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e se questa guerra non finisse presto?
Lanfranco Caminiti
Mentre aumenta progressivamente l’impegno militare della Nato nella guerra, cresce, di concerto, un agire politico dei governi come in un clima da "dopoguerra". Vuoi per il diffuso convincimento che la potenza bellica americana risolverà velocemente le cose, vuoi per recuperare quello spazio di manovra che l’ineluttabilità della partecipazione ha sottratto alla politica e al potere di decisione – il richiamo americano agli accordi Nato degli alleati, un aut aut senza via di scampo –, l’atteggiamento dei governi europei sembra ormai decisamente improntato a costruire un clima virtuale da dopoguerra, ad agire dentro questo clima, a muovere l’opinione pubblica verso questo clima. L’obiettivo delle diverse mediazioni, dei differenti "piani di pace" non è quello di "fermare la guerra" o attenuarla o diminuirla, di agire dunque "durante", quanto quella di costruire gli scenari del "dopo-guerra". Questo vale in particolare per la Germania e l’Italia – l’Inghilterra, che non ha alcuna possibilità di svolgere un qualche ruolo nazionale nei Balcani, aderisce integralmente alla posizione americana – ma anche per la Francia che continua a stare defilata come all’inizio, e semmai cerca un ruolo proprio per il dopo, o per la Spagna che proprio non c’azzecca nulla (tranne che per la demenza di Solana). Lo si capisce di più, ad esempio, riflettendo sull’atteggiamento della Turchia. All’Onu si affida la delega generale di gestire questo dopo-guerra, come a risarcirla di non aver avuto un ruolo né prima né durante, un’illusione di rivitalizzarla.
La supposta "rapidità della guerra" potrà far digerire i bombardamenti (che fra poco non saranno più giustificati dalle immagini dei kosovari profughi – e cresce l’immagine dei kosovari in armi, l’altro soggetto che ora legittimerebbe tutto), che si incattiviranno come è terribilmente logico in un’ipotesi di tempo breve; l’allettante idea di trascinare Milosevic in un qualche tribunale dell’Aja darebbe la "sanzione etica" all’intervento. D’altra parte, non è assolutamente vero proprio per quel che riguarda Italia e Germania che la partecipazione alla guerra nei Balcani le abbia sorprese completamente riluttanti e passive; entrambe cercano un ruolo nazionale nella regione (storicamente e geograficamente costituito) e una legittimazione politico-militare a una forte presenza economico-finanziaria. Quanto l’Italia ha fatto in Albania non ha certo avuto mai segno "umanitario", così come il ruolo tedesco nella disintegrazione della Jugoslavia e nell’appoggio a Slovenia e Croazia. Se l’Europa è morta, le nazioni europee sono dunque ben vive. D’altronde, relegata in un canto la politica dall’azione di guerra (e quindi la diplomazia, se non in quanto diplomazia di guerra), essa può tornare ad avere spazio solo quando la guerra avrà termine. Ma quando avrà termine?.
E se acchiappare Milosevic si dimostrasse più complicato che acciuffare "faccia d’ananas" Noriega? Se prendere Belgrado non fosse la stessa cosa che entrare a Grenada o ad Haiti?
l’ipotesi di un "Vietnam europeo"
Mentre dunque i governi della guerra muovono le loro pedine per trovare uno scenario da dopo-guerra che non sia eccessivamente umiliante per l’uno o l’altro (compresa la Russia in questo momento, non come controparte), e che "promuova" nello stesso tempo il proprio ruolo nella regione (magari attraverso la misura del loro impegno nella costruzione dello scenario), la guerra continua la sua escalation implacabile. L’obiettivo, ovviamente, non è più i termini del trattato di Rambouillet, ma semmai l’imposizione di quel trattato in un contesto che abbia definitivamente cancellato Milosevic e l’apparato industriale-militare serbo. Una punizione e un monito esemplari. Milosevic non ha al momento alcuna via d’uscita (le distruzioni e i lutti fatti pagare al popolo serbo non avrebbero alcuna giustificazione se si arrendesse adesso) e ancora meno ne avrà tra due mesi o tre. Ma non è vero che la strategia non prevedesse questo; non è vero che un "effetto collaterale" e non voluto dai bombardamenti sia stato questo compattamento: è invece esattamente quanto voluto per il tempo della guerra e della sua durata, proprio perché la presenza di Milosevic e la compattezza del fronte serbo sono di continua giustificazione all’intervento di guerra (per i guerrafondai e per gli umanitari), al dispiegamento della nemicità assoluta. Dopo, semmai, si vedrà.
Dunque, tutto si riduce a questa domanda: quanto resisteranno i serbi? Quanto resisterà la popolazione civile ai bombardamenti, alle malattie, alla progressiva riduzione dei viveri e delle necessità? Ma soprattutto – dato che i meccanismi della società civile vengono completamente risucchiati e assorbiti nella logica della guerra -, quanto sarà in grado l’apparato industriale di alimentare la resistenza militare e la struttura militare di tenere il campo, di mobilizzarsi, di fronteggiare, di diversificare l’iniziativa? Chi può rispondere a questa domanda?
Soprattutto chi può rispondere adesso, ora che l’intervento di terra già previsto è meticolosamente preparato, ma solo dopo un continuo cannoneggiamento che durerà per un tempo non breve? Fra un mese cosa resterà di Belgrado? E dei profughi kosovari? E fra due? E dell’esercito serbo?
E se invece la guerra subisse uno stallo, se si "incistasse", i Balcani diventeranno come il Sudest asiatico ai tempi del Vietnam, con Albania (che già si avvia a diventare la nuova Saigon), Macedonia e chissà cosa nel ruolo del Laos e della Cambogia? Per quel che se ne capisce, se ne sa, se ne intuisce "prendere la Serbia" non è militarmente (visto che ormai politicamente quest’idea di "prendere la Serbia" è stata digerita e appoggiata) cosa facile. Ed è proprio sulla questione militare che gli americani concentrano la loro attenzione. Dei profughi kosovari se ne occupano gli alleati con scatolette, coperte, televisione, autobus e visti.
Non c’è alcun paragone possibile tra quanto sta accadendo nei Balcani e in Serbia con il Vietnam, lo sappiamo bene. Né da un punto di vista politico, né da quello degli scenari internazionali, né da quello storico, né da quello del giudizio. Ma se non si vuole risalire, nella storia europea, alla guerra di Crimea e all’assedio di Sebastopoli o alla guerra dei Trent’anni è difficile trovare qualcosa che abbia nella memoria ancora viva una qualche attinenza concreta con un possibile scenario militare di quanto può accadere nei Balcani (tutti i paragoni e le metafore legate alla Seconda guerra mondiale sono veramente insopportabili da un punto di vista culturale e storico). L’esempio si limita dunque agli elementi legati al teatro delle operazioni (un territorio difficile da conquistare e soprattutto da tenere) e al rapporto tra popolazione civile e belligeranti.
Inversamente che durante la guerra del Vietnam, qui un quadro di "alleanze internazionali" magari solo come continue opposizioni più che concrete iniziative non si danno precedenti all’intervento militare (e questo sia per il ruolo che ebbe la Russia o per quello della Cina o per quello dell’impegno del Terzo Mondo, a cominciare dalla Jugoslavia). Qui, non c’è un movimento comunista internazionale, una generazione che stava attraversando il Novecento con una ragione e un’idea fisse, spesso striate di sangue, da Tito a Ho-chi-min, da Mao a Longo a Hoxha. Qui, non c’è la generazione delle indipendenze nazionali capaci di battersi internazionalmente, da Fidel a Nasser a Ben Bella a Nehru. Qui la situazione è terribilmente più ambigua e complessa, debole. Tra fondamentalismi religiosi e laici, isolazionismi, protezionismi, nazionalsocialismi e nazionalcomunismi, liberismi trionfanti. Qui un quadro di differenze, fratture, sfumature, rotture può darsi solo a partire dalla durata della resistenza serba. Se la popolazione sarà piegata in breve tempo, se l’esercito verrà colpito duramente, se i rifornimenti cesseranno, se gli immagazzinamenti finiranno, se l’iniziativa militare verrà paralizzata, lo scenario internazionale non avrà contraccolpi se non quelli prevedibili appunto nel "dopoguerra" già attivo oggi.
Ma se le cose durassero invece (e non con una sorta di guerriglia per bande del dopo-disfatta dell’esercito, ché questa è probabilmente già messa in conto e diventerebbe davvero solo un problema di "polizia", magari lungo ma controllabile e infine insignificante), la durata potrebbe dare modo a due soggetti adesso defilati di trovare spazio per iniziativa e sostegno concreti: l’apparato militare sovietico con la sua industria e la chiesa ortodossa.
L’azione della chiesa ortodossa – debole in ogni singola nazione di lingua slava, esclusa la Russia, ma forte nel suo insieme come presa e guida e non solo tra gli slavi, si pensi alla Grecia, alla Romania – si muove per ora nel solco della parola di pace universale e dei tentativi di mediazione con un forte ancoraggio alla chiesa occidentale. Non è del tutto fuori luogo ipotizzare un desiderio di rinascita e di caratterizzazione – dopo il lungo movimento dall’ovest e dal sud verso est con il pontificato di Woytila – tutto giocato sul pan-nazionalismo slavo, magari a volte più scoperto, a volte più coperto.
L’apparato militare sovietico – a cui l’Afghanistan ancora brucia terribilmente (e in Cecenia le cose non sono andate granché meglio) e le cui considerazioni su quella guerra sono esattamente identiche a quelle americane sul Vietnam ("fu lo scarso impegno la causa della sconfitta") – non ha assolutamente voce in capitolo per ora nella dinamica politica dei paesi ex-sovietici. Un peso, un ruolo potrebbe cominciare ad averlo – trovando gli interlocutori più disparati, ma con un forte ancoraggio nell’industria di Stato – non malgrado la sua debolezza ma proprio per la sua debolezza. Anche qui, un desiderio di soggettività e di rivincita potrebbero essere determinanti.
Per l’uno e l’altro soggetto, questo significherebbe poi aiuti concreti, sostegno, armi, denaro, rifornimenti, diplomazia, preghiere, quadro politico internazionale.
Quello che insomma potrebbe accadere non è la deflagrazione di un conflitto mondiale, ma la persistenza di un conflitto "circoscritto" all’area dei Balcani dentro uno scenario globale. Come nel Vietnam, appunto.
Un’ipotesi più limitata potrebbe essere quella di fiaccare la Serbia continuando i bombardamenti e costringendo l’attenzione militare e civile su questo aspetto, e nel frattempo invadere il Kosovo, utilizzando le truppe dell’Uck prima come carne da macello e poi come polizia del "lavoro sporco". La "conquista" del Kosovo verrebbe mantenuta da una rilevante presenza militare, che dovrebbe fronteggiare l’esercito serbo, ma senza ipotizzare una sua avanzata fino a Belgrado, intanto messa in ginocchio e impossibilitata a reagire. Da un punto di vista internazionale questo scenario sarebbe più "sostenibile" e meno umiliante per la Russia (in sostanza, si tratterebbe di applicare militarmente le ipotesi più conseguenti del trattato di Rambouillet, fino alla secessione del Kosovo, garantita con le armi). E’ come se venisse rovesciata la domanda "morire per il Kosovo?" ai serbi, messi fra tre-quattro mesi di fronte all’alternativa di perdere tutto o lasciar perdere il Kosovo. La fine di Milosevic verrebbe, in questo caso, gestita politicamente, dentro la tenaglia di questa domanda, militarmente, impedendo qualsiasi possibilità di diversificare il conflitto dovendo piuttosto continuare a difendersi, ed economicamente, con l’embargo (che a questo punto ha tutto carattere militare, altrimenti avrebbero potuto utilizzarlo prima con severità).
Non è detto che tutto questo accada, e soprattutto non è detto che questo sia il migliore dei mondi possibili. Anzi. Ma potrebbe accadere (se i serbi resistono oltre ogni ragionevole ipotesi e previsione del Pentagono). E dichiarare la propria difficoltà a prender partito non è qui la stessa cosa che riguardo l’Algeria d’oggi (ammesso che sia possibile tollerarlo). Quello è comunque un conflitto locale, interno, circoscritto. Questo no. Questo modifica tutto lo scenario che va dall’Adriatico verso est (basta vedere quello che è successo, succede e succederà in Albania in pochissimo tempo), oltre che la configurazione politica dell’Europa. C’è il ruolo della Nato, dell’Onu, dei governi europei, dell’Impero. Non sempre si scelgono le guerre. Non sempre c’è la guerra di Spagna.
"Digerire la guerra" sarebbe invece davvero il peggiore dei mali. Portandosi dietro un senso di infiacchimento per un tempo indefinito di qualsiasi possibilità di opposizione "vera", di trasformazione, di dinamica sociale conflittuale. Se non assumendo la questione della guerra come questione "centrale". Forse non assoluta, ma centrale. Bisogna sfuggire alla sua dimensione catastrofica e totale, politicizzandola. Politicizzare la guerra.
italiani brava gente
Diciamoci la verità: senza la base di Aviano la guerra per gli alleati sarebbe molto più complicata militarmente. Diciamoci la verità: senza le altre basi militari italiane e il sostegno politico e fattivo (proprio quello umanitario, ché di quello militare, a parte le servitù, gli americani possono benissimo farne a meno, se non come piccole mosse di facciata) del nostro governo, le cose sarebbero molto più complicate per gli alleati.
Diciamoci la verità: ogni scatoletta, ogni tenda, ogni maglione che noi mandiamo in Kosovo è sicuramente un gesto di pietà umana e di sostegno a gente disperata e massacrata, ma anche il compito che ci spetta nel piano militare della Nato.
A dispetto del magro petto che prova a gonfiarsi del nostro ministro della Difesa (chi affiderebbe la difesa della propria casa a quel signore col ciuffo sempre scomposto? – eppure, attenti, è un cossighiano, un atlantista quindi di pedigree, una spia degli americani) gli italiani sono militarmente relegati nelle vettovaglie, e anche in un intervento di terra ci limiteremmo a "far la guardia a un bidone di benzina".
Questo forse può consentire ai gruppi politici che si dichiarano contro la guerra di stare nel governo che la sostiene (l’escalation con cui accettano il crescere delle iniziative militari segue l’escalation della guerra) e permettere il prosieguo dell’equilibrismo, sperando tutto finisca presto (tra poco viene primavera, poi l’estate, gli italiani si distraggono presto e volentieri, intanto mandiamo soldi, medicine e volontari). Non ci saranno tradotte di giovani soldati italiani che vanno al fronte da fermare con i propri corpi. Noi siamo già al fronte, a montar tende, a dare coordinate, a pulire gli aeroporti dove si poseranno gli Apaches. E’ questo il nostro lavoro "militare", già svolto in Libano, già svolto in Somalia. Quello che viene chiesto all’Italia è proprio la "tenuta politica". Una crisi dentro un governo europeo avrebbe ripercussioni di non poco conto.
Noi siamo politicamente in prima linea.
Pensare cosa potrebbe significare in questo momento una crisi di governo proprio sulla questione della guerra e dei patti Nato (dibattiti parlamentari, blocco dell’attività legislativa, ridiscussione delle alleanze internazionali – e di un ruolo di indipendenza italiano dopo cinquant’anni, è questo che si festeggia in questi giorni, di sovranità limitata) non è fantascientifico. E se non ora, quando? Quando la guerra sarà finita? Quando tutto avrà ritrovato una sua orribile normalizzazione? Di quando si deve parlare degli schieramenti internazionali se non proprio nel momento in cui essi acquistano drammatico senso sulla vita di un paese, di un popolo? Anche senza pensare alla caduta di questo governo (ma non per la iattura d’un suo contrario e il ricatto continuo di quest’ipotesi, quanto perché la via d’uscita non è la soluzione tutta partitica del momento), è lecito immaginare che la sospensione immediata delle proprie servitù militari e l’apertura d’un dibattito sulla guerra sarebbe possibile.
Anche dovendo ipotizzare che il suo punto di partenza e il suo esito potrebbero essere orribili: scoprire non solo che le forze politiche sono a maggioranza belliciste (per scelta o necessità) ma che buona parte della gente lo è (il che non le impedisce di sentirsi umanitaria). Se la guerra non finisce presto, se la guerra si incista questo atteggiamento può anche aggravarsi in assenza d’un coinvolgimento, d’una comprensione, d’una partecipazione sociali. Quando i "fastidi" della guerra (dagli aspetti economici, turistici, fiscali a quelli più direttamente militari) si faranno sentire e le trasmissioni televisive passeranno progressivamente dal tono "caldo e commosso" a quello dell’"inviato di guerra", i mostri oscuri che abitano il ventre degli italiani brava gente (dal razzismo alla pena di morte) potrebbero coagularsi in un desiderio di morte su scala. Il tecnicismo della politica, questo understatement tattico del misurato e del compatibile non è nemmeno l’arte del possibile. Quello che è possibile in questo momento in Italia è molto di più di quello che si sta facendo. La responsabilità "storica" è maggiore. Rinviare ogni questione al "dopo-guerra" è estremista e illusorio. Non solo perché in questo "durante" le cose si aggraveranno, ma perché "dopo" i giochi sono bell’e fatti.
cosa possiamo fare?
Se la guerra non finisce presto ci sono due scadenze intanto vicine: le elezioni europee e il Giubileo. Le prime vanno affrontate chiaramente a partire dalla centralità della questione della guerra rispetto al voto. Bisogna chiedere a Verdi, Rifondazione, Pdci, indipendenti vari un impegno preciso in proposito, l’autosospensione, le dimissioni, la battaglia nei propri organismi politici (dai consigli circoscrizionali a quelli comunali a quelli regionali e su su) per un’immediata sospensione della servitù delle nostre basi militari. Non un generico impegno contro la guerra e per la pace (a quello sono buoni tutti, preti e casalinghe, governativi e oppositori, dame di carità e giornalisti, cantanti e militanti), non un manifestare per strada, ma un’attività, un lavoro che li riguarda direttamente: la rappresentanza. Piuttosto che un generico scetticismo e un’ipocrita reciproca strumentalizzazione questo terreno della rappresentanza va riempito di senso e di conflitto. E non è vero che è un terreno da abbandonare, perché qui si gioca una partita importante, tanto quanto quella della crescita della mobilitazione e della visibilità del manifestare, non lasciando però che sia gestita poi nella tecnica della politica. L’obiettivo della sinistra diffusa antagonista e alternativa, in questo momento, non può essere quello della testimonianza e della crescita di parte, ma quello di fermare davvero la guerra, almeno per quello che riguarda l’Italia.
Incidere sul nostro governo è possibile. Un risultato elettorale "buono" alle elezioni europee avrebbe senso non tanto per la possibilità di esercitare una qualche pressione a Strasburgo (dove la presenza di Prodi peraltro non promette nulla di buono in quanto a crisi della fedeltà atlantica, e dove l’asse rosso-verde non ha certo brillato) quanto per giocarlo qui, in Italia. Solo subordinando il proprio voto a quest’impegno ha un senso (e il suo senso più "classico" peraltro) il sostegno a questo o quel candidato, a questa o quella lista. Ma un impegno che deve essere messo in evidenza ora, con iniziative ora, con un’esplicitazione ora. Dissociandosi dai propri partiti, costruendo in Parlamento un gruppo indipendente denominato "contro la guerra". Altrimenti, intascato il mandato, la "rappresentanza" si subordina da sempre alle logiche tutte tecniche della politica e se ne riparla fra cinque anni. Fra cinque anni.
Anche per quel che riguarda il terzo settore, il volontariato, le ong, le cooperative che vivono dei rivoli di denaro "politico" è il momento di chiedere impegno, senso alla loro committenza istituzionale, ai loro referenti istituzionali. Mai momento è stato più significativo di questo perché il loro "servizio" sia legato al senso tutto politico del fare. E’ quello che hanno sempre chiesto d’altronde e spesso strappato. E anche qui la manifestazione dell’impegno non sta nel moltiplicare gli sforzi e la coscienza umanitari, ma nel nodo cruciale: quello dello scambio politico. Svolgere un servizio di pace per una committenza politica bellicista (per un comune, una provincia, una regione, un’istituzione qualunque) è un’ambiguità che può essere sciolta positivamente, con forza.
L’altra "scadenza" è il Giubileo. Se la guerra non finisce presto, il prossimo anno arriveranno in Italia venti-trenta milioni di pellegrini da tutto il mondo per pregare e chiedere pace in un Paese che è in guerra. Andranno a inginocchiarsi da Sant’Antonio a Padova o da Padre Pio in Puglia mentre bombardieri, elicotteri e altre diavolerie continueranno a girare sulle loro teste. Le chiese, le cattedrali, le piazze, i santuari, le città di religione (come Assisi) dovrebbero diventare luoghi di militanza, di diffusione, di impegno, di manifestazione continua. E’ un improvviso scenario mondiale che si apre al conflitto politico, a questo "laboratorio italiano", una coscienza universale, con una eco inimmaginabile non solo per la presenza fisica ma per le televisioni di tutto il mondo, spartite fra l’altro tra mandare servizi di guerra e servizi contro la guerra. Solo un breve tratto di mare, solo sessanta miglia starebbero tra l’una e l’altra. Da questo punto di vista, l’Italia potrebbe diventare proprio la coscienza e la lotta politica di questo nuovo Vietnam, come l’America lo fu per quell’altro.
L’America. Nessun anti-americanismo di quart’ordine, razzista peraltro. Qui il nemico è un governo, una politica, un apparato militare, un sistema. Sono bambinate ambigue i sassi contro McDonald’s e i Blockbuster, e nella forma e nel contenuto: colpiscono nel mucchio e questa è proprio la logica delle bombe. Gli americani sono in Italia la più grossa comunità straniera e al primo posto delle visite turistiche. I loro colleges, le loro università, i loro giornali in Italia devono diventare luoghi del confronto politico, della diffusione di informazioni. Sono luoghi privilegiati e ideologizzati, sicuramente, ma dove altrettanto sicuramente si trova senso critico, disagio, difficoltà. Su questo disagio bisogna intervenire, politicamente, criticamente, culturalmente, pacificamente. Che non se ne vadano via, che restino in Italia. Altro, certo, è il senso di manifestare davanti alle loro ambasciate, alle loro basi militari, ai loro marines. Qui il loro privilegio (non in quanto americani, ma in quanto guardiani dell’Impero), quello che sta nella testa di chi compie le evoluzioni nel Cermis, dovrebbe trovarsi di fronte lo sguardo del nostro spregio. A loro sì, va urlato, ancora: "Yankee, go home".
Per tutto questo, per molto altro ancora si potrebbe e si dovrebbe costituire un "cartello", un raccordo, una qualche struttura che metta assieme tutte le organizzazioni piccole e grandi, laiche e cattoliche, tutti i centri, le iniziative di base sui posti di lavoro o nel territorio, nel sindacalismo o nella cultura, nella militanza, ciascuno mantenendo la propria autonomia verso un impegno comune contro la guerra. "Contro la guerra" potrebbe proprio essere il nome di questo cartello provvisorio, dove differenze, sfumature, questioni di principio possano continuare a coesistere ma dove lo sforzo comune si coaguli su una piattaforma semplicissima di due, tre punti, ad esempio: 1) ritiro immediato delle forze americane ed europee dai Balcani; 2) sospensione immediata delle nostre servitù militari alla Nato e ridiscussione di tutti i trattati internazionali; 3) iniziative di pace, tavolo delle trattative e immediati stanziamenti del Fondo mondiale o altro per la ricostruzione di tutti i territori devastati e delle infrastrutture. Questi o altri, magari più precisi, più puntuali. Il coordinamento, limitato al tempo degli obiettivi, potrebbe dotarsi di un suo portavoce o più portavoce, magari scelti fra persone note e di schietto schieramento contro la guerra, un "comitato di garanti" con scienziati, operai, intellettuali, sindacalisti, giornalisti, costituzionalisti, uomini di fede o di ragione, di una snella struttura organizzativa e di un'assemblea invece largamente rappresentativa, cuore delle decisioni e delle iniziative, oltre che di strumenti di informazione (dalla carta alle immagini alla Rete). La sua forza si moltiplicherebbe, il suo prestigio aumenterebbe, anche internazionalmente, la rete di contatti, di idee, di disponibilità di ciascuno si incrementerebbe, la capacità di incidere pure. Si potrebbe fare, si dovrebbe fare.
Se i serbi resistono, se il movimento italiano scende in lotta.
lanfranco caminiti
Roma, 24 aprile 1999
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