Guerra civile e continuità dello Stato
L'affermarsi nel dibattito storiografico di posizioni sempre più scopertamente revisioniste deve indurci a riflessioni serie. Liberi da ogni retorica e da ogni difensivismo dobbiamo cercare di comprendere a un tempo la finalità politica degli attuali tentativi di rilettura della storia del paese e i motivi della debolezza dell'opposizione al verbo revisionista imperante. Sul primo aspetto si è d'accordo tutti; con varie sottolineature ci si richiama alla necessità di procedere ad una rilettura delle pagine più tormentate della nostra storia sanando le fratture, rendendo - equivocamente - omaggio a tutte la fazioni. Si sta procedendo, in questi mesi, alla stesura di un nuovo patto costituzionale, un patto contrassegnato dal venir meno della discriminante antifascista e, soprattutto, dal passaggio dalla repubblica fondata sul lavoro alla repubblica fondata sulla centralità dell'impresa. Come non suggellare questo trapasso con un'adeguata rimozione di momenti scomodi e non recuperabili in un'ottica di pacificazione nazionale? Sono le conseguenze del Patto di produttività tra capitale e lavoro affermatosi m Italia dalla ricostruzione in poi. La carta costituzionale del '48, con la sua insistenza sull'utilità sociale della proprietà e sulla nazionalizzazione di settori rilevanti dell'economia, con il suo riconoscimento del conflitto e con il ruolo che assegna a partiti e sindacati, è vista come strettamente legata ad una fase ormai definitivamente consumata, la fase fordista. Invero, la definizione di costituzione fordista, attribuita alla carta del '48, ha suscitato le perplessità legittime di più d'un dottrinario del diritto costituzionale. L'invocazione del potere costituente sulla base del mutamento effettivo, innegabile, del sistema produttivo (della "costituzione materiale" ha trovato dei censori soprattutto "a sinistra", tra quei giuristi battaglieri che vedono nella carta costituzionale qualcosa di inviolabile, un sistema di principi e di precetti trascendenti qualsiasi contingenza storica. Contro l'idea di una autentica revisione costituzionale si scagliano anche coloro che, non nascondendosi i mutamenti intervenuti nella sfera produttiva e nelle condizioni della vendita della forza lavoro, cercano di opporre un argine alla precarizzazione. Così, si sente parlare della estensione anche ai lavoratori atipici delle garanzie dello statuto dei lavoratori, della ridefinizione del welfare a partire non più dalla figura del lavoratore della fase fordista, ma dal soggetto precario dei nostri giorni e dalla sua esigenza di reddito a prescindere dalla prestazione lavorativa.
C'è un aspetto di profonda debolezza in tutte le posizioni che non colgono la differenza tra uso di un argomento ("la difesa dei valori della costituzione") in termini dissuasivi rispetto ai disegni dell'avversario e convinzione della possibilità di frenare i processi storici. No, non si vuole essere né deterministi, né fatalisti, si vuole richiamare ad un fatto: solo se si collocano anche le battaglie più difensive in una ottica che tenga conto di quello che si sta trasformando attorno a noi, si può pensare di opporsi, di contrastare il nemico. Ciò vale sia quando si deve controbattere alla eliminazione di garanzie sociali cui siamo sottoposti, sia quando si deve contrapporre alla lettura della storia da parte dei vincitori una "memoria di parte".
Come non ci si può attardare nella contemplazione dei bei tempi in cui si attuava una costituzione che, secondo le mitologie di certa sinistra, non ci avrebbe dato tutto quello che prometteva, così non si può, nel ricostruire la memoria delle classi subalterne di questo paese, nascondere gli aspetti che non ci piacciono. Ha avuto ragione, in tal senso, "la Stampa" a definire "Il re, Togliatti e il Gobbo" di Corvisieri, un libro a suo modo revisionista. Ciò non rimanda ad una collocazione dell'opera nell'ambito delle tendenze revisioniste attualmente dominanti, ma alla spregiudicata lettura che in essa si può ricavare del fenomeno resistenziale a Roma, indagato nelle sue zone d'ombra, nei suoi conflitti interni, nella sua contraddittorietà. Proprio da una lettura edulcorata della Resistenza trae la sua origine ultima quello che chiamiamo revisionismo. E' negli anni del primo centro-sinistra, lo evidenzia Cesare Bermani, che si afferma una visione della Resistenza stessa come fallo puramente nazionale, al di fuori di qualsiasi connotato classista.
Se il "lato cattivo" che determina la dinamica storica viene cancellato, se la liberazione della nazione dall'invasore tedesco diviene unico ed esclusivo valore di riferimento, pochi sono i passi da fare per arrivare al riconoscimento di chi ha scelto la parte sbagliata (Salò) per difendere l'ideale giusto (la patria). Ma negli anni del centrosinistra non si ha altro se non l'esplicitazione totale dei motivi che hanno caratterizzato la lettura che la sinistra (il Pci più del Psi) ha dato del '43-'45 sin dagli anni successivi alla liberazione. AI "Secondo Risorgimento" in cui la classe operaia avrebbe partecipato al compimento degli obiettivi non realizzati dalla borghesia nel 1861, fanno riferimento storici come Roberto Battaglia, maestri nell'occultare pezzi di Verità (come il ruolo di Bandiera Rossa nella Resistenza romana). Ad una lettura in cui il proletariato si fa nazione viene piegato tutto, incluso il "sovversivismo" dei settori subalterni, il loro anelare ad una insurrezione vista come obiettivo non troppo lontano. La storiografia ufficiale, quella di marca togliattiana in primo luogo, si qualifica come idealista-stalinista. Nel suo cancellare le spinte sovversive presenti in seno alla classe operaia, riconduce tutto alle posizioni del vertice del movimento operaio organizzato, senza dire nulla sull'"ambiguità" che sempre contraddistingue il rapporto tra i settori sociali subalterni e le istanze organizzative che ne esprimono interessi e progettualità. Nel suo rifarsi alle sole posizioni di vertice, allo scontro tra correnti politiche in seno al partito, questa storiografia non si preoccupa di ricollegare le opzioni che si esprimono nel dibattito alle esigenze di una specifica composizione di classe (o di suoi particolari segmenti).
I primi tentativi di rottura con questo impianto portano, per fare un esempio, De Caro e Coldagelli (sul numero 3 dei Quaderni rossi) a criticare l'idealismo della storiografia ufficiale del Movimento Operaio, rinfacciandogli di non saper leggere le fasi storiche come fasi di sviluppo del capitalismo, di non saper fare la "biografia del capitalista collettivo". Come sottolineò Negri, nella sua acuta analisi dello straordinario "L'altro movimento operaio" di Karl Heinz Roth, questa critica si muoveva ancora sul piano strutturale, non evidenziando la componente soggettiva dei processi storici. Qui sta il punto: occorre saper coniugare allo studio delle trasformazioni strutturali, la ricostruzione della memoria della classe stessa, nei suoi momenti di autonomia come in quelli di apatia. Ciò non può che tradursi nel superamento della tradizionale divisione dei saperi, in un uso di tecniche empiriche che rimandi ad uno stretto rapporto tra l'attività storiografica e le scienze sociali.
L'uso delle fonti orali si colloca perfettamente in questo discorso ed è funzionale ad una ricostruzione della memoria che sappia rendere conto di come una classe abbia vissuto certi eventi, leggendoli attraverso il filtro costituito dalla sua percezione di sè (dalla sua coscienza). Ricostruire una memoria dal basso, sottoponendo a raccolta e ad esame le produzioni culturali proletarie, non vuol dire essere (secondo la felice espressione di un militante di A.O riportata da Montaldi in "Esperienza operaia o spontaneità") "adoratori della merda proletaria". Vuol dire semmai saper comprendere come una classe subalterna si sia opposta alla cultura dominante, come abbia opposto la sua "opacità operaia" (E.P. Thompson) alla ideologia dell'avversario. Combinare i due livelli, coniugare la "biografia del capitalista collettivo" con la ricostruzione storica dal basso e attraverso le fonti orali, è il solo modo che abbiamo per comprendere la specificità italiana, il modo particolare, cioè, in cui tendenze che hanno riguardato tutti i paesi a capitalismo avanzato si sono espresse in questo.
La mancata epurazione, il fatto che il personale politico ed amministrativo dello Stato fascista si sia riciclato nella cosiddetta Prima Repubblica, è la forma attraverso la quale si è espressa la sostanziale continuità dello Stato italiano. Continuità che rimanda all'insieme dei nodi non sciolti dalla guerra civile del '43-'45, al mancato trapasso verso un'altra società, al mantenimento alla guida del paese dello stesso blocco economico e sociale che aveva visto nel fascismo, coi suoi caratteri di controrivoluzione preventiva e di cooptazione in senso autoritario della forza-lavoro, una fase necessaria al mantenimento del suo dominio. Se il Patto costituzionale del '48 non ha esaurito le potenzialità espresse dal conflitto innescatosi nel '43, è alla categoria di "guerra civile" che occorre rifarsi per leggere 50 anni storia italiana.
La guerra civile tra le classi subalterne ed uno Stato tutt'altro che neutrale, ha attraversato talora in modo strisciante talora in modo aperto (come negli anni settanta) l'intero percorso della Prima Repubblica. Non ha molto senso, a questo proposito, fare riferimento ad un "Doppio Stato", ad uno Stato con due facce, parallele e quasi confliggenti.
Nessuno "Stato parallelo" ha frenato l'attuarsi del dettato costituzionale. Come ricordato sempre da De Caro-Coldagelli i valori del CLN (e quindi quelli espressi nella carta del dopoguerra), inattuali e anticipatori negli anni immediatamente successivi al conflitto mondiale, si sono rivelati adeguati alla fase del sistema produttivo inauguratasi in Italia sul finire degli anni '50, caratterizzata dalla fine della centralità dell'operaio professionale ed affiancata dalla promozione del consumo operaio.
L'esistenza di un livello parallelo, discrezionale della attività dello Stato è una caratteristica portante dello Stato contemporaneo, in Italia resa più evidente dalla asprezza del conflitto sociale e dal permanere di elementi di "sovversivismo" nelle classi subalterne. Quando Fraenkel parlò di doppio Stato a proposito del regime nazista si collocava, correttamente, sul terreno descrittivo ed alludeva al fatto che nella Germania degli anni '30 da un lato la legge interveniva su tutto, codificando ogni aspetto della vita dei cittadini, dall'altro attuava pratiche persecutorie al di fuori della stessa norma scritta.
Ciò rimanda ai caratteri del totalitarismo contemporaneo, totalitarismo che -come ha ben espresso Losurdo intervenendo nella polemica tra Ingrao e Canfora sui paesi dell'est - non è tratto distintivo del fascismo o del socialismo reale. Di fronte al fenomeno della coscrizione obbligatoria (durante la prima guerra mondiale) Weber fu indotto a parlare di Monopolio dell'uso legittimo della forza esercitato dallo Stato contemporaneo. Lo Stato poteva disporre come non mai delle vite e dei corpi dei suoi cittadini, al di là di qualsiasi norma scritta. E' in questo "monopolio della violenza sui corpi" che risiede, come evidenzia Losurdo, il connotato principale di un totalitarismo presente, in nuce, in tutti gli Stati al di là del loro eventuale carattere democratico.
Se per doppio Stato si intende, a livello descrittivo, la coesistenza di un testo scritto che prevede alcune garanzie e di un apparato materiale dello Stato che va in una direzione apparentemente contrastante, si può anche usare questa espressione. Se invece si vuole alludere al fatto che di Stati ve ne sono due, uno democratico, l'altro meno, la si può evitare.
Il laboratorio italiano, dal '43 ad oggi, testimonia in modo esemplare linee di tendenza presenti, in varie forme, ovunque.
ASSEMBLEA-DIBATTITO
Mercoledi 22 aprile, ore 16.30
Sala teatro della Casa dello studente, via Cesare De Lollis 20.
Commissione "Storia sociale" - Collettivo politico antagonista universitario