MIRACOLO A MILANO:
considerazioni a partire da un corteo
"Ci basta una capanna per essere felici", cantavano Totò il buono e i suoi amici, abitanti nella baraccopoli immaginaria di una Milano zavattiniana. Giustizia per i processi, abolizione dei reati minori, depenalizzazione delle lotte sociali, si grida oggi in ogni corteo contro la repressione, ultimo quello del 26 settembre. Subito, appena uditi gli slogan che le/i compagne/i propongono, emergono notevoli perplessità che investono l’intera campagna antirepressiva portata avanti, nel segno della "depenalizzazione", dal Leoncavallo e non solo in questi ultimi anni. Non può non tornare in mente un dibattito svoltosi nella sinistra rivoluzionaria degli anni ‘70 a proposito di un tema spinoso: il garantismo.
1. La critica del diritto e l’equivoco della depenalizzazione.
Negli anni in cui i partiti della sinistra storica si contrapponevano in modo frontale ai movimenti, si ragionava su come conciliare il garantismo e le ragioni del rovesciamento dell’esistente. Si possono chiedere garanzie ad uno stato di cui si auspica la distruzione, in una lotta che -in prospettiva- non escluda nessun colpo? La risposta che venne data allora a tale quesito ci pare ancora attuale. Dal momento che non ci sono indifferenti le leggi e i vari provvedimenti repressivi adottati dallo Stato, non si possono escludere campagne specifiche in proposito. Tuttavia, l’opposizione ad un provvedimento non si colloca nel solco del "garantismo", ideologia di matrice liberale caratterizzata da un atteggiamento ambivalente nei confronti di istituzioni che si criticano in virtù della violazione dei diritti, salvo poi richiederne un rafforzamento di fatto nel nome della tutela di prerogative e garanzie. Calibrare, in determinati casi, una campagna contro una legge (ad es. la legge Reale) non vuol dire diventare "liberali conseguenti", ma trovarle una collocazione nella lotta rivoluzionaria, nella critica al diritto e allo Stato nel modo di produzione capitalistico.
Se prendiamo a riferimento l’attuale campagna per l’abolizione dei reati minori, non ci si può esimere dal criticare l’impianto teorico-politico che la sottende. Parlare di "depenalizzazione delle lotte sociali" suscita in noi non solo un legittimo sarcasmo, dato il paragone tra il conflitto e il consumo della marjuana, ma anche un’ovvia opposizione a una campagna che mira a porre argini preventivi al dispiegarsi delle lotte stesse. Se si chiede allo Stato di essere "neutro", di riconoscere che il conflitto esiste, vuol dire che si auspica un uso della "mano leggera" da parte di una controparte cui si offre, in cambio, la disponibilità a sferrare solo certi colpi e non altri. Forma e sostanza della lotta sociale sono predefiniti, per di più dentro il quadro delle compatibilità date. Non sono i rapporti di forza creati nel corso del conflitto a costringere il nemico a mutare atteggiamento, bensì la rinuncia a priori a modificare lo stato di cose presente. Portare avanti una "conflittualità compatibile" in una fase che vede il superamento del dettato della Carta del ‘48 (per la quale la lotta di classe, entro certi limiti, poteva promuovere lo sviluppo e la democrazia), significa rinunciare a propugnare lotte su bisogni tanto essenziali (casa, servizi, ecc.) quanto incompatibili nella attuale fase dell’ordine capitalistico. Il "conflitto" si andrà, quindi, a consumare attorno al nodo dello "spazio" per farci sfogare, noi giovani che dobbiamo esprimerci, perdendo ogni connotazione classista. Lo dimostra anche il lato "tecnico" della campagna per la "depenalizzazione". La tipologia dei reati definita è tutta interna alle nostre attività, poco legata alla repressione di chi, ad esempio, pone in essere un momento conflittuale nel luogo di lavoro. Si parla di "difesa degli spazi", ma "la libertà non è star sopra un albero"...
2. Violenza sui corpi e monopolio dell’uso legittimo della forza.
Forse alla base di tanti equivoci (o di tante scelte) sta una mancata considerazione di quello che è lo Stato capitalistico oggi, di cosa vuol dire una "attività repressiva" che non è dovuta alla cattiveria di singoli magistrati o governanti. Un aspetto saliente dello stato contemporaneo fu definito, osservando fenomeni connessi alla prima guerra mondiale, già da Max Weber, che parlò di "monopolio dell’uso legittimo della forza". Di fronte alla "mobilitazione totale" portata avanti da tutti gli Stati in guerra e rispetto alla "coscrizione obbligatoria", Weber rilevò come, per la prima volta, lo Stato arrivava a disporre totalmente della vita e della morte dei suoi cittadini, al di là di ogni "petition of rights" definita nella fase ascendente della borghesia, quando questa classe si scontrava con l’assolutismo chiedendo garanzie per sé e per il libero commercio. Al di là delle bandiere nere, rosse, a stelle e a strisce e delle forme adottate, "dittatoriali" o "democratiche", il principio del totalitarismo sta proprio in questo controllo assoluto che lo Stato esercita sui corpi. Questa verità, semplice e sconvolgente, è stata espressa da un pensatore borghese più lucido, nell’analisi, di tanti pseudo-marxisti volti a rintracciare la coesistenza, negli Stati dei paesi a capitalismo avanzato, di un principio democratico più vicino al proletariato e di uno "più autoritario" legato alle forze reazionarie e al grande capitale. "The world won’t listen" può affermare chiunque sostenga un po’ di verità ed infatti c’è stato nella "Sinistra" chi, sulla scia dei teorici di cui sopra, ha adombrato l’esistenza di un doppio-stato, dal Parlamento buono e dai poteri occulti cattivi. In realtà "lo smembramento di ogni ramo ed apparato di Stato (esercito, polizia, amministrazione, giustizia, apparati ideologici) in reti formali e apparenti da una parte, in nuclei stagni, strettamente controllati dal vertice dell’esecutivo, dall’altra, e lo spostamento costante dei centri di potere reale dai primi ai secondi", è una tendenza fondamentale dello Stato contemporaneo, nel quale si ha "un’effettiva trasmutazione del principio della pubblicità in principio del segreto" (Nicos Poulantzas, "Problemi attuali della ricerca marxista sullo Stato", 1976). Il Parlamento fa le leggi, anche "belle", ma l’apparato materiale reale dello Stato persegue, nel suo effettivo "monopolio della violenza sui corpi", logiche proprie, anche al di là della sua stessa norma scritta.
3. Una questione di continuità, una guerra civile.
C’è un film che, più di scritti anche recenti sul tema della continuità dello Stato (si pensi all’interessante "Il nemico interno" di Bermani), rivela la persistenza di un apparato statuale che, immutato nei caratteri di fondo, attraversa le fasi liberale, fascista, repubblicana della storia d’Italia. E’ "La villeggiatura", dramma didattico in senso brechtiano, in cui si distingue -per quello che concerne il periodo fascista- tra l’aspetto transitorio legato alla ferocia dei gerarchi e la solida e robusta realtà di una burocrazia che, proveniente dalla fase liberale, già si preparava per la futura democrazia. Non si trattava di un banale riciclaggio, poiché il personale amministrativo dello Stato era consapevole di collocarsi in quei meandri dell’apparato che costituiscono lo "zoccolo duro" e l’intima sostanza di un potere statale che può assumere tutte le tinte che vuole. Il problema, dunque, non è quello dell’amnistia ai fascisti, a meno che non si vogliano confondere gli effetti con le cause, attribuendo alla volontà soggettiva di padroni e classe politica l’insano gesto che ha portato i quadri del fascismo a rimanere a galla, contrastando i movimenti sociali dall’alto della propria responsabilità istituzionale. Se si assume la categoria di "guerra civile" come chiave di lettura di più di 50 anni di storia italiana, contrassegnati dalla spinta delle classi subalterne al superamento del patto costituzionale del ‘48, se si vede, materialisticamente, nello Stato una parte in causa del conflitto, si possono superare alcuni "sfondoni" teorici. L’amnistia ai fascisti non corrispose a nessuna volontà soggettiva, ma alla necessità dello Stato di mantenere la propria continuità, di perpetuare se stesso e l’ordine sociale cui si è sempre legato, contrapponendosi con ogni mezzo necessario e al di fuori della legalità cartacea all’offensiva operaia. La Costituzione fondata sulla eguaglianza nel nome della condizione di lavoratore (maschio) salariato e i questori ex fascisti sono due aspetti della stessa realtà. La classe proletaria non poteva appellarsi alla "democrazia", dal momento che la sua azione, quando sfuggiva al controllo di partiti e sindacati, minacciava gli equilibri che la Carta del ‘48 avallava.
4. Il capitalista ideale collettivo e il monopolio della decisione.
La continuità dello Stato è la condizione affinché esso adempia alla sua funzione di "capitalista ideale collettivo". Lo Stato è un ente che tutela non l’interesse di questa o di quella frazione del capitale, bensì del modo di produzione capitalistico nel suo complesso. Esso costituisce sia il luogo della sintesi della volontà di tutti i capitali, sia, come annota Engels, l’ente che difende il capitalismo dagli attacchi tanto di parte operaia tanto dei singoli capitalisti presi dal loro "particulare". Lo Stato, quindi, non è l’oggetto nelle mani di questo o di quel gruppo di capitalisti, poiché se così fosse basterebbe scalzare una classe dirigente per appropriarsi di una "macchina" in sé neutra, tale da essere riempita dai contenuti di chiunque la prenda in mano. Meno che mai è l’hegeliano ordinatore della società civile, l’organo superpartes che interviene nel conflitto tra le classi definendo le regole del gioco, imponendo la giusta misura alla lotta e magari "depenalizzando" le infrazioni di chi promette di comportarsi bene... E’ proprio vero che conoscere alcune "categorie-base" ci può aiutare a non cadere, al di là delle nostre intenzioni, tra le braccia del nemico. Tuttavia, non possiamo evitare di porci un problema, ancora insoluto. Abbiamo usato il presente storico nel riprendere la nozione di Stato adottata nell’"Antiduhring", ma fino a che punto le trasformazioni in atto nel mercato mondiale sono riuscite a modificare ruolo e funzioni dello Stato? Se questi non detiene più il "monopolio della decisione", nel senso che la sfera economico-produttiva si sottrae progressivamente -a causa del carattere transnazionale delle imprese- al suo controllo, come può esercitare la funzione di mediazione tra le volontà dei singoli capitali? Che tipo di redistribuzione di mansioni si ha tra Stato e organismi finanziari sovranazionali?
Riflettere su certe questioni non è una perdita di tempo, tra una passeggiata e l’altra nei centri storici delle nostre città. Cercare risposte può aiutare a contrastare...
5. ...il leninismo caricaturale dei soviet dell’intellighenzia di massa.
Capire quali sono le funzioni ancora spettanti allo Stato e quali no, qual è il suo effettivo intervento in favore dei processi di valorizzazione del capitale, può tornarci utile a confutare le tesi di Negri e dei suoi cloni sparsi in tutta Italia. Per Negri il potere statale si regge sul nulla, lo Stato-nazione è in via di superamento, il comunismo è addirittura ad uno stadio avanzato. Le amenità negriane si fondano sul presunto superamento della legge del valore/lavoro, in base al quale il capitalismo non avrebbe più una ragion d’essere tecnico-produttiva, riducendosi a puro dominio, da esercitarsi per mezzo di uno Stato reso logoro anche dall’incedere dei processi di transnazionalizzazione del capitale. Niente di più facile, di fronte ad un potere che si erige sul niente, che dare una spallata al tutto, appropriandosi delle leve del comando a partire dai parlamentini locali. I passaggi tornano tutti. C’è un soggetto, di fatto il lavoro autonomo, che detiene il general intellect, nel senso che in esso, nella sua attività è avvenuto quell’incontro tra lavoro e potenze mentali della produzione che, per Marx, coincide con il comunismo. Questo soggetto deve crearsi una propria rappresentazione politica, giungendo a detenere il potere a livello locale per poi assumere il controllo del resto in un contesto che vedrebbe l’esaurimento della funzione dello Stato ed il sorgere, dal collegamento tra i "soviet" locali, della "libera associazione dei produttori". Tutto è a portata di mano per un lavoratore non solo non subordinato, ma indispensabile ad un processo produttivo che di fatto determina, introducendo modificazioni continue con la "sola forza del pensiero".
In pochi giorni, anche meno di dieci, si può prendere il potere facendo leva sugli istituti della democrazia rappresentativa locale trasformati per l’occasione in Soviet. La nuova "massa di manovra" per l’"ingegneria dei movimenti" di Negri and company non è più costituita dall’operaio massa, neanche dal meno definito "operaio sociale", bensì da un soggetto che, con la sua creatività, è l’unica "forza produttiva", l’unico motore dello sviluppo. Nel suo cammino verso una trasformazione politica conseguente alla trasformazione che il nuovo soggetto-guida induce nella produzione, esso pone in questione l’assetto dato, il potere costituito. Esso è il "potere costituente".
6. La questione del "potere costituente".
Nella gigantesca costruzione negriana, un Marx reso cantore delle "magnifiche sorti e progressive" convive con un Lenin dimentico della rottura con la macchina statale borghese e adattato a profeta visionario, alla stregua di un Philip K. Dick o di un Ray Bradbury volti in "positivo", "liberati", cioè, dalla dimensione apocalittica propria della migliore fantascienza. Rilevarne le contraddizioni interne non basta, occorre aggredire l’uso che "il professore" fa di concetti come il potere costituente. Se, come ha sostenuto Schmitt ne "La dittatura", il potere costituente consiste nella continua spinta alla trasformazione dell’ordine dato, degli equilibri consolidati, occorre impadronirsi di questa categoria non lasciandola nelle mani dei negriani o dei revisionatori (da destra) della Costituzione. D’altronde, di fronte alle riforme istituzionali, le possibilità di azione non si possono ridurre alle due attualmente in campo: a) il silenzio totale; b) il rimpianto di una Costituzione che -si dice- garantiva qualcosa. C’è bisogno di una terza direzione, non necessariamente coincidente con la proposta di modelli istituzionali astratti, definiti in qualche laboratorio politico.
A fronte del fatto che le istituzioni sono ormai sorde rispetto ai bisogni più elementari, con la incapacità dei partiti di "difenderli" incanalando le lotte in direzioni compatibili, occorre ribadire il valore della autorganizzazione. L’unica "democrazia" che conosciamo, l’unica possibile, è quella che si sperimenta nelle lotte. Quanto al "potere costituente", anche esso sta nei momenti di conflitto, non nelle stanze di partito ove ci si diletta in ingegneria istituzionale. Queste, in parole povere, sono le indicazioni -semplicissime- che occorre dare.
7. Che fare?
Anzitutto lottare. O meglio, costruire attraverso il lavoro capillare e quotidiano le condizioni per essere interni a quei conflitti che scaturiscono non dalle volontà soggettive ma dalle contraddizioni oggettive. Inoltre occorre:
a) capirci qualcosa, poiché non siamo in grado di leggere le trasformazioni che stanno intervenendo, soprattutto per quello che concerne il rapporto tra i singoli stati e organismi politici quali il FMI e la Banca Mondiale;
b) utilizzare i momenti giusti per dire quello che si pensa. Il circo Barnum delle elezioni può essere un momento di visibilità per certi discorsi, a partire dalla rivendicazione di un "astensionismo strategico". Dire "non votare, lotta" non ha carattere residuale; residuale sarà semmai chi non si accorge che il mutamento introdotto con il maggioritario non permette nessun uso tattico delle istituzioni rappresentative.
Meglio meno, ma meglio si diceva un tempo. D’altra parte, chi non si pone nell’ottica di associare ad un lavoro militante spesso oscuro una solida attività teorica corre il rischio di ritrovarsi in altri lidi. Proviamoci o ci ritroveremo come i barboni della bellissima favola di De Sica e Zavattini, costretti a cercare rifugio nella fantasia, alla ricerca di "un mondo dove buongiorno voglia dire veramente buongiorno".
COLLETTIVO POLITICO ANTAGONISTA UNIVERSITARIO
Settembre 1998
COLLETTIVO POLITICO ANTAGONISTA UNIVERSITARIO