stop elettroshock


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Elettroshock: se lo conosci lo eviti

Roberto Fornara
Neuropsichiatra infantile
Docente presso la Scuola di Formazione per Educatori di Comunita',
Universita' degli Studi Roma 3

Non vorrei dilungarmi sulle origini e sulle caratteristiche dell'elettroshock: basti sapere che il suo inventore si chiama Cerletti e che la sua prima applicazione sull'uomo risale al 1938.

Cio' che ritengo di fondamentale importanza e' che da allora sono state elaborate una cinquantina di teorie per spiegare il meccanismo d'azione di questa tecnica, ma nessuna di esse si e' rivelata esatta.

Come medico e psichiatra, mi chiedo se questo "particolare" possa essere trascurato, e onestamente me lo chiederei anche se fossi un malato mentale o un suo congiunto.

Purtroppo sembra trattarsi solo di "scrupoli" eccessivi, dal momento che oggi, come e forse piu' di ieri, al riparo delle strutture private e pubbliche l'elettroshock continua ad avere un ruolo terapeutico.

Sembra piuttosto singolare la forsennata puntualizzazione con la quale molti colleghi precisano la ristrettezza degli ambiti in cui utilizzare queta tecnica (refrattarieta' agli psicofarmaci, depressione in gravidanza, stati catatonici, atteggiamenti autolesivi, insonnie intrattabili). Singolare perche' in realta', al di fuori di queste categorie diagnostiche, il ricorso all'elettroshock appare piuttosto diffuso, molto piu' diffuso di quanto farebbe immaginare la frequenza statistica delle suddette categorie diagnostiche.

Non sempre, poi, il paziente e' in grado di scegliere serenamente il da farsi. In tal caso e' il parere dei congiunti (o quello dei medici che informano?) a determinare se e quante volte il malato sara' sottoposto al trattamento. Gia', perche' una volta sola difficilmente puo' bastare e occorre una serie di sedute per arrivare ad un'apparente e troppo spesso fugace remissione dei sintomi.

Strano fenomeno: se una persona malata prende per anni psicofarmaci, di cui si conosce il meccanismo d'azione, senza risultati apprezzabili, entra "di diritto" nell'orbita della terapia elettroconvulsivante; se lo stesso paziente si sottopone (o viene sottoposto) a una decina di sedute di elettroshock (di cui non e' noto il meccanismo d'azione), viene quasi sempre invitato a continuare l'esperimento...

Credo che in realta' l'elettroshock non meriti sempre e comunque una difesa "scientifica" senza una reale base scientificamente provata.

Semmai andrebbe orientata la maggior parte dei nostri sforzi per comprendere le ragioni profonde del disagio psichico di una persona che troppo frettolosamente definiamo paziente.

Spesso la depressione rappresenta una tappa necessaria nel processo di crescita di una persona; l'elettroshock dovrebbe risvegliarla, riportarla al mondo, ma al mondo spesso vengono restituiti soltanto dei relitti umani, dei frammenti di anima piu' smarriti e piu' disperati di prima.

Talvolta l'elettroshock potra' anche rappresentare un'ultima spiaggia, ma in realta' e' il segno della nostra impotenza terapeutica, che si trasforma in cieco accanimento verso la malattia mentale, passando obbligatoriamente attraverso la testa del paziente senza considerare la sua anima.

Non possiamo essere complici di questa miopia psicologica: guardiamo oltre, guardiamo dentro, guardiamoci dentro!


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