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Perché la proposta di una tregua è una sciocchezza intellettuale prima ancora che politica
Non occorre certo avere padronanza della storia militare, della scienza e della sociologia della guerra, né essere stati educati in una caserma prussiana o tra i cadetti di West Point per capire che esiste una differenza cruciale e fondamentale tra "guerra assoluta" e "guerra reale", tra "guerra immaginata" e "guerra concreta". Insomma, tra "decisione della guerra" e "guerra sul campo".
Tutte le guerre sono condotte da chi le dichiara, da chi vi è preposto, come guerre assolute, cioè con un dispiegamento totale della forza o una disponibilità all'uso totale della forza, il cui impiego relativo, proporzionato e temporale è deciso dalla tattica della guerra, dall'andamento della guerra reale. Altrimenti, sono "mezze guerre", guerre in cui la logica è nascosta o confusa causando contraccolpi sull'efficacia della guerra stessa. Altrimenti, si consegna al nemico (verso il quale l'obiettivo evidente è l'abbattimento o la sua resa) un fattore psicologico e materiale determinante: il convincimento che l'avversario non si stia battendo fino in fondo, che sia disposto a pagare solo un prezzo relativo che non superi una certa soglia, e quindi che resistergli a oltranza è già un mezzo potente per aumentarne le contraddizioni, fiaccarne ulteriormente la determinazione e mettere così un'opzione decisiva per la vittoria.
Questo non significa che ogni momento della guerra è vissuto e determinato come guerra assoluta, ma ogni momento (i vantaggi temporanei, la supremazia in un campo o in un territorio, la concentrazione su un punto particolarmente vulnerabile) può e deve essere vissuto e determinato come guerra fino alla vittoria totale sull'avversario.
Non è certo un segreto militare che gli strateghi americani imputino la sconfitta patita dal loro esercito nel Vietnam (come d'altronde per l'impegno in Corea, che fu una mezza sconfitta e una mezza vittoria politica e militare) proprio alla mancanza di determinazione del governo. Così come le recenti sconfitte subite dall'esercito sovietico in Afghanistan e da quello russo in Cecenia vengono inquadrate nella crisi politica, nel caos, nelle incertezze e nelle indeterminatezze del potere politico centrale che marciava a tappe forzate verso la sua disintegrazione.
La determinazione assoluta alla guerra da parte del potere politico è ovviamente fondamentale per i militari, quelli che "fanno" la guerra. Quelli che fanno la guerra non possono procedere nella loro strategia, nei loro obiettivi, nei loro piani, se devono continuamente temperare la dinamica della guerra, che è assoluta, con la disponibilità relativa del potere politico. I militari non chiedono "carta bianca" (benché ci sia sempre da mettere in conto la propensione alla follia distruttiva che è insita nel meccanismo della guerra e in chi "vive" di guerra) ma esigono, perché la logica della guerra lo esige, la disponibilità all'uso totale della forza e al suo dispiegamento. Per vincere.
L'uso della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, sebbene comunemente inspiegabile secondo i criteri degli obiettivi militari prioritari e significativi, aveva proprio il senso del mostrare la determinazione americana alla distruzione totale del Giappone senza alcuna remora. Alla sua cancellazione definitiva dalla faccia della terra. Fu una decisione politica assunta dal presidente Truman. I giapponesi capirono.
Ovvero, proprio la forma più estrema della guerra assoluta ci riporta alla natura subordinata della guerra come strumento politico. Dietro ogni guerra, qualunque sia il suo grado di intensità e di distruzione, si trovano decisioni politiche.
Nessuno ha, almeno finora, motivi validi per non prendere sul serio l'assolutezza con cui gli Stati uniti, l'Inghilterra, e con essi la Nato, hanno affrontato questa guerra. E questa guerra (come già quella del Golfo, ma non andrebbe dimenticata quella delle Falklands, anche per gli elementi di spietatezza e per la logistica) ha caratteri affatto differenti e straordinari. Mi pare sia stato Bobbio a insistere sugli aspetti di "strappo" di questa guerra, sulla sua eticità fattuale, il carattere di crociata, di guerra santa. Senza remore. La motivazione invocata, il criterio di "umanità", è assoluta. Nessuno si sarebbe sognato di proporre ad Hitler una tregua. E nella motivazione degli Alleati e dei sostenitori dell'intervento militare, con le differenti accentuazioni dal richiamo a Monaco al "mai più Auschwitz" - ovvero all'inizio della parabola nazista o al suo epilogo mostruoso - la concentricità della logica non lascia spazio alla tregua, a una linea pure momentanea di fuga, di sospensione.
Il carattere "politico" di conquista, di espansione, di difesa della guerra tra Stati, quella del Seicento, del Settecento, poteva prevedere una tregua, perché proprio la guerra era considerata parte della naturalità dei rapporti internazionali. Il carattere "etico" di questa guerra impronta la sua azione sul campo. Una volta accettate le premesse il percorso è obbligato.
Vero è che, probabilmente, gli Americani si aspettavano (stando almeno ad alcune dichiarazioni di importanti responsabili) da questa ondata di bombardamenti senza freni risultati migliori, non tanto sulla questione dei profughi il cui problema è specificamente demandato agli Alleati, ma proprio in termini militari.
La questione è che, ovviamente, quanto siamo andati dicendo a proposito della determinazione di un belligerante alla guerra assoluta come unica determinazione logica e criterio politico vale anche per l'altro. Ed è la relazione tra i belligeranti che modifica, modula l'andamento della guerra e ne determina in ultima istanza l'esito.
L'elemento determinante nello scenario di guerra assoluta fin qui configuratosi in Yugoslavia in realtà non sono gli effetti collaterali (che essa prevede, quando non persegue, proprio per la sua dinamica senza "riguardi"): il portavoce Shea non porge le sue scuse ai serbi quando vengono colpiti gli ospedali o ai kosovari quando vengono falcidiati mentre sono in fuga, come si è fatto con i cinesi, ma snocciola statistiche. L'elemento determinante è invece la resistenza dei serbi. E una presumibile integrità dell'esercito o comunque una registrazione di danni non certo catastrofica. Sul piano militare al momento i serbi hanno vinto praticamente senza mai combattere, se si escludono le operazioni contro l'Uck.
Questa è la relazione tra belligeranti allo stato attuale della guerra che modifica il suo andamento. Il che comporta da parte degli Americani e degli Alleati il ricorso alla disponibilità alla guerra totale, al dispiegamento di tutta la forza possibile per vincere. Le forme che può avere questa disponibilità non sono ancora prevedibili, né i suoi tempi. Viene istintivo pensare che l'intervento delle truppe di terra - peraltro fin dall'inizio preparato e ventilato, come è militarmente nelle cose - possa accelerarsi ma è difficile ipotizzarne i tempi. Quello che sembra certo è che ci troviamo soltanto nella prima fase della guerra, una fase che sarebbe potuta essere definitiva nel caso fosse riuscita a piegare i serbi, ma che proprio perché non c'è riuscita ne prevede ora una seconda e altre. Può persino darsi che questa seconda sia già iniziata - con l'intensificazione dei bombardamenti o la scelta di obiettivi a più largo raggio e quindi l'aumento degli "effetti collaterali" -, cioè che essa preveda contemporaneamente la continuazione degli attacchi aerei e la preparazione dell'intervento di terra. Nessuno ha, almeno finora, motivi validi per non prendere sul serio l'assolutezza con cui gli Stati uniti, l'Inghilterra e con essi la Nato, hanno affrontato questa guerra. Le resistenze del Congresso americano e le difficoltà di Clinton, come le critiche che si rivolgono a Blair, peraltro potrebbero portarci a una paradossale situazione di stallo: bombardamenti senza fine, blocco navale intensificato, accumulazione delle truppe di terra pronte all'uso. Mentre aumenterebbe fino all'annichilimento la distruzione della Serbia scemerebbe progressivamente il "valore morale" invocato dagli Americani: chi non è disposto a sacrificare i propri uomini non ha alcun diritto di supremazia morale. Lo sanno i militari, lo sa anche il Congresso, in seno al quale aumentano i dubbi e i timori sulle opportunità dell'intervento di terra, ma non certo sulla guerra. Condizionare Clinton è un conto, sputtanare l'America un altro.
Da quanto detto finora, è difficile sostenere che esistano le condizioni per una tregua differenti da quelle già sottoposte a Milosevic e da costui respinte perché considerate equivalenti a una resa. Non sta nella logica assoluta di questa guerra, non sta nelle sue determinazioni politiche né nelle contingenze concrete.
Si obietterà: proprio per questo, è la politica che cerca di fermare la guerra. La proposta di una tregua si presenta come "ripresa della politica", come "spazio proprio della politica" ma in realtà in uno scenario in cui la politica è saldamente alla guida dell'azione militare fin dall'inizio. La proposta di una tregua si presenta come azione sulla "guerra reale", sulla concretezza degli scenari, degli effetti, degli uomini in carne e ossa, rispetto alla "guerra assoluta". Accetta come suo criterio la relazione tra azione ed efficacia. Non mette in discussione la guerra ma cerca di temperarne gli effetti (è sostanzialmente la posizione assunta da Fischer al convegno dei Verdi tedeschi, in cui ha ancora rivendicato l'azione contro Milosevic e quindi la giustezza e l'eticità della guerra; la legalità è stata già stracciata dal criterio di legittimità). La politica si muove verso la tecnica della guerra che per principio dovrebbe essere competenza dei militari. La guerra rischia di diventare confusa. Ma non è un bene.
Che tipo di tregua viene richiesta? Unilaterale, illimitata, temporanea? Subordinata al verificarsi di certe condizioni (una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, una mozione russa o cinese)? Una sospensione dei bombardamenti senza contropartita? Non è indifferente: la parola "tregua" sembra un elastico tirato di qua e di là, come già accade alla parola "pace".
A cosa può servire una tregua? A una ripresa dell'iniziativa diplomatica? Non pare che essa si sia mai fermata. Chernomyrdin continua a trotterellare di qua e di là da un pezzo ma non sembra con grandi risultati. Questo non significa che si giusto abbandonare gli sforzi diplomatici o non credervi, soprattutto ora che anche la Cina chiede con diritto di rientrare nel gioco. Ma la questione non sta nella tregua bensì nelle condizioni per la fine della guerra, perché è questa la materia del lavoro diplomatico. Le condizioni poste finora a Milosevic sono peggiorative rispetto allo stesso accordo di Rambouillet. Per accettarle dovrebbe partire dalla considerazione che sta perdendo la guerra (e non è vero) oppure che la prosecuzione della guerra lo travolgerebbe. Ovvero che gli Alleati sono disposti a utilizzare fino in fondo la forza di cui dispongono. Una tregua non comporta questo segnale. Gli Alleati hanno dunque cambiato parere? La "decisione politica" di questa guerra sta considerando di mutarne il carattere, costretta dall'evidenza e dall'andamento della guerra reale? Qualcuno ha segnali in questo senso? Le difficoltà di coesione politica all'interno dei singoli Stati e all'interno dell'Alleanza sono tali da temperare l'assolutezza di questa guerra?
A cosa può servire una tregua? A permettere agli osservatori dell'Osce di verificare la brutalità dei serbi, le piaghe e i dolori dei kosovari, la gravità dei danni inferti all'apparato produttivo, alle infrastrutture civili della Serbia? E tutto ciò non è già sotto gli occhi di tutti? E chi sarebbero i verificatori? Basta dare un'occhiata all'ultimo numero di "Limes" o ad articoli del "manifesto" o al sito della Fondazione Pasti e alle mailing-list di Peacelink o del Coordinamento romano contro la Jugoslavia e sicuramente ad altro che non cito o non conosco per leggere le storie di verificatori svizzeri, olandesi, italiani, svedesi, francesi e del loro improbabile lavoro e di come quel lavoro fosse manipolato, deformato, nascosto verso aprioristiche intenzioni guerrafondaie. Qualcuno ha motivo di ritenere che ciò non accadrà più? Qualcuno ha motivo di ritenere che il peso dell'Onu sia già aumentato a tal punto da assumere in proprio quest'iniziativa, escludendone i paesi già belligeranti? E Milosevic, porterà in giro i verificatori per mostrare loro l'effettivo ritiro delle truppe e della polizia, quanto davvero è a pezzi, quanto il suo esercito è in crisi, quanto poco possa bastare per abbatterlo, quante fosse comuni abbia riempito con le sue bande senza controllo? E dell'Uck, scopriremo la provenienza delle armi e delle divise, sapremo davvero la sua consistenza e la sua dirigenza, ci racconteranno i loro orrori, verranno disarmati?
A cosa può servire una tregua? A contattare e dare forza alle opposizioni a Milosevic? E in che modo? Consentire una tregua significa assumere Milosevic come interlocutore credibile perché necessario, non chi gli è stato e gli è contrario. Quali? Chi? Vuk Draskovic che aveva già attenuato il suo rapporto con il movimento del '96-97 entrando come vicepremier nel governo e che adesso sta quieto e buono? Chi, Diindjic che se ne è andato in Montenegro? Vesna Pesic che fa l'opposizione dalla Francia? Il movimento del '96-97 è già morto da un pezzo, almeno come riferimento organizzato. Restano un'opposizione e un'insofferenza diffuse che la guerra assoluta certo non ha aiutato: associazioni umanitarie, organismi professionali e territoriali o lavorativi. Nella contingenza degli schieramenti e del dispiegamento della violenza pagano il prezzo più alto, il loro peso è nullo e il loro lavoro improbo, proiettato sul futuro e sulla salvezza di fili tenui di una trama differente. Quanto alla società civile la tregua la troverebbe oggi già schierata con il nazionalismo. Tutta questa opposizione "politica", non quella "sociale", è carta velina, in una posizione sempre più difficile in un Paese che vive la guerra come un'aggressione esterna e che non può che tacciare di "tradimento" chi non la pensa così. Forse, servirà solo per il "dopoguerra", a seconda della forma che essa assumerà. E se ci sarà un "dopoguerra" per la Serbia.
L'unico effetto concreto che potrebbe avere la richiesta di una tregua è quello di rinviare, rallentare un possibile intervento di terra, ripristinare il carattere paritario dei membri dell'Alleanza e la necessità di una decisione comune. Ridare insomma "dignità politica" ai governi, senza che questo comporti effettivamente l'attuazione di una tregua. Rinviare un possibile intervento di terra significa concretamente continuare i bombardamenti, sulla cui intensità ed efficacia di devastazione nessun governo ha alcun potere di intervenire perché le decisioni appartengono al comando militare e il cui criterio è quello di piegare la resistenza serba o infliggere quanti più danni possibile. La richiesta di una tregua può così trasformarsi nel suo esatto opposto, prendere "politicamente" definitivamente sul serio e accelerare l'intervento di terra (che è poi quello che sostanzialmente chiedono a gran voce fin all'inizio i sostenitori più "intellettuali" e "democratici" dell'ingerenza umanitaria, da Walzer a Goldenhagen e adesso, in un ragionamento disgiuntivo, a CohnBendit). Si badi bene, qui non si sostiene che è la richiesta di tregua a provocare l'intervento di terra, ci mancherebbe. Né per amore di ostinazione si vorrebbe un fallimento dell'iniziativa e un precipitare della catastrofe. Si sbaglierebbe ben volentieri. Qui si sostiene che l'andamento assunto dalla guerra prevede a questo punto l'assunzione di questa ipotesi in maniera definitiva (la disponibilità all'uso assoluto della forza) e che la proposta di tregua è fuori luogo, fuori tempo, inefficace e irrealistica, sia per frenarne l'attuazione sia per dare uno stop alla deriva dei bombardamenti. Inadeguata.
L'astuzia politica può rivelarsi solo una clamorosa sciocchezza.
Give peace a chance
Non c'è alcuna ragione di presumere che il presidente del Consiglio italiano faccia la guerra per piacere personale. La posizione di D'Alema e del suo governo, da Dini alla Jervolino, ha cercato fin dall'inizio una mediazione diplomatica, stretta tra la fedeltà atlantica e il tentativo di dare un ruolo all'Italia, tra le ragioni "etiche" dell'intervento e una pratica "umanitaria" (assistenza ai profughi, campi di accoglienza, visti di ingresso, cooperazione e sviluppo per la ricostruzione del dopoguerra) che ne temperi la violenza distruttiva. Insomma, fare una "mezza guerra". Si può certo ragionare su una logica espansionistica di un'Italia che cerca protettorati e posti al sole, che accompagna l'estendersi di nostre imprese flessibili e alla ricerca di salari a buon mercato e di sbocchi. Ma sono ragioni sottese all'"evento" della guerra, alla sua immediatezza, alle sue dinamiche. D'altronde, chi crede nel libero mercato e nello scambio e nella globalizzazione come prevenzione e cura della guerra ne parla come processi di lunga lena, non può certo contrapporli alla contingenza della guerra.. Anzi: le dichiarazioni di Soros sono sorprendenti da questo punto di vista, per la loro isteria inattesa e per l'accelerazione impressa.
In realtà, il peso politico dell'Italia è abbastanza irrilevante nel potere decisionale in quanto nazione partecipante sebbene determinante da un punto di vista logistico, almeno finora (l'intervento di terra sposterebbe probabilmente l'asse delle operazioni), e per via delle servitù militari e per via dell'impatto dei profughi e dell'assistenza. E determinante pure nella costruzione di un quadro politico di compattezza alleata. Ora, dato che non è credibile che il presidente del Consiglio decida di uscire dalla Nato e dall'alleanza con gli americani, la strada obbligata da percorrere per D'Alema rimane quella della "mezza guerra", di un investimento sui tentativi diplomatici in cui lui stesso abbia un ruolo significativo per dare all'Italia un ruolo significativo e di una intensificazione degli aspetti umanitari e assistenziali. In realtà, dunque le posizioni della maggioranza, del governo, sebbene con sfumature e accenti e tonalità diverse tendono più a convergere che a divergere; la venuta di Rugova in Italia (a cosa sia servito se ne potrà discutere altrove) è abbastanza esemplare da questo punto di vista, dato che tutti la rivendicano - ed è probabilmente vero - e tutti vi hanno contribuito - ed è altrettanto vero. Non si può neanche essere sfiorati dal sospetto che queste iniziative, queste prese di posizione - e quelle dei cattolici popolari - siano solo "ammuine" nell'approssimarsi delle elezioni europee: la lacerazione che ha visibilmente attraversato il congresso dei Verdi tedeschi è presumibile sia vissuta all'interno di ogni singolo componente della maggioranza nostrana (il sottosegretario alla Presidenza, Minniti, ne è ormai divenuto la facies dolorosa e compunta).
Quello che però, a questo punto, si capisce meno è cosa ci stiano a fare Verdi e Comunisti italiani in questa maggioranza: un'altra maggioranza non sarebbe meno preoccupata - basta sentire Berlusconi - degli effetti cumulativi di questa guerra di quanto sia questa. Degli effetti. Perché contro la logica assoluta di questa guerra, contro le sue premesse non è riscontrabile, in questa maggioranza, alcuna dichiarazione e alcun comportamento contrario.
Il senso di responsabilità politica, che diversi commentatori hanno attribuito a questa maggioranza politicamente compatta e umanamente e tecnicamente lacerata (e che continuano a riconoscersi l'un l'altro, Cossutta fa i complimenti a Dini, Manconi fa i complimenti a D'Alema, Marini fa i complimenti a se stesso) è solo una reale irresponsabilità.
Il "condizionamento" che Verdi e Comunisti italiani possono esercitare su questa maggioranza relativamente alla guerra non è diverso dal "condizionamento" imposto a D'Alema dalle cose e dentro il quale si sta sviluppando l'azione dell'Italia. Non è quindi un discorso in generale, perché ha ragione il ministro Diliberto a rivendicare la sua partecipazione in piazza allo sciopero con i metalmeccanici, e quindi, si parva licet componere magnis, una togliattiana doppiezza democratica e socialista; più farraginoso diventa il ragionamento quando manifesta a Bruxelles contro una guerra che lui ha approvato, e poi, suvvia, uno sciopero per l'applicazione del contratto e la presenza nel governo non è la stessa contraddizione sollevata da una guerra.
Il "condizionamento" che Verdi e Comunisti italiani potrebbero imporre all'andamento della guerra sarebbe molto più determinante se mandassero in crisi questo governo, uscendo dalla maggioranza. Se una responsabilità già hanno, è quella di non avere fatto questa azione politica prima del congresso dei Verdi tedeschi, forse determinando situazioni diverse, o almeno un dibattito con più opzioni e una risoluzione finale meno simile a un garbuglio, com'è stato.
Gli scenari politici di una crisi del governo potrebbero essere diversi e non necessariamente con una soluzione di mediazione al negativo. Le difficoltà evidenti in cui si troverebbe il governo italiano di fronte all'Europa e agli Alleati non ne sminuirebbero la sua "caratura politica", anzi la accrescerebbero - a seconda della soluzione - proprio a livello internazionale.
Non una tregua, ma la fine della guerra va chiesta subito, non un'opposizione agli aspetti relativi, collaterali, all'efficacia di questa guerra ma al suo carattere assoluto. Contro la logica assoluta della guerra non può mettersi in campo un'opposizione relativa.
Soprattutto di fronte all'eventualità, tutta nelle dinamiche già innescate, che la guerra debba fare ricorso all'uso della forza assoluta e così coinvolgere e travolgere il Montenegro, la Macedonia, la Grecia, l'Albania. Forse riaprire il conflitto in Bosnia.
Lavorare per l'apertura di un tavolo negoziale e la fine della guerra dovrebbe significare per le opposizioni l'uscita da questo governo e l'apertura di una crisi. D'Alema può continuare benissimo a fare la sua "mezza guerra" senza Verdi e Comunisti italiani e anche le sue iniziative diplomatiche. Mentre Verdi e Comunisti italiani dovrebbero fare il loro mestiere, opporsi risolutamente alla guerra in tutti i modi, non portarne alcun fardello, non ammetterne la sua concentrica spirale di ragionamento. Dall'opposizione peraltro il loro lavoro di tessitura per sbocchi diversi potrebbe sicuramente amplificarsi anche a livello internazionale. E poi - come disse Cossutta poche ore dopo l'inizio dei bombardamenti - "... di fronte alla guerra tutto cambia". Restare in quella maggioranza significa adesso condividerne fino in fondo il percorso di guerra.
Quanto ai movimenti di opposizione della "sinistra sociale e diffusa", persino quelli "in cantiere", dovrebbe essere evidente la loro risolutezza contro la logica assoluta della guerra. Se ne parlerà meglio una prossima volta. Intanto, s'è fatto un gran lavoro. Le manifestazioni sono importanti certo, ma nessuna manifestazione purtroppo ha mai fermato una guerra, soprattutto quando assumono la tonalità dell'opporsi alla guerra reale, agli effetti, quando le parole diventano elastiche e gommose. Gli scioperi, le campagne di mobilitazione, la disobbedienza e la diserzione benché attività più oscure e lente sono chiare e nette iniziative anche per costruire coscienza in un Paese che non è complessivamente contro la guerra. La campagna elettorale europea sarebbe stata una buona occasione, per distinguersi, per rovesciarla, per svuotarla. Non è buona obiezione quella che tatticamente spiega con il bisogno di una mobilitazione larga la gommosità dei ragionamenti. Qualcuno crede che sia più facile spiegare che si manifesta tutti insieme, boyscout dell'Agesci e Comunisti italiani, Verdi e suore paoline, diessini e mondo governativo dell'intervento umanitario e dell'associazionismo del terzo settore, e via via, tutti chiedendo la "pace" e la "tregua"? Con parole come ombrelli larghi tanto da oscurare il cielo? Tutto ciò ferma o intralcia la decisione politica della guerra? I movimenti sociali, certo, agiscono dentro la spazio costruito dalla guerra ma lottando contro i propri governi e i propri Stati. Quelli che hanno assunto la decisione della guerra assoluta, quelli che decidono sulle sorti della guerra reale.
Una posizione assoluta contro la guerra è la politica più realistica sia possibile fare. Non possiamo avere il coraggio di lasciare qualcosa alla sorte.
Lanfranco Caminiti
Roma, 18 maggio 1999
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