Come sanno molti/e studenti della facoltà, in queste settimane si sta svolgendo un ciclo di seminari sull'opera ed il metodo didattico di Renzo De Felice.Non ci sarebbe niente di male, a patto che su come si studia la storia a scienze politiche si faccia una discussione seria!Il punto è che la questione di come si studiano certe cose non è nemmeno presa in considerazione e i risultati delle ricerche di De Felice sul fascismo sono assunte come dogma.
La storia, per i nostri Baroni, è storia istituzionale, studio di un susseguirsi di trattati tra potenze, indagine su come i "capi" hanno deciso a tavolino una impresa bellica. Già nell' ottocento uno scrittore straordinario come Stendhal, autore di un affresco storico come "Il rosso e il nero" raccomandava di non ridurre la storia alle gesta dei grandi condottieri, si può dimenticarsene?
Se ci è consentito, vorremmo avanzare una proposta di lavoro rifacendoci a quel metodo di lettura della realtà che è il "materialismo storico"; solo con esso si può arrivare ad uno studio dei processi storici che contempli tanto le fasi dello sviluppo economico capitalistico quanto lo scontro che ne deriva tra classi dominanti e classi dominate; solo con esso, di conseguenza, si può procedere a quella "rivoluzione didattica" fondata sul criterio interdisciplinare, sulla messa in discussione della separazione delle materie (in questa facoltà si studiano sociologia, economia politica e storia contemporanea senza che queste "ripartizioni" del sapere siano effettivamente collegate).
Quando critichiamo De Felice lo facciamo perché il suo metodo è del tutto funzionale ad una precisa operazione politica .I toni della sua opera su Mussolini, zeppi di omissioni (ad esempio sul colonialismo italiano e la sua politica di sterminio in Etiopia) caratterizzati da un uso scorretto delle fonti, sono un esempio di osservazione - talvolta critica, talvolta no- di un condottiero.
La parziale riabilitazione del fascismo di cui De Felice è artefice, il suo attardarsi nella ricerca delle ragioni dei "ragazzi di Salò" che nel bene o nel male, volevano salvare la patria divisa e in via di sfacelo sono legati da un tentativo di trovare un nuovo collante - quello patriottico- per un' Italia che destra e sinistra vogliono pacificata, privata del riferimento all' antifascismo e al conflitto come valori.
L'indegno gioco di "numeretti" ne "Il rosso e il nero" , dove si vuole mostrare il carattere minoritario della resistenza a partire dai dati delle questure sui partigiani ufficialmente organizzati (prescindendo, quindi, dallo sforzo di uomini e donne che hanno sostenuto la lotta in altre forme) , è teso a ribadire una cosa : gli italiani volevano la pace, il conflitto, di classe, politico ed ideologico non gli interessava.
Noi non ci crediamo: al libercolo propagandistico di De Felice preferiamo il testo omonimo di Stendhal; ad una lettura degli eventi come fossero le mosse di una partita di Risiko preferiamo la testimonianza delle spinte alla lotta delle classi subalterne, del divenire conflittuale che ha contraddistinto questo paese dal '43-'45 in poi.
A CURA DEGLI E DELLE
STUDENTI AUTORGANIZZATE E AUTORGANIZZATI DI SCIENZE POLITICHE
E DEL