Indonesia, il caso e' chiuso
- Noam Chomsky -
Alcuni fatti nuovi negli anni 1990-1991 suscitarono un insolito interesse
per le atrocità indonesiane sostenute dagli USA. Nel maggio 1990, lo State
News Service rese note le conclusioni di una ricerca condotta da Kathy
Kadane a Washington:
“Secondo ex-diplomatici americani il governo USA giocò un ruolo importante
(nel massacro NdC) fornendo i
nomi di migliaia di dirigenti del Partito Comunista all’esercito
indonesiano, che li ricercò e li uccise… furono dati ai
militari almeno 5.000 nominativi e più tardi gli americani, secondo
funzionari Usa, controllarono i nomi di coloro
che erano stati uccisi o catturati... Gli elenchi – dichiaro [il
funzionario del Ministero degli Esteri Robert] Martens –
erano veri e propri organigrammi della leadership del partito di tre
milioni di iscritti. Quelle liste comprendevano i
nomi dei membri di comitati provinciali, cittadini e locali del Pki, e
dei leader delle "organizzazioni di massa", quali
la federazione nazionale dei lavoratori del Pki, le associazioni delle
donne e quelle giovanili”.
Gli elenchi venivano trasmessi ai militari che li usavano come una “lista
dei condannati a morte”, sostiene Joseph Lazarsky, all'epoca vice capo
della Cia a Giakarta, secondo il quale alcuni erano trattenuti per essere
interrogati o per mettere su dei “processi-farsa” solamente perché gli
indonesiani “non avevano abbastanza squadre della morte per eliminarli
tutti”. Kathy Kadane scrive poi che alti funzionari dell'ambasciata Usa
avevano ammesso, nel corso di alcune interviste, di aver approvato la
consegna delle liste. William Colby (capo della Cia) paragono l'operazione
indonesiana al programma "Phoenix" in Vietnam, nel tentativo di
giustificare quest'ultima campagna di assassini politici (quale era,
nonostante le sue smentite, l'operazione "Phoenix").
“A nessuno importava che fossero macellati, fintanto che si trattava di
comunisti”, disse Howard Federspiel, allora esperto sull'Indonesia per i
servizi del Dipartimento di Stato. “Nessuno se la prese poi molto”. “In tal
modo demmo un grosso aiuto all'esercito”, aggiunse Martens. “Probabilmente
hanno ucciso molta gente, e mi sono macchiato di molto sangue, ma non è tutto
così negativo”. “A volte bisogna colpire duro al momento giusto”.
La notizia fu ripresa da alcuni giornali, ma nessuno ebbe molto da dire:
era la solita storia. Dopotutto, l'ambasciata Usa dieci anni prima aveva
agito nello stesso modo in Guatemala, dove ebbe luogo un'altra "utile"
strage. Pur causando qualche breve
irritazione, il documento fu presto dimenticato. Il giornale delle verità
ufficiali, il New York Times, aspetto quasi due mesi prima
di occuparsene, il tempo sufficiente per raccogliere le smentite
necessarie. Il giornalista Michael Wines riporto tutti gli usuali
luoghi comuni sull'accaduto della propaganda governativa, per quanto poco
credibili fossero, come dati di fatto incontestabili.
L'ambasciatore Green respinse il rapporto Kadane definendolo “immondizia”.
Secondo lui ed altri, gli Usa non ebbero nulla a
che fare con le liste dei nomi, che comunque non erano importanti. A questo
proposito Wines cita una lettera di Martens al
Washington Post secondo la quale quei nomi si potevano ottenere facilmente
dalla stampa indonesiana, tralasciando pero la
sottolineatura dell'autore sull'importanza della consegna delle liste;
Martens sostenne infatti di “non veder niente di male nel dare
una mano” agli indonesiani, e così pensa ancora, perché “il terrore
pro-comunista che porto al golpe... contro i capi militari
anticomunisti... aveva impedito la raccolta sistematica di dati sui membri
del Pki”; una storia fantasiosa, ma poco importa.
Wines non dice nulla a proposito della celebrazione del massacro fatta dal
Times, né dell'orgoglio dei suoi principali
commentatori politici sul ruolo americano che l'aveva favorito.
Stephen Rosenfeld, del Washington Post, fu uno dei pochi nella stampa
nazionale a turbarsi per le rivelazioni di Kadane.
Anche la sua reazione e molto istruttiva.
In seguito alle rivelazioni di Kadane, il Post pubblico una lettera di
Carmel Budiardjo, 1 attivista indonesiano per i diritti umani,
secondo il quale la complicità diretta Usa nella strage era già emersa dai
cablogrammi, pubblicati da Gabriel Kolko, tra
l'ambasciata Usa a Giakarta ed il Dipartimento di Stato, ed in particolare
dal carteggio Green-Rusk del quale abbiamo già
parlato. Un mese più tardi, Rosenfeld manifesto una certa preoccupazione
per il fatto che “nell'unico resoconto che ho letto” –
cioè, quello di Kolko – vengono sollevati dei dubbi sul coinvolgimento dei
comunisti nel presunto tentativo di golpe servito
come pretesto per i massacri. Notevole l'aggiramento della questione
principale, un colpo da maestro. Ma, continua Rosenfeld,
“il tipico punto di vista revisionista dai-la-colpa-all'America [di Kolko]
mi fa diffidare delle sue conclusioni”. Rosenfeld sperava
che “qualcuno dalle idee politiche più centriste setacci il materiale e dia
un resoconto obiettivo”. La sua invocazione di aiuto
appari sotto il titolo, “Indonesia 1965: un anno vissuto cinicamente”.
Per sua fortuna, i soccorsi stavano già arrivando. Una settimana dopo, con
il titolo “Indonesia 1965: l'anno dell'estraneità Usa”,
Rosenfeld scrisse di aver ricevuto per posta “il resoconto indipendente” di
uno storico “senza pregiudizi politici” – cioè, in altre
parole, qualcuno capace di rassicurarlo che lo stato da lui amato non aveva
fatto niente di male. Questo rimedio era “pieno di
delizie e sorprese”, e concludeva che gli Usa non erano responsabili delle
morti o del rovesciamento di Sukarno. “Il documento
scagiona gli americani dal sospetto dannoso e persistente di essere
responsabili del golpe e dei massacri indonesiani” e,
conclude felice Rosenfeld: “Per me, il caso del ruolo americano in
Indonesia e chiuso”.
Com'è facile la vita dei credenti.
L'articolo che chiuse il caso, con immenso sollievo di Rosenfeld, fu la
ricerca di Brands di cui abbiamo parlato prima. Del resto
sul fatto che Brands sia un commentatore "indipendente" "senza pregiudizi
politici" non vi sono dubbi: per lui la guerra Usa in
Vietnam fu un tentativo “di salvare il Vietnam del Sud”; l'informazione
arrivata a Washington secondo la quale “l'esercito ha
praticamente distrutto il Pki” con un enorme massacro era una “buona
notizia”; “il difetto più serio della guerra sporca” e “la sua
inevitabile tendenza ad avvelenare il pozzo dell'opinione pubblica”, cioè,
di coprire gli Usa di “false accuse”, etc. Molto più
importanti sono le “delizie e sorprese” che mettono a tacere qualche
residuo dubbio. Visto che quella ricerca ha chiuso per
sempre la vicenda, possiamo adesso dormire sonni tranquilli sapendo che
Washington ha fatto tutto il possibile per favorire il
più grande massacro dai giorni di Hitler e Stalin, ha salutato le
conseguenze di quell'evento con entusiasmo e, immediatamente,
si e adoperata per sostenere il "nuovo ordine" di Suharto, a ragione
definito tale. Per fortuna, non c'è nulla che possa turbare la
coscienza dei liberal.
Una "non-reazione" interessante al rapporto di Kadane e stata quella del
senatore Daniel Patrick Moynihan, in un articolo di
apertura del New York Review of Books. In esso egli sostiene di temere che,
cancellando gli aspetti spiacevoli del nostro
passato, “stiamo corrompendo la memoria storica del paese”. Il senatore fa
rilevare il contrasto tra queste mancanze e “la
straordinaria situazione” dell'Unione Sovietica “nella quale vengono
riesumati i peggiori delitti della sua spaventosa storia”.
Naturalmente, “gli Stati Uniti non hanno una storia simile. Al contrario”.
La nostra e immacolata; non esistono delitti da
"riesumare" compiuti contro la popolazione indigena o contro gli africani
nei 70 anni seguiti alla nostra rivoluzione, o contro
filippini, centroamericani, indocinesi ed altri più recentemente. Tuttavia
persino noi non siamo perfetti: “Non tutto quel che
abbiamo fatto in questo paese e stato fatto alla luce del sole”, scrive
Moynihan, per quanto “non tutto poteva esserlo.
0
avrebbe dovuto esserlo”. Ma abbiamo nascosto troppe cose, ed e questo il
solo grave delitto della nostra storia.
E' difficile credere che mentre scriveva queste parole, il senatore non
avesse in mente le recenti rivelazioni sull'Indonesia.
Dopotutto, egli era stato coinvolto direttamente in quella vicenda.
Moynihan era ambasciatore all'0nu quando vi fu l'invasione
indonesiana di Timor-Est, ed è sempre stato fiero, come sostiene nelle sue
memorie, di aver ostacolato qualsiasi reazione
internazionale all'aggressione ed alla strage. “Gli Usa desideravano che le
cose andassero come sono poi andate”, egli scrive, “e
si impegnarono per raggiungere questo risultato. Il Dipartimento di Stato
desiderava che le Nazioni Unite si rivelassero,
qualunque misura avessero deciso di prendere, completamente impotenti. Mi
fu affidato questo compito, ed io lo portai avanti
con notevole successo”. Moynihan allora era perfettamente consapevole di
come erano andate le cose e sapeva che in poche
settimane erano state uccise 60.000 persone, “il 10% della popolazione,
quasi la stessa percentuale di vittime che ebbe
l'Unione Sovietica durante la II guerra mondiale”. Così egli si assunse il
merito per delle azioni che egli stesso paragonava a
quelle dei nazisti. E sicuramente Moynihan era anche a conoscenza del ruolo
avuto successivamente dal governo Usa nella
prosecuzione del massacro, e del contributo dei media e della classe
politica nel tenerlo nascosto.
Ma i rapporti recentemente pubblicati sul ruolo di Washington in quel
massacro non hanno risvegliato la sua memoria storica,
né gli hanno suggerito qualche riflessione sui nostri metodi, ad eccezione
del nostro unico difetto: l'insufficiente sincerità.
I successi di Moynihan all'Onu sono entrati nella storia nel modo
convenzionale. Le misure prese contro l'Iraq e la Libia
“mostrano nuovamente come il collasso del comunismo abbia dato al Consiglio
di Sicurezza quella coesione necessaria per far
rispettare i suoi ordini”, spiega il corrispondente all'Onu del New York
Times, Paul Lewis, in un articolo di prima pagina.
“Questo era stato impossibile in casi precedenti come... l'annessione di
Timor-Est da parte dell'Indonesia”.
Un momentaneo turbamento a proposito dell'Indonesia si ebbe nell'agosto del
1990, all'indomani dell'invasione del Kuwait da
parte dell'Iraq. Era difficile non notare la somiglianza di quegli eventi
con l'aggressione indonesiana (di gran lunga più
sanguinosa) e l'annessione di Timor-Est. Dieci anni prima, quando era
cominciato ad emergere qualche frammento di verità su
quanto era successo, alcuni avevano paragonato le imprese di Suharto a
Timor-Est con le contemporanee stragi di Pol Pot. Ma
nel 1990, gli Usa ed i loro alleati furono accusati, al massimo, di aver
"ignorato" le atrocità commesse dagli indonesiani. La
verità e stata sempre taciuta durante tutti questi anni: l'Indonesia aveva
ricevuto un decisivo sostegno militare e diplomatico per i
suoi mostruosi crimini di guerra; e certamente, a differenza del caso di
Pol Pot e di Saddam, si sarebbe potuto porre fine
rapidamente a questi crimini con il semplice ritiro dell’assistenza
occidentale e con la rottura del silenzio.
Intensi sforzi sono stati compiuti per giustificare reazioni così
radicalmente diverse nei confronti di Suharto, da una parte, e Pol
Pot e Saddam Hussein dall'altra, e per evitare che ciò venga spiegato con
la diversità degli interessi americani in quelle
situazioni, motivazione valida in molti altri casi. William Shawcross dette
una “seria spiegazione di ordine strutturale” sostenendo
che nel caso di Timor-Est vi era stata “una relativa mancanza di fonti” e
di accesso ai profughi, forse perché Lisbona e
l'Australia sono assai più inaccessibili della frontiera tra la Tailandia e
la Cambogia. Gérard Chaliand, da parte sua, liquido
l'attivo sostegno francese al massacro perpetrato dall'Indonesia nel mezzo
di uno dei suoi show di angoscia per quanto fatto da
Pol Pot, con la scusa che i timoresi sono “geograficamente e storicamente
marginali”. La differenza tra il Kuwait e Timor-Est,
secondo Fred Halliday, sta nel fatto che il Kuwait “è esistito ed ha
funzionato come stato indipendente fin dal 1961”; ma, per
valutare questo punto, e bene ricordare come gli Usa abbiano impedito alle
Nazioni Unite di interferire con l’invasione del
Libano da parte di Israele, o di trarre le dovute conseguenze dalla loro
condanna dell'annessione israeliana delle alture del
Golan siriano e che, a differenza di Suharto nel caso di Timor-Est, Saddam
aveva comunque proposto di ritirarsi dal Kuwait;
anche se non sappiamo quanto seriamente, visto che gli Usa immediatamente
rifiutarono l'offerta nel timore che “potesse
disinnescare la crisi”. Un punto di vista assai diffuso e quello secondo
cui “l'influenza americana sulla [decisione indonesiana di
invadere Timor- Est] e stata probabilmente esagerata”, anche se non vi e
dubbio che gli Usa “si voltarono dall'altra parte” ed
“avrebbero potuto fare molto di più per prendere le distanze dalla
carneficina” games Fallows). La colpa, quindi, starebbe nel
non aver agito, e non nell'aver contribuito in modo determinante alla
strage ancora in corso intensificando i rifornimenti di armi e
rendendo l'Onu “completamente impotente” perché “gli Stati Uniti
desideravano che le cose andassero come sono poi andate”
(l'ambasciatore Moynihan), mentre la comunità intellettuale preferiva
denunciare solo i delitti dei "nemici ufficiali". Altri sono
ricorsi a diversi espedienti per non rispondere a quelle domande,
aggiungendo altre note a pie di pagina all'ingloriosa storia.
Il governo australiano a proposito di Timor-Est fu più sincero. “Non vi e
alcun obbligo legale vincolante che vieti il
riconoscimento dell'acquisizione di territori con la forza”, spiego il
ministro degli Esteri Gareth Evans, aggiungendo che “il
mondo e molto iniquo; pieno di esempi di acquisizioni tramite la forza... ”
(nello stesso tempo, seguendo l'esempio di Usa e
Gran Bretagna, Evans vietò i contatti ufficiali con l'Olp, doverosamente
indignato per il fatto che essa “continuava a difendere e
a non dissociarsi dall'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq”). Il primo
ministro Hawke, da parte sua, sostenne che “i grandi
paesi non possono invadere i loro vicini più piccoli e farla franca” (con
riferimento all'Iraq ed al Kuwait) e proclamo che nel
Nuovo Ordine stabilito dai virtuosi anglo-americani, “gli aggressori
potenziali ci penseranno due volte prima di invadere i loro
vicini più piccoli”. I deboli “si sentiranno più sicuri perché sanno che in
caso di pericolo non saranno soli” e, infine, “tutte le
nazioni devono comprendere che nelle relazioni internazionali il primato
del diritto deve prevalere sulla forza bruta”.
L'Australia ha un rapporto speciale con Timor-Est; basti ricordare che
decine di migliaia di timoresi furono uccisi durante la II'
guerra mondiale per proteggere alcuni guerriglieri australiani che
combattevano sull'isola per impedire un'imminente invasione
giapponese dell'Australia. Eppure questo paese e stato il più attivo
difensore dell'invasione indonesiana di Timor-Est.
Una delle ragioni, da tempo nota, e costituita dalle ricche riserve di gas
naturale e di petrolio che si trovano nella fossa di Timor,
“una dura, fredda e triste realtà che dobbiamo riconoscere”, spiego
sinceramente il ministro degli Esteri Bill Hayden nell'aprile
del 1984. Nel dicembre del 1989, Evans firmo un trattato con i
conquistatori indonesiani spartendosi le ricchezze di Timor e,
nel corso del 1990, l'Australia ricavo 31 milioni di dollari (australiani)
dalle vendite alle compagnie petrolifere dei permessi di
esplorazione in quell'area. I commenti di Evans, che abbiamo riportato,
vennero formulati per giustificare la posizione
australiana in seguito alla presentazione da parte del Portogallo,
considerato come l'autorità responsabile per Timor, di una nota
di protesta contro il trattato presso la Corte Internazionale.
Mentre intellettuali e politici inglesi disquisivano con la dovuta serietà
sui valori della loro cultura tradizionale, che adesso
finalmente potevano essere imposti nuovamente dai difensori del Nuovo
Ordine Mondiale (riferendosi alla Crisi del Golfo), la
British Aerospace concordava con l'Indonesia la vendita di aerei da
combattimento e 1'inizio di una coproduzione nel settore
aeronautico e bellico, “che potrebbe costituire una delle maggiori vendite
di armi da parte di una singola azienda ad un paese
asiatico”, come scrisse il Far Eastern Economic Review. La Gran Bretagna
era del resto di ventata, afferma lo storico di
Oxford Peter Carey, “uno dei principali fornitori di armi dell'Indonesia,
alla quale vendette materiali per 290 milioni di sterline
nel solo periodo 1986-1990”.
L'opinione pubblica è stata tenuta all'oscuro di questi fatti così
sgradevoli, come anche dell'offensiva militare indonesiana a
Timor-Est dell'autunno del 1990, sotto la copertura della Crisi del Golfo e
delle operazioni indonesiane, appoggiate
dall'Occidente, nella West-Papua. Operazioni che potrebbero spazzare via da
quella regione un milione di indigeni e che
avrebbero già provocato, come sostengono attivisti per i diritti umani ed
alcuni osservatori, un numero imprecisato di vittime,
migliaia delle quali uccise con armi chimiche. I solenni discorsi sul
diritto internazionale, il crimine dell'aggressione ed il nostro
forse troppo fervente idealismo possono continuare . a riecheggiare
indisturbati. L'attenzione dell'Occidente civilizzato deve
concentrarsi, come un laser, sui delitti dei nemici ufficiali, non su
quelli per i quali potrebbe fare qualcosa o persino porvi fine.
L'imbarazzo suscitato dalla possibilità che qualcuno paragonasse i due
casi, di Timor-Est e del Kuwait, svanì ben presto; ed e
comprensibile visto che si tratta di uno dei tanti esempi che provano il
totale cinismo delle posizioni ufficiali assunte durante la
guerra del Golfo. Ma qualche difficoltà emerse di nuovo, nel novembre del
1991, quando l'Indonesia commise lo sciocco
errore di perpetrare un massacro nella capitale di Timor, Dili, sotto gli
occhi delle telecamere e di picchiare duramente due
giornalisti Usa, Alan Nairn e Amy Goodman. Fu uno sbaglio al quale Giakarta
rimedio, come sempre in questi casi: un'inchiesta
per occultare le atrocità, una bacchettata sulle dita delle autorita, una
punizione minima ai subalterni ed applausi scroscianti dal
"club dei ricchi" di fronte a queste impressionanti prove che l'Indonesia,
il nostro cliente "moderato", sta compiendo ulteriori
progressi verso la democrazia. Il copione, consueto fino alla noia, venne
eseguito alla lettera. Intanto i timoresi vennero
condannati a pene durissime e l'atmosfera di terrore si fece ancora più cupa.
Gli affari con l'Indonesia continuarono come sempre. Alcune settimane dopo
la strage di Di1i, l'autorità congiunta
indonesiana-australiana firmo sei contratti di esplorazione petrolifera
nella Fossa di Timor, e poi altri quattro a gennaio. Alla
meta del 1992 venne annunciata la firma di undici contratti con 55
compagnie, australiane, inglesi, giapponesi, olandesi ed
americane. Qualche ingenuo potrebbe chiedere quale sarebbe stata la
reazione se 55 compagnie occidentali si fossero unite
all'Iraq nello sfruttamento del petrolio kuwaitiano, anche se l'analogia e
imprecisa, visto che le atrocità di Suharto a Timor-Est
sono state cento volte peggiori di quelle commesse in Kuwait. Quello stesso
anno la Gran Bretagna aumento le sue vendite di
armi all'Indonesia e nel mese di gennaio annuncio il suo proposito di
vendere a Giakarta una nave da guerra. Mentre le corti
indonesiane condannavano a pene di quindici anni i "sovversivi" timoresi,
accusati di "aver provocato" il massacro di Dili, la
British Aerospace e la Rolls-Royce negoziavano un affare per milioni di
sterline relativo alla vendita di 40 caccia da
addestramento Hawk, che si andranno ad aggiungere ai quindici già in
servizio, alcuni dei quali già impiegati nella repressione a
Timor-Est. Contemporaneamente, l'Indonesia divenne oggetto
dell'interessamento di molte compagnie britanniche in quanto
offriva interessanti prospettive per le industrie aerospaziali. Mentre il
lieve imbarazzo scompariva, altri seguirono l'esempio della
Gran Bretagna.
Il "raggio di luce sull'Asia" del 1965-1966, con lo scintillio che ha
lasciato fino ad oggi, ha ben svelato la realtà degli atteggiamenti
ufficiali in materia di diritti umani e democrazia, i motivi che vi si
celano dietro e l’importante ruolo giocato in queste vicende dagli
intellettuali. Quegli atteggiamenti hanno mostrato in maniera altrettanto
chiara quanto sia pragmatico il criterio usato in materia di diritti umani
e di democrazia ad un punto tale da cancellare qualsiasi valore umano dalla
cultura ufficiale.
tratto da Noam Chomsky - Anno 501 la conquista continua - Gamberetti editrice
Archivio Web Noam Chomsky [it]
http://pages.hotbot.com/edu/chomsky.it
e-mail: chomsky.it@hotbot.com
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