il
consolato canadese
più avanti di quel giorno, dopo quattro giorni a marcire, il console
canadese viene a farmi visita. il console americano aveva visto m. appena
ella arrivò all'ospedale, al centro di detenzione e ieri in prigione.
funziona solo per mostrare chi detiene il potere. vengo chiamata di sotto
e là c'è il console, sta in piedi ben pulito e affabile
nelle sue scarpe di disegno italiano. in seguito, quando saremo liberi
ed egli verrà a trovarci a milano, noi non avremo un soldo per
il pranzo e lui tenterà di prenderci in giro, penserà di
essere divertente quando dice che può vendere un paio di gemelli
per pagare da mangiare a quattro di noi. ma egli è il mio unico
contatto con d., con la mia famiglia, il mondo di fuori. dice proprio
che lui pensa che il nostro arresto è una giustificazione alla
militarizzazione di genova. sta per andare a fare visita a d. e la prima
cosa che gli dirà è che io lo amo. i miei genitori non sono
ancora stati informati. quel giorno mia madre riceverà un messaggio,
chiamare gli affari esteri a ottawa. ella pensa che io sia morta, loro
le dicono che sto in prigione. il console dice che mi farà visita
dopo un paio di giorni - un paio di giorni, io sto sperando di essere
libera entro un paio di giorni. successivamente quel pomeriggio ricevetti
un fax, che ho immaginato l'ambasciata avesse spedito nel caso in cui
non sarebbero potuti venire. esso recita: spero che tu stia guarendo dalle
tue ferite...la mia compagna di cella spagnola ricevette un fax dalla
sua ambasciata che diceva: quando sarai uscita, facci una chiamata.
l'udienza
nel pomeriggio
vengo chiamata per essere ascoltata. mi è consentito di parlare
due minuti con l'avvocato prima del processo. questa mi dice che sono
stata accusata di resistenza all'arresto, possesso di armi e di essere
parte di un organizzazione criminale denominata black bloc. di certo ciò
è ridicolo. sono sicura che gli sbirri mandano degli infiltrati
agli incontri del black bloc e perciò dovrebbero sapere bene come
è organizzato. le dico che non mi sento tranquilla di parlare e
che voglio scegliere di rimanere in silenzio. lei invece pensa sia meglio
che io parli ma non mi forza. il processo è veloce e siamo fortunate
ad avere un traduttore: gli uomini non l'hanno avuto. gli dico il mio
nome e il mio indirizzo e quante notti sono rimasta a dormire alla scuola.
mi fanno altre domande ma io rispondo - sono stata picchiata, arrestata
e detenuta illegalmente, torturata e psicologicamente non sono in grado
di parlare in questo momento, quindi scelgo di rimanere in silenzio.
il black bloc
aspetto
fino a sera per sapere i risultati del processo. le donne sono chiamata
ad una ad una e tutte tornano proclamando la libertà. finalmente
sono chiamata anch'io e i miei avvocati mi dicono che sono ancora accusata
- cosa? sono diversa dalle altre ragazze? siamo tutte ancora accusate
ma possiamo andare. mi consegnano dei fogli pieni di scrittura scarabocchiata
che sono obbligata a firmare. tutto quello che riesco a distinguere sui
fogli sono le parole BLACK BLOC. questo è un assurdità di
allarmismo morale. attenzione lì fuori c'è una minaccia
in cappucci neri, passamontagna e scarponi neri che verranno a buttar
giù le vetrine della tua multinazionale locale per poi scappare
via. ecco altre sfumature del nero...ragazzi neri che combattono sulle
strade di seattle, durante la notte, dopo che tutti/e gli attivisti erano
tornati a casa con le lacrime agli occhi. il nero del lutto delle vedove.
il nero delle bandiere che sventolano fuori dai villaggi della romania,
le fasce nere ricavate dai sacchi dalla spazzatura e legate attorno al
braccio di ragazzini vestiti in modo alternativo. nella doccia del carcere
cantai-... il "nome" della polizia che uccide ragazzi neri sui
motorini- il poster dice supporta il nostro black bloc locale.
il rilascio
dovemmo
aspettare altre cinque ore in cella attendendo che tutte passassero la
trafila burocratica. ci dissero di piegare le nostre lenzuola e prepararci
ad andare via ma noi aspettammo ed aspettammo sedute sui materassi di
gommapiuma. vediamo sul telegiornale che alcuni degli uomini sono stati
portati via dal carcere e nessuno sapeva che fine avevano fatto. altri
erano stati deportati nei loro paesi senza poter parlare con nessuno.
comincio ad avere paura e mi sento salire addosso l'ansia, comincio a
tirare in giro l'arredamento in plastica della mia cella. so che non siamo
libere. finalmente a mezzanotte sono presa e portata a prendere le mie
cose che sono rinchiuse in una busta, tutto tranne la banconota da cinquantamila
lire. ci dicono che c'e' un autobus della polizia che ci sta aspettando
e che possiamo prenderlo solo se vogliamo, ma in pratica non abbiamo scelta.
veniamo guidate fuori dai cancelli della prigione dove ci sono delle persone,
parenti e consoli che ci aspettano. l'autobus non si ferma e gli passiamo
davanti e io comincio a temere. quelli che ci aspettavano fuori salgono
in delle macchine e cominciano a seguirci mentre veniamo portate per un
ora fino alla stazione di polizia di pavia. li siamo tutte depositate
in una piccola stanzetta dove ci viene detto che verremmo tutte deportate.
l'atmosfera nella stanza diventa elettrica tutte cominciano ad urlare
e a fare domande. la piccola stanza è riempita da donne, sbirri,
consoli, figli e parenti. nessuno sa cosa fare.
tentativo di fuga
di fronte alla polizia
poi il console
inglese mi dice che c'è un ragazzo canadese nell'altra stanza.
io corro, irrompo tra le file degli agenti. eccolo lì, eccolo lì,
seduto lì, la sua voce è stranamente più lenta, più
dolce, più dura che sorride per evitare le lacrime. ci abbracciamo
e controllo che tutte le sue parti siano ancora lì - i suoi arti,
la sua pelle, le sue ossa piccole, cervello e muscoli tutto sta ancora
qui, punti sono stati aggiunti, capelli rimossi. ha un aspetto strano
nei vestiti donati dalla chiesa. ricordo adesso che i medici alla scuola
avevano dovuto tagliargli i pantaloni; per vedere se la gamba era rotta.
ci baciamo e la polizia mi tira per un braccio e cerca di riportarmi nell'altra
stanza. gli altri ragazzi assomigliano a vittime lobomitizzate in vestiti
di seconda mano, fischiano e urlano alla polizia - uno minento, dategli
un minuto, uno mimento...un lieto fine: un anno fa ci baciammo per la
prima volta di fronte alla polizia, nella pioggia della foresta tropicale
con gli ambientalisti negli alberi e le guardie con grossi fucili. sentimmo
il calore delle labbra del altro, delle parti di pelle, gli sbirri con
le motoseghe che tagliavano alberi di almeno 1000 anni. ci baciammo e
la pioggia bagnava le nostre facce.
sono forzata in un
altra stanza e lui mi manda un messaggio:
ho avuto degli insetti
nella mia testa
e cantavano il tuo nome. presto romperanno
il loro bozzolo e voleranno via.
milano
siamo obbligati a firmare un foglio che dice che abbiamo disturbato
questo paese tranquillo e non ci è permesso tornare per cinque
anni. dopo altra burocrazia, foto, fogli tutti i cittadini dell'inghilterra,
america spagna, svezia e canada sono caricati su un autobus e portati
all'aeroporto, qualcuno ironicamente canta: no borders, no nation stop
deportation. all'aeroporto la polizia rimane per un pò in giro
e poi riprende l'autobus e se ne va lasciandoci lì, dopo l'intenso
controllo che abbiamo subito negli ultimi 4 giorni, senza sapere quello
che dovevamo fare. per fortuna qualcuno viene in nostro soccorso. ci dicono
che possiamo andare a dormire da loro e poi chiamare l'ambasciata la mattina
seguente.
dopo aver circolato in giro ci perdiamo in un lungo viaggio in macchina
fino all'alba con le donne, con un organizzazione di compagni che noi
non conosciamo. davanti c'e' l'americano che baccaglia di se stesso. si
sente che è un americano della east coast si può dedurre
ovunque nel mondo, d. e io parliamo e cerchiamo di ripercorrere tutto
finché io non mi addormento mentre il sole sta sorgendo. finalmente
arriviamo a un cancello che si apre di fronte a noi e io comincio ad impanicarmi.
ci stanno riportando indietro. i grossi spazi dell'edificio mi dicono
che è un ospedale. quindi ci ricovereranno, certo impazzimmo tutti,
questo e' tutto nelle nostre teste. scopriamo più tardi che questo
è un ex ospedale psichiatrico. abbandonato e trasformato in un
centro sociale con gli ex-pazienti che ci lavorano dentro. ci fanno vedere
i letti e le docce. il giorno successivo i compagni si prendono cura di
noi, ci danno cibo, spazzolini da denti e vestiti nuovi. portano d. all'ospedale
dove impara i secreti della macchina a raggi x. il tecnico gli dice che
dalla radiografia si può vedere se una persona è stata buona
o cattiva- e tu, dice, sei stato molto cattivo. l'ambasciata ci presta
i soldi per i biglietti del treno fino alla svizzera. il giorno successivo
partiamo col treno. a berna d. scrive su un pezzo di cartone: deportato
da genova, serve un posto dove dormire. finalmente troviamo reithalle,
uno squat enorme con un bar, ritorante e tipografia. li persone sono incredibilmente
gentili, noi ci rilassiamo, e loro fanno un corteo- il commissariato viene
coperto di vernice rossa e tutte le strade sono rinominate carlo giuliani.
noi non vogliamo partire ma dobbiamo. noi partiamo e arriviamo a casa,
se è possibile solo arrivare a casa.
arrivederci
alla prossima guerra
e adesso, ciò che accadde, diventano parole, solo parole,
le nostre parole contro le loro. una storia. una buona storia. ma ovviamente
ciò non è solo una storia ma di ciò che è
successo il mio corpo ne è la prova. le prove erano lì sulla
parte superiore del mio braccio, sulla mia coscia sinistra, sulla mia
gamba destra. la legge può dire tutto e tutto può essere
usato contro di me in un tribunale. genova è il luogo di nascita
di cristoforo colombo. genova era la prima città a combattere i
fascisti durante la seconda guerra mondiale. l'orrore diviene un vento
fantasma di un movimento, di una cultura di cambiamento. l'orrore diventa
il collegamento tra di noi, diventa l'inizio della separazione. dopo un
paio di giorni dopo essere tornati in canada ricevo un e-mail da parte
di un giornalista del "manifesto", il giornale nazionale di
sinistra italiano, che dice di aver trovato i miei 15 rullini nella scuola
diaz. hanno pubblicato le nostre foto e scritto un articolo, cercando
di ripercorrere le nostre tappe e cercando di capire chi potevamo essere.
scrissero:
così anche
voi siete giunti puntuali all'appuntamento, con i giovani di tutto il
mondo. Siete solo due tra le migliaia, centinaia di migliaia di persone
che formano il "popolo di Genova"
avete vagato per i Balcani
e il Mediterraneo per trovarvi all'appuntamento con la Celere, i carabinieri,
i manganelli. Forse ora siete in Canada, o forse siete ancora in un carcere
italiano. Forse non leggerete mai queste parole. Ma se qualcuno ve le
tradurrà, quando tornerete, o quando sarete liberi, venite a riprendervi
le vostre foto e darci la vostra amicizia.
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