazioni che avevano portato all'intervento Usa in Vietnam.
Le falsità ufficiali di solito mantengono un loro fascino perché sono funzionali, utili agli interessi dell'establishment. Esempio classico le favole di Weisman sulla fine degli anni '60: in esse si sostiene che gli ambienti accademici, i media e la vita intellettuale in genere sarebbero stati conquistati dall'avanzata della sinistra, tranne alcuni capisaldi difesi da pochi coraggiosi sostenitori delle semplici verità e dei valori intellettuali. A costoro, quindi, bisogna dare ogni possibile aiuto nella loro lotta solitaria. Un progetto questo che ben si accorda con quelli autoritari e normalizzatori dell'establishment dottrinario ufficiale.

Come tutti i benpensanti, Weisman dà per scontato che la posizione Usa nella guerra del Golfo (come nella guerra fredda) non possa essere messa in discussione e, ancor meno, che se ne possano contestare le reali motivazioni. Così, seguendo le convenzioni, Weisman evita completamente il problema della corresponsabilità occidentale nella guerra del Pacifico. La questione non stava tanto nel fatto che 'Roosevelt tracciava una linea nella sabbia', ma piuttosto nella decisione delle potenze imperiali tradizionali (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Usa) di chiudere le porte dei loro domini al Giappone dopo che questo aveva applicato con troppo successo le regole del 'libero scambio' e nella posizione di Washington, mantenuta fino alla fine, secondo la quale il conflitto avrebbe potuto risolversi se Tokyo avesse dato agli americani il diritto di partecipare allo sfruttamento di tutta l'Asia, senza alcuna reciprocità nelle regioni sotto il controllo Usa. Weisman, in effetti, riconosce che questi problemi furono sollevati, ma solo per metterli nella 'opportuna' cornice e quindi neutralizzarli: ad esempio egli non fa cenno alle critiche, sia del tempo che successive, mosse negli ambienti accademici occidentali alle politiche delle potenze imperiali, ma cita invece quelle 'sorprendenti' del primo ministro giapponese Hideki Tojo. Questi, impiccato nel 1948 come criminale di guerra, "sfrontatamente difese l'attacco a Pearl Harbor come una risposta necessaria alle 'inumane' sanzioni economiche imposte da Washington" che "avrebbero significato la distruzione del paese". Potrebbero mai queste parole celare una briciola di verità? La domanda non esige risposta, visto che a nessuno viene in mente di porla.

Weisman scrive che "naturalmente, molti storici Usa non avrebbero esitazione a pronunciare una sentenza sulle particolari responsabilità, se non proprio colpe, del Giappone" a proposito della "annessione della Manciuria nel 1931", della "sanguinosa invasione della Cina" nel 1937 e poi ancora di quella dell'Indocina che portò all'estromissione del regime coloniale francese. Nessun cenno all'atteggiamento tenuto a proposito di tali eventi dal governo Usa, ad eccezione di una vaga allusione: "Con la decisione di spostare la flotta nel 1940, gli Usa cominciarono a reagire all'aggressione militare giapponese con avvertimenti e proteste" - nove anni dopo l'invasione della Manciuria, tre anni dopo la sanguinosa invasione della Cina.

Perché tale ritardo?
Weisman evita di rispondere anche ad altre importanti domande: perché mai i diritti dell'Occidente ad avere dei domini nell'area sarebbero stati più forti di quelli del Giappone? E ancora, perché i nazionalisti dei paesi occupati spesso salutarono con favore l'arrivo dei giapponesi, che cacciavano i tradizionali oppressori? Weisman ignora inoltre una semplice considerazione logica: se questi erano i delitti del Giappone, perché mai commemoriamo ancor oggi un avvenimento come l'attacco a Pearl Harbor che ebbe luogo molto tempo dopo? Perché la ricerca di Weisman sulla mentalità giapponese trae spunto solamente dalla "tragedia di 50 anni fa"?

Weisman ammette una certa responsabilità da parte degli Usa ma non per quello che successe, bensì per il rifiuto del Giappone di ammettere i suoi crimini: gli Stati Uniti dopo la guerra avrebbero voluto "creare una vera democrazia" ma, "in seguito alla presa del potere in Cina da parte dei comunisti nel 1949 e allo scoppio, l'anno seguente, della guerra di Corea, Washington cambiò idea e decise, per combattere il comunismo in Asia, di sostenere [a Tokyo] uno stabile governo conservatore", arrivando persino ad accettare il ritorno alla vita pubblica di criminali di guerra.

Questa revisione della storia è anche molto utile: secondo le leggi della 'correttezza politica' possiamo riconoscere un nostro temporaneo allontanarci dalla perfezione se esso è attribuibile ad una reazione, magari esagerata ma del tutto comprensibile, alle gesta malvagie di certi malfattori. In realtà, come Weisman ben sa, 'l'inversione di rotta' di Washington ebbe luogo nel 1947, due anni prima della 'caduta della Cina' (ossia del rovesciamento da parte di un movimento nazionale di una tirannia corrotta, appoggiata dagli Usa) e ben tre anni prima dello scoppio ufficiale della guerra di Corea, quando l'intervento clandestino americano era già in corso ed il regime imposto dagli Usa, con l'aiuto di collaborazionisti fascisti reintegrati dall'esercito di occupazione statunitense, massacrava 100 mila aderenti ai movimenti popolari della cui sconfitta, a livello politico, i nostri protetti non erano affatto sicuri.

L''inversione di rotta' di Washington mise così fine agli esperimenti democratici che avrebbero potuto minacciare il potere costituito. Gli Stati Uniti si mossero con decisione per distruggere i sindacati giapponesi, ricostruire i tradizionali gruppi di potere industriali e finanziari, sostenere i collaborazionisti fascisti, emarginare i democratici e ripristinare il dominio conservatore della comunità degli affari. Come spiega in un documento del 1947 George Kennan, protagonista principale dell''inversione di rotta', gli Usa avevano "il diritto morale di intervenire" per preservare la 'stabilità' contro i 'gruppi' fiancheggiatori dei comunisti: "Considerando che gli ex dirigenti industriali e commerciali del Giappone sono anche i più abili leader del paese, di cui costituiscono l'elemento di maggiore stabilità, naturalmente più vicino agli Usa, la politica americana dovrà rimuovere gli ostacoli che si frappongono al loro ritorno alla guida del Giappone". Così venne posta fine all'epurazione dei criminali di guerra e fu restaurata la struttura del regime fascista. L''inversione di rotta' in Giappone fu parte di un analogo processo portato avanti dagli Usa in tutto il mondo, prima del 1949 (18).

In realtà la ricostruzione di quello che gli esperti americani, furiosi, condannarono come 'capitalismo totalitario di stato', caratterizzato dalla repressione delle forze popolari e democratiche, era stata avviata ben prima dell''inversione di rotta' del 1947. Le autorità di occupazione decisero inoltre improvvisamente che l'importante questione dei crimini di guerra doveva essere accantonata. Il generale MacArthur, scrive Herbert Bix, "non avrebbe permesso l'incriminazione dell'Imperatore, né una sua citazione in tribunale come testimone e neppure che fosse interrogato dagli investigatori della Procura Internazionale" per i processi ai criminali di guerra, malgrado le dettagliate prove sulle sue dirette responsabilità - che MacArthur aveva a disposizione, ma che furono tenute segrete. Questa riabilitazione dell'Impero, conclude Bix, ebbe conseguenze 'importanti' nella restaurazione dell'ordine conservatore tradizionale e nella sconfitta di un'alternativa molto più democratica (19).

Weisman osserva giustamente che alla vigilia della Seconda guerra mondiale "l'obiettivo di fondo [del Giappone] era quello di assicurarsi l'accesso alle risorse naturali, ai mercati e alla libertà dei mari". Questi obiettivi sono stati ora raggiunti, continua Weisman, tramite "il proprio duro lavoro" e "la generosità (e l'interesse) degli Stati Uniti". In altri termini, secondo questa tesi, il Giappone, se non fosse stato prigioniero di un'ideologia fascista e di arcaiche illusioni, avrebbe potuto raggiungere gli stessi risultati 50 anni fa. Un'ipotesi che lascia senza risposta alcune importanti questioni. Innanzi tutto, è proprio vero che il Giappone poteva raggiungere quegli obiettivi accettando le regole occidentali? E ancora: perché la Gran Bretagna, gli Usa e gli altri stati imperialisti non rinunciarono allora a quei muri di alte tariffe eretti intorno alle loro colonie per escludere il Giappone? Oppure, ammettendo che un tale idealismo sarebbe stato eccessivo, perché Hull non accettò almeno l'offerta giapponese di uno sfruttamento in condominio? Queste domande però vanno oltre i limiti consentiti al dissenso, sconfinando nel proibito ambito delle 'motivazioni americane'.

Nella realtà, l'aggressione giapponese dette un forte impulso ai movimenti nazionalisti dell'Asia che spazzarono via il dominio coloniale, sostituito nell'era postbellica da un meccanismo di dominazione più sofisticato. Inoltre, dopo la guerra, gli Usa si trovarono in una posizione tale da poter decidere del Nuovo Ordine Mondiale. In questa nuova situazione, secondo Kennan, al Giappone si poteva offrire un suo "Impero verso il Sud" sotto il controllo Usa ed entro certi limiti: gli Usa intendevano mantenere il loro "controllo su quel che il Giappone importava nel settore petrolifero ed in quello dei materiali strategici in genere" in modo da "mantenere un diritto di veto sulle iniziative di Tokyo nel campo militare ed industriale", come consigliava Kennan nel 1949 (20). Questo atteggiamento fu mantenuto fino al verificarsi di eventi imprevisti, come la guerra del Vietnam che comportò alti costi per gli Usa e notevoli benefici per il Giappone e gli altri paesi industriali rivali degli Stati Uniti.

Un altro grave difetto dei giapponesi, osserva Weisman, sono i "termini bellicosi" da loro usati quando parlano dei rapporti con gli Stati Uniti, rivelando quindi una certa tendenza al militarismo. I giapponesi parlano spesso di "'rappresaglie': nel caso Washington tagliasse le importazioni giapponesi, Tokyo potrebbe soffocare l'economia americana bloccando gli investimenti o gli acquisti di buoni del Tesoro". Anche se considerassimo valido il giudizio di Weisman sull'arbitrarietà di una tale rappresaglia, questa non sarebbe che un pallido riflesso a paragone di quanto fanno normalmente gli Usa: per esempio, la devastante ed illegale guerra economica regolarmente mossa a paesi come Cuba, il Cile di Allende, il Nicaragua ed il Vietnam; o i propositi dei democratici jacksoniani di "mettere tutte le nazioni ai nostri piedi", a cominciare dal nemico inglese, conquistando il monopolio di quella che allora era la più importante materia prima del commercio mondiale.

Le vere colpe del Giappone, però, sarebbero la tendenza alla "autocommiserazione", il rifiuto di offrire riparazioni alle vittime, i "goffi tentativi di riabilitare il passato" e, in generale, il suo rifiuto di "ammettere chiaramente con una dichiarazione pubblica le proprie responsabilità per la guerra". Qui Weisman va sul sicuro - o, per meglio dire, sarebbe così se lui, i suoi direttori ed i loro colleghi del sistema dottrinario ufficiale rispettassero loro stessi quei principi che predicano agli altri. Ma ciò non è mai avvenuto, neanche per un momento, come la storia dimostra con assoluta chiarezza.


Note:

N. 15. Lehner, "The Wall Street Journal", 6 dicembre 1991
N. 16. Weisman, "New York Times Magazine", 3 novembre 1991.
N. 17. Sul pensiero di Fairbank, vedi "Towards a New Cold War", p. 400-1.
N. 18. Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 11, e fonti citate. Kennan, citato in Cumings, "Origins", 2ø, p. 57; vedi vol. 1, 2 sulle stragi in Corea sotto l'occupazione Usa prima di quella che si definisce la 'guerra coreana'.
N. 19. "Sherwood Fine", citato in Moore, "Japanese Workers", p. 18. Moore, sull'argomento in generale. Bix, "The Showa Emperor's 'Monologue' and the Problem of War Responsibility", "J. of Japanese Studies", 18.2, 1992 (citando John Dower, "Japan Times", 9 gennaio 1989).
N. 20. Cumings, "Origins", 2ø, p. 57.


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