JOSE' BOVE': L'ECOLOGISTA CHE RISCHIA 5 ANNI PER AVERE SMONTATO UN MCDONALD'S

(da La Stampa Mercoledì 28 Giugno 2000)

«Saranno condannati i miei nemici»
«Alla sbarra finirà l'arroganza delle multinazionali
Renato Rizzo

MILLAU - A volte le coincidenze sono sorprendenti incroci d'evocazioni. E, così, appare quasi naturale che José Bové riunisca il proprio stato maggiore in un edificio affacciato su rue des Jacobins. Lui, il duro e puro della rivolta antiglobalizzazione, asserragliato in quest'angolo di Millau che richiama l'intransigenza di Robespierre e di Saint-Just. Le battaglie e i riflettori di palcoscenici internazionali hanno fatto sbiadire lo stereotipo dell'Astérix un po' gaglioffo e sbruffone dei fumetti antimperialisti: oggi il magazine americano Business Week inserisce l'allevatore francese tra le «50 personalità che, assumendosi importanti rischi, hanno saputo impersonificare il nuovo dinamismo europeo». Come si sente, Bové, nella veste di global leader? Ne ha fatta di strada quel ragazzo un po' anarchico che a 20 anni s'era insediato in un vecchio cascinale con 5 amici forse più
per sfuggire alle attenzioni dei gendarmi, dopo l'attacco ad una caserma, che per velleità ecologista. Lui sbuffa e borbotta: «Storie. Io da solo non sono nessuno. E' l'insieme che conta: in quell'elenco avrebbero dovuto inserire l'intero movimento antiglobalizzazione».Venerdì in questa piccola capitale del Sud-Aveyron avrà inizio il suo processo. Come vive l'attesa? Con più ansia o con più orgoglio?«Semplicemente con la certezza di non essere colpevole, anche se la giustizia sostiene il contrario».
Ma l'attacco a McDonald's lei l'ha compiuto. E, anzi, il giudice, rinviandola a giudizio, ha sostenuto che il suo è stato un comportamento trascinante, da «capo».
«Ripeto. La nostra è stata un'azione legittima. Non avevamo altra scelta per protestare contro questo sistema che vuole imporre la «malbouffe», la cattiva alimentazione, al solo scopo di guadagnare avvelenandoci ed impoverendoci. Alla sbarra non andremo noi, ma l'arroganza delle multinazionali. E noi, gli imputati, saremo i giudici di chi ci accusa».Quale sarà la vostra difesa?
«Trasformare il giudizio in un processo alla mondializzazione e alla repressione sindacale. Ecco perché abbiamo convocato testimoni dall'intero pianeta: porteranno qui la loro esperienza di oppressi».Assieme a loro scenderanno a Millau migliaia di persone che vogliono offrirle appoggio, ma che potrebbero anche covare desideri di rivolta. S'annunciano possibili disordini. Lei li teme o, magari, ci spera?«Tutti ci auguriamo un'eccellente festa di popolo. Perché i signori della globalizzazione si rendano conto che, come è accaduto a Seattle, a Washington, a Davos, a Genova e a Bologna, non potranno più fare le loro
riunioni senza che la gente scenda in piazza. A contestare, a bloccare una macchina che non sembra più invincibile. E a farsi carico del proprio avvenire senza firmare deleghe».
Lei sta vivendo una sorta di paradosso poltico-giuridico: è imputato in un processo nel quale rischia sino a 5 anni di carcere eppure Chirac e Jospin le hanno manifestato in qualche modo la loro solidarietà. Il primo ministro ha addirittura parlato di una «causa giusta». Come giudica questa simpatia?«La verità è che non hanno altra scelta. L'opinione pubblica francese è con
noi, ci segue, ci appoggia nella lotta. Perché gli Ogm e la carne con gli ormoni non li vuole nessuno. I politici fiutano il vento, capiscono al volo, colgono gli "obblighi": ecco da dove arriva il loro sostegno.Una delle sue parole d'ordine è che il Wto ha alzato un nuovo ordine mondiale grazie al ripiegamento della politica di fronte al mercato.«E' così. Guardiamo all'Europa: l'80% degli aiuti dell'Ue vanno al 20% delle imprese. Traduzione: si sostengono esclusivamente le grandi aziende. Come,
del resto, accade negli Stati Uniti. Noi vogliamo, invece, che l'agricoltura sia "di vocazione": che, cioè, ogni Paese possa fare le proprie scelte e seguire le proprie tradizioni. E questa dev'essere anche un'opzione politica. In Francia, poi, non possiamo dimenticare che la campagna ci ha salvati nei momenti peggiori. Oggi la guardiamo spopolarsi. Sgretolarsi, abbandono dopo abbandono, sotto la spinta delle multinazionali che dettano i prezzi. E' giusto? Io, noi, diciamo di no».McDonald's, bersaglio emblematico della vostra crociata contro la globalizzazione, non ha chiesto danni e non s'è costituito parte civile. Si
limiterà a chiudere i battenti del ristorante di Millau durante i giorni del processo. Lei che cosa dice, oggi, di quell'attacco?
«Fu, appunto, un'azione simbolica contro un cantiere: prima di farla ci assicurammo che, all'interno, non ci fosse nessun operaio. Le uniche nostre armi erano davvero leggere: semplici cacciavite per smontare i pannelli. Immagini lei che problema avremmo potuto creare». Ridacchia. Forse pensa a quello striscione che sarà teso all'ingresso della cittadina e che accoglierà la folla della protesta: «Benvenuti a Seattle sul Tarn». Un augurio, un suggerimento. Magari un problema, nato sulla punta d'una dozzina
di cacciavite.

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CAMBIARE LE REGOLE DEL GIOCO
Intervista a Jose' Bove'
(da Rouge n. 125, 29 juin 200)

Il 30 giugno e il 1 luglio scorsi Jose’ Bove’ e’ stato processato assieme ad
altri 9 militanti della «Confederation paysanne» francese per aver
semi-distrutto un McDonals’ nell’ambito della lotta che questa
organizzazione sta sviluppando contro lo strapotere delle multinazionali in
campo agroalimentare. A Millau, la localita’ in cui si e’ svolto il
processo, sono confluite per manifestare la propria solidarieta’ al leader
contadino decine di migliaia di persone, trasformando quell’appuntamento
nell’ennesima scadenza europea di mobilitazione contro la globalizzazione
neoliberista. Abbiamo colto l’occasione per chiedere a Jose’ Bove’ un parere
sulla repressione di cui e’ vittima, sulla lotta contro la rapina della
globalizzazione liberista, sul «nuovo internazionalismo», sui successi dell’
organizzazione di cui e’ portavoce.

Tu e Francois Dufour avete denunciato, in un vostro recente libro (Jose’
Bove’ et Francois Dufour, «Le monde n'est pas une marchandise», Editions La
Decouverte), le collusioni tra la tradizionale organizzazione degli
agricoltori francesi (la FNSEA) e lo Stato per imporre un’agricoltura
“produttivista”. Come ha fatto un’organizzazione come la vostra, che si
oppone a tale logica, a farsi spazio e ad acquistare legittimita’ nel mondo
contadino?

Jose’ Bove’ – Come qualsiasi altra organizzazione sindacale: quando la gente
si sente imbrogliata, capisce la logica di un apparato che dovrebbe
rappresentarla ma che nei fatti la tradisce e lavora per eliminarla. A
partire da questa prima presa di coscienza, la gente decide e si schiera. E’
in atto una presa di coscienza del mondo contadino sul modo di lavorare e
sulle modalita’ con cui lo si sfrutta, e contemporaneamente su come
difendersi collettivamente contro le multinazionali, le banche, lo Stato.

A proposito della repressione che vi ha coinvolti, e che tocca anche i
sans-papiers o i disoccupati, voi parlate di “criminalizzazione” del
movimento sociale…

J. Bove’ – Penso che cio’ sia dovuto innanzitutto ad un clima sociale
rispetto alla cui creazione lo Stato ha delle pesanti responsabilita’. I
movimenti sociali e le organizzazioni che li rappresentano sono sempre meno
tenuti nella giusta considerazione. Si passa sempre piu’ spesso sopra la
loro testa. Il secondo aspetto riguarda poi una deriva propria del corpo dei
magistrati, che tendono ad essere sempre piu’ repressivi nei confronti dei
piccoli crimini, senza mai occuparsi seriamente di problemi di fondo come il
traffico finanziario o le grandi reti di riciclaggio del denaro. A questo
proposito, si tratterebbe di avviare una seria riflessione nelle
organizzazioni dei magistrati e in seno al ministero della Giustizia,
affinche’ si giunga ad un’altra concezione della giustizia e del suo
rapporto con la societa’.

Che legami vedi tra la tua battaglia di sindacalista in Francia e le lotte
che si stanno sviluppando a livello internazionale, con i contadini del Sud
del mondo o i sindacalisti del Nord America per esempio?

J. Bove’ – Oggi, la lotta contra la globalizzazione liberista non puo’
essere corporativista. E’ una battaglia dell’insieme di quei settori della
societa’ che sono vittime di questa forma di globalizzazione. E’
indispensabile cambiare le regole del gioco. A livello contadino per
esempio, abbiamo creato una struttura internazionale, “Via campesina”.
Raggruppa contadini di tutti i continenti, che si battono insieme per gli
stessi obiettivi. In Europa, cio’ significa combattere la politica agricola
comune (PAC), gli squilibri che provoca e le sue ingiustizie. In Sud
America, la stessa battaglia passa per la lotta per la riforma agraria e
contro le multinazionali che espellono centinaia di migliaia di contadini
dalle proprie terre per monopolizzare la produzione agricola.. E’ una
battaglia globale, non solamente rurale: durante la manifestazione di
Seattle, l’AFL-CIO (la principale centrale sindacale staunitense) ha
accettato che alla testa del corteo vi fosse un contadino per ogni
continente.

Si parla sempre piu’ spesso di “nuovo internazionalismo”: condividi questa
formula e su che basi pensi possa fondarsi?

J. Bove’ – La condivido nella misura in cui cio’ che noi abbiamo messo in
piedi e’ gia’ una forma di nuova Internazionale contadina. E’ la prima volta
che cio’ avviene. Ancora oggi, piu’ del 50% dell’umanita’ vive di
agricoltura. Raccogliere i contadini del mondo intero attorno ad un progetto
globale di produzione agricola, contro le multinazionali, che permetta alla
gente di vivere della propria produzione e di sfamare le proprie
popolazioni, e’ un modo di mettere all’ordine del giorno un’ipotesi di
ordine economico diverso, portatore di nuove modalita’ di scambio tra le
persone. E’ la stessa forma di internazionalismo che si sta mettendo in
campo sul terreno sindacale e attraverso le reti di collegamento dei
movimenti sociali che lottano contro la mondializzazione. E’ un
internazionalismo che si costruisce con modalita’ differenti, ogni soggetto
a partire dalla propria specifica realta’, ma che e’ in grado di provare a
proporsi obiettivi comuni di corto ma anche di lungo periodo, al fine di
trasformare il mondo.

Fra poco in Francia si svolgeranno le elezioni per le «Camere dipartimentali
dell’agricoltura». Come vi presenterete?

J. Bove’ – La «Confederation paysanne» ha aumentato i propri consensi
soprattutto nelle regioni del Grande Ovest, proprio nelle regioni coinvolte
dalla crisi del modello produttivista, nelle regioni dove coloro che ne
erano fautori, gli allevatori in particolare, si ritrovano oggi ostaggi di
questo stesso modello, a causa del crollo dei prezzi e dell’indebitamento.
Ad esempio, in Bretagna la «Confederation paysanne» tallona da vicino la
FNSEA. Siamo primi nel dipartimento Loire-Atlantique; abbiamo il 35% nel
dipartimento della Manche… Di fronte ai nostri progressi, sono cosi’
aumentate le pressioni sul mondo contadino da parte della lobby
produttivista, molto potente, che comprende banche come il Credit agricole o
il gruppo assicurativo Groupama, ecc. In molte realta’, succede cosi’ che si
mette la scheda della «Confederation paysanne» nell’urna, ma non si ammette
pubblicamente il voto. Teniamo presente il fatto che molti responsabili di
dipartimento della FNSEA sono dei veri e propri “signorotti locali”, con
potenti armi di ricatto nei confronti degli altri contadini (primo fra tutti
il sistema creditizio…). In queste condizioni, la rottura con il
sindacalismo contadino dominante e quindi i nostri progressi passano
attraverso le lotte. E’ stato sulla base delle lotte contadine sviluppatesi
in queste regioni che si sono verificati i nostri progressi elettorali.

(traduzione di Alessandro Frigeri)
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58 MORTI A DOVER, QUANTI ALTRI ANCORA?
di Philippe Riviere
(tratto da Info-diplo - bollettino elettronico de Le monde diplomatique - 23
giugno 2000)

Dopo la tragedia di Dover, la “costernazione” domina le reazioni ufficiali.
La dichiarazione di Jack Straw, ministro dell’interno britannico, riassume
il sentimento dominante: la morte per asfissia di 58 cinesi clandestini,
trovati nel sottofondo di un camion durante un controllo di routine, e’
“assolutamente orribile”. Si prende coscienza brutalmente dell’esistenza di
“organizzazioni mafiose” che estorgono somme nell’ordine di 150.000 franchi
francesi per un passaggio clandestino dall’Asia verso l’Europa. E allora il
discorso slitta. Rapidamente, i responsabili della sicurezza evocano la
necessita’ di rilanciare la cooperazione tra le polizie europee per lottare
contro queste mafie. I mass-media sottolineano le minacce fatte ai familiari
delle vittime se queste dovessero parlare. L’ombra del crimine organizzato
plana sull’Europa. Alcuni citano senza troppe precauzioni cifre sui flussi d
’entrata di clandestini, altri spiegano che «e’ impossibile fare una lista
esaustiva (dei decessi di migranti), non sempre si conoscono questi
incidenti - oppure sono rivelati dopo settimane da quando accadono, dalle
famiglie dei dispersi che non hanno piu’ loro notizie».

Una settimana dopo la tragedia di Dover, l’associazione olandese United for
Intercultural Action aveva tuttavia pubblicato una lista dettagliata dei
decessi di questo tipo dal 1993 al maggio 2000 alle frontiere europee, lista
resa possibile da ricerche attraverso la stampa e dalle informazioni
provenienti dalle reti delle organizzazioni non governative. Questa lista da
una idea di una realta’ ugualmente “assolutamente orribile”. Vi sono
documentati piu’ di duemila casi. In sette anni: duemila persone annegate
nello stretto di Gibilterra, soffocate al momento dell’espulsione o nei
luoghi chiusi dove esse erano “trattenute”, suicidatesi dopo aver appreso
che veniva loro negato l’asilo, morte di freddo nella stiva di un Airbus,
buttate a mare dagli “scafisti” in fuga dalla guardia costiera…
Tutte storie eccezionali, tra la ricerca di migliori condizioni di vita e la
fuga davanti alla repressione. Ma, contrariamente alle idee piu’ diffuse,
questa non e’ “tutta la miseria del mondo” che cerca di sfuggire alla
poverta’ estrema. Questi immigrati sono originari di paesi con economie
intermedie - dove infierisce un’altissima disoccupazione -, e non dei paesi
piu’ poveri. In maggioranza hanno studiato e sono giovani. Ci sono donne
incinte. Sono le “forze vive” di paesi dove si vedrebbero confinare ai
margini, visto che non saprebbero come investirsi. Essi non aspirano che a
viaggiare, lavorare, fare nuove esperienze ed incontri. Sono lavoratori che
presentano grandi doti in “flessibilita’”, “mobilita’” e di “accettazione
del rischio” - qualita’ tanto esaltate dai discorsi neoliberali sull’
“occupabilita’”.

La politica di chiusura delle frontiere consiste nel limitare le possibilita
’ di entrare legalmente in Europa, e nell’impedire fisicamente gli ingressi
illegali. Questa politica non intacca il mercato nero del lavoro
(abbigliamento, edilizia e lavori pubblici, domestici in case di benestanti
in cui si pratica una nuova forma di schiavismo, mafie che reclutano
scafisti e prostitute). Essa ha invece come conseguenza di rendere piu’
pericolose le frontiere e di consegnare nelle mani dei moderni negrieri
numerosissimi immigrati.
Ma non si capisce che le persone rifiutate una prima volta dalla “fortezza
Europa” – quella dell’accordo di Schengen, della nozione di “paesi terzi
sicuri”, dei centri di detenzione per immigrati, della repressione dei
clandestini, ecc.- non si rassegneranno al primo fallimento rientrando nei
loro paesi? Che tenteranno, nella stragrande maggioranza, un secondo
tentativo e poi un terzo, accettando ogni volta nuovi e piu’ gravi rischi?

Una recente iniziativa di un esponente del governo australiano, Philip
Ruddock, sottolinea l’uso pernicioso che puo’ essere fatto dai governi
occidentali delle denunce dei pericoli mortali che corrono i migranti. Il
ministro australiano per l’immigrazione ha, infatti, distribuito a diversi
canali televisivi ( in particolare in Iran, Giordania, Siria, Turchia e
Pakistan) uno spot che “informa” i candidati all’immigrazione dei pericoli
che corrono: «coccodrilli e pescecani a fauci spalancate(…), deserti
inospitali (…), scorpioni» e sottolinea che «tutte queste informazioni sono
vere e che costituiscono una possente dissuasione contro il commercio
criminale della miseria umana».
Bell’effetto retorico, che fa della strada pericolosa un artificio per
individuare nelle difficolta’ a applicare il cosiddetto “dominio dei flussi
migratori” il solo responsabile di questi morti, e mostra i responsabili di
questa politica di “dominio” pieni di compassione verso coloro che vi si
sono intrappolati.

(traduzione di Cinzia Nachira)

tratto da: http://www.tatavasco.it/altromondo/boycott/bove.html



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