PARTE QUARTA.
AMNESIE OCCIDENTALI.
Capitolo 10.
QUANDO SI UCCIDE LA STORIA.
Nell'ottobre del 1991, 500esimo anno dalla Conquista, i media e l'opinione pubblica americana concentrarono la loro attenzione su un altro più recente evento storico: il 7 dicembre di quell'anno cadeva il 50esimo anniversario dell'attacco giapponese a Pearl Harbor, la 'data che sarà sempre sinonimo d'infamia'. In quel giorno la stampa Usa osservò con attenzione sia le dichiarazioni che gli atteggiamenti assunti dai giapponesi per l'occasione e li trovò molto deludenti. Qualcosa di profondo e di negativo aveva impedito agli aberranti giapponesi di rammaricarsi pubblicamente per il loro nefando gesto.
In un'intervista al "Washington Post", il ministro degli Esteri Michio Watanabe espresse sì "un profondo rimorso per l'insopportabile sofferenza e tristezza inflitte dal Giappone al popolo americano ed ai popoli dell'Asia durante la guerra del Pacifico, una guerra che il Giappone iniziò con l'attacco a sorpresa su Pearl Harbor". L'esponente di Tokyo annunciò poi che, nel cinquantesimo anniversario del delitto, il Parlamento Nazionale avrebbe approvato una risoluzione, per esprimere il rimorso del Giappone. Ma tutto ciò presto si sarebbe rivelato un altro trucco giapponese. Scoprendo il complotto, il capo dell'ufficio di Tokyo del "New York Times", Steve Weisman, rivelò che Watanabe aveva impiegato la parola "hansei", "che normalmente si traduce 'autocritica' piuttosto che 'rimorso'". Quindi la dichiarazione del ministro degli Esteri non poteva essere considerata come una sincera presentazione di scuse. Inoltre, aggiunse Weisman, è probabile che il Parlamento giapponese non approverà mai alcuna risoluzione in merito, visto il deciso rifiuto del presidente Bush di scusarsi per i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki.
Nessuno ha preso neppure in considerazione l'ipotesi di presentare delle scuse per l'attacco condotto, cinque giorni dopo il bombardamento di Nagasaki, da oltre 1000 aerei Usa su quel che rimaneva delle principali città giapponesi, un trionfo logistico e militare che doveva costituire, secondo la storia ufficiale dell'aeronautica, "un finale il più grandioso possibile" della guerra; persino Stormin' Norman (Norman Schwarzkopf) ne sarebbe rimasto colpito. In quegli attacchi furono uccisi migliaia di civili, mentre nel cielo tra le bombe svolazzavano dei manifestini sui quali c'era scritto: "Il vostro governo si è arreso. La guerra è finita". In verità il generale Spaatz, come gran finale, avrebbe voluto lanciare la terza bomba atomica su Tokyo ma rinunciò al progetto perché un'ulteriore distruzione della 'città devastata' non avrebbe ottenuto l'effetto desiderato. Tokyo era già stata eliminata dall'elenco degli obiettivi prioritari per il medesimo motivo: era "praticamente un cumulo di macerie", decisero gli esperti e quindi la potenza della bomba non sarebbe stata messa adeguatamente in risalto. L'attacco finale con oltre 1000 aerei, secondo la storia dell'aeronautica, fu quindi diretto su altri sette obiettivi (2).
Alcuni si spinsero oltre il rifiuto di George Bush a prendere in considerazione l'ipotesi di scusarsi per l'uso di armi nucleari che uccisero 200 mila civili. Il senatore democratico Ernest Hollings, suscitando l'entusiasmo popolare, dichiarò ad un gruppo di lavoratori della Carolina del Sud che "avrebbero dovuto disegnare una nuvola a forma di fungo e scriverci sotto: 'Fatta in America da americani pigri ed analfabeti e collaudata in Giappone'". Hollings giustificò poi la sua dichiarazione definendola uno "scherzo", una reazione "agli insulti contro l'America" da parte del Giappone. Ma i giapponesi, poco di spirito, non lo trovarono divertente. La loro stampa riportò una breve notizia, senza porsi troppe domande sulla 'mentalità americana' (3).
Le ossessioni giapponesi riguardo alla bomba, che tanto sdegno provocano qui da noi, si manifestarono di nuovo all'indomani del Salone dell'aeronautica del Texas, nel corso del quale, per molti anni, è stato messo in scena il bombardamento atomico (forse lo è ancora). Nel corso della manifestazione decine di migliaia di persone potevano ammirare, tra l'altro, un aereo B-29 pilotato dal generale dell'aeronautica in pensione Paul Tibbets, colui che ad Hiroshima aveva alzato il sipario sull'era atomica. Il Giappone condannò lo spettacolo in quanto "di cattivo gusto ed offensivo per il popolo giapponese", ma senza risultato. Forse i giapponesi, così ipersensibili, avrebbero fatto le stesse obiezioni su un film dei primi anni '50 dal titolo 'Hiroshima', in visione nei cinema 'della zona di guerra' di Boston, un quartiere a luci rosse dove venivano proiettati film pornografici: si trattava di un documentario giapponese con filmati dal vivo di scene indescrivibilmente orribili, che suscitavano tra il pubblico grandi risate ed applausi entusiastici.
Negli ambienti intellettuali più seri, pochi presero in considerazione le osservazioni fatte dal giudice olandese Roling a proposito del processo di Tokyo ai criminali di guerra giapponesi e della loro condanna: "Della Seconda guerra mondiale si ricordano soprattutto due cose: le camere a gas tedesche ed i bombardamenti atomici americani". Oppure lo sconcertante dissenso dell'unico giudice asiatico indipendente, Radhabinod Pal dell'India, che scrisse: "Quando si esaminerà la condotta delle nazioni forse si scoprirà che l'unica legge è quella secondo la quale "solo la sconfitta è considerata un crimine"... Se qualsiasi distruzione indiscriminata di vite e di proprietà civili è considerata ancora illegittima, durante la guerra del Pacifico, la decisione di usare la bomba atomica è l'unica che si avvicina alla linea di condotta... dei capi nazisti... Niente di simile può invece essere attribuito agli imputati qui presenti" a Tokyo. Di questi, sette furono impiccati insieme a 900 altri giapponesi giustiziati per crimini di guerra; tra di loro vi era anche il generale Yamashita, giustiziato per le atrocità commesse da truppe che alla fine della guerra non erano più sotto il suo controllo. In questa vicenda sono state sempre ignorate anche le prese di posizione di alti ufficiali Usa, come quella dell'ammiraglio William Leahy, capo di Stato Maggiore durante le amministrazioni Roosevelt e Truman, secondo il quale le armi nucleari erano "nuovi e terribili strumenti di una guerra incivile", "una barbarie moderna indegna dell'uomo cristiano", un ritorno alle "norme etiche diffuse tra i barbari del Primo Medio Evo"; il loro uso "ci riporterebbe, in termini di crudeltà contro le popolazioni civili, ai tempi di Genghis Khan" (4).
Il primo ministro Watanabe, sapendo bene chi detiene il potere, espresse il rammarico del Giappone, seguendo le consuetudini Usa: fece così risalire i delitti del Giappone al 7 dicembre del 1941, tralasciando le orrende atrocità perpetrate in Cina tra il 1937 ed il 1945 con circa 10-13 milioni di vittime (forse anche di più), per non parlare di quelle precedenti (5).
E infatti, sorvolando sulla datazione fatta da Watanabe, Weisman mette in discussione solamente l'evasività del gesto giapponese. La commemorazione di Pearl Harbor si basava sullo stesso principio di sempre: l'uccisione, la tortura e l'oppressione di decine di milioni di persone non è certo meritoria, ma un "attacco a tradimento" ad una base militare coloniale Usa è un crimine assai più grave. E' vero che, per sottolineare la malvagità del Giappone, vengono regolarmente aggiunte ai capi d'imputazione le atrocità e le aggressioni in Asia, ma solo come fatti secondari: il vero delitto, l'inizio dell'aggressione, è l'attacco a Pearl Harbor.
Una scelta che presenta molti vantaggi. Innanzi tutto ci consente di riflettere sugli strani difetti della mentalità giapponese senza porci troppe domande su vicende che è meglio cancellare dalla storia. Per esempio, il fatto che prima di Pearl Harbor gran parte degli ambienti finanziari e politici americani rifiutavano "la diffusa teoria che il Giappone sia stato l'aggressore e la Cina una vittima tiranneggiata" (nelle parole dell'ambasciatore Joseph Grew, una figura importante nella politica dell'Estremo Oriente). L'opposizione americana al 'nuovo ordine' del Giappone in Asia, spiegò Grew in un discorso a Tokyo nel 1939, derivava dal fatto che così veniva imposto "un sistema economico chiuso... privando gli americani dei loro diritti di lunga data in Cina". Grew non aveva allora niente da dire sul diritto all'indipendenza nazionale della Cina, né sullo scempio di Nanking, l'invasione della Manciuria, ed altri problemi altrettanto marginali. Il segretario di Stato Cordell Hull nel corso dei negoziati con l'ammiraglio giapponese Nomura (prima dell'attacco a Pearl Harbor), muovendosi sulla stessa linea, sostenne i diritti americani di accesso ai territori conquistati dal Giappone in Cina. Il 7 novembre, il Giappone finalmente acconsentì alle richieste Usa, accettando "il principio di parità nei rapporti commerciali" nel Pacifico, inclusa la Cina. Ma gli astuti giapponesi aggiunsero come condizione che esso "venisse adottato in tutto il mondo".
Hull rimase profondamente scandalizzato da tanta insolenza ed avvertì quegli sfacciati arrivisti di Tokyo che la parità nelle relazioni commerciali doveva essere applicata solo nella sfera giapponese. Naturalmente era fuori discussione che gli Usa e le altre potenze occidentali facessero lo stesso nei loro domini, inclusi l'India, l'Indonesia, le Filippine, Cuba e le altre vaste regioni dalle quali i giapponesi erano stati esclusi, con l'imposizione di tariffe estremamente alte, quando avevano cominciato 'disonestamente' a vincere la gara con l'Occidente iniziata negli anni '20.
Respingendo lo sciocco richiamo giapponese ai precedenti inglesi ed americani, Hull lamentò "la rigidezza mentale che impediva ai... [generali giapponesi]... di capire perché gli Stati Uniti volessero, da una parte, imporre la loro autorità nell'emisfero occidentale con la Dottrina Monroe e, dall'altra, ostacolare l'assunzione di una posizione di comando in Asia da parte del Giappone". Hull consigliò vivamente al governo giapponese di "istruire i generali" su questa distinzione di fondo, ricordando ai suoi pupilli retrogradi che la Dottrina Monroe, "come noi la interpretiamo e la applichiamo dal 1823 contempla solo misure per la nostra sicurezza fisica". Rispettabili studiosi fecero eco annuendo, offesi dall'incapacità dei 'piccoli gialli' di capire la differenza tra una grande potenza come gli Usa ed un semplice esecutore come il Giappone, e di riconoscere che "gli Stati Uniti non hanno bisogno di usare la forza militare per indurre le repubbliche dei Caraibi a consentire redditizi investimenti del capitale americano. Le porte si aprono spontaneamente" - basta dare un'occhiata alla storia (6).
Note:
N. 2. "Washington Post-Boston Globe", 4 dicembre. Weisman, "New
York Times", 6 dicembre 1991. Sui bombardamenti del 14 agosto vedi Chomsky,
"American Power and the New Mandarins", cap. 2, inclusi i brani tratti
dalla storia dell'aeronautica e dalla testimonianza dello scrittore giapponese
Makoto Oda da Osaka. Su Tokyo come bersaglio, vedi Barton Bernstein, "International
Security", primavera 1991.
N. 3. "Associated Press", "New York Times", 4, 5 marzo 1992.
Articoli più lunghi nel "Boston Globe", medesime date.
N. 4 Vedi Chomsky, "Political Economy and Human Rights", 2ø
32n., 39. Sui principi giudiziari impiegati, vedi anche "For Reasons of
State", cap. 3, ristampati da un simposio della "Yale Law Review"
su Norimberga e il Vietnam. Per brani dal dissenso di Pal, vedi "American
Power and the New Mandarins". Vedi Minnear, "Victor's Justice".
Leahy, citato in Braw, "Atomic Bomb", dalla sua autobiografia del
1950, "I Was There".
N. 5 Storico del Giappone Herbert Bix, "Boston Globe", 19 aprile 1992.
N. 6. Per un maggiore approfondimento, vedi Chomsky, "American Power and
the New Mandarins", cap. 2.