RICORDANDO
L'ULTIMO MASSACRO IN COLOMBIA
Luis Eduardo Guerra era uno
dei leader della straordinaria esperienza nonviolenta della
Comunita' di pace di San Jose' de Apartado', in Colombia; il 21
febbraio e' stato massacrato insieme ad altre otto persone.
Aveva detto, intervenendo al Foro Sociale delle Americhe svoltosi a
Quito nel luglio 2004: "Che senso hanno, signori, tante
riunioni e tanti eventi mentre ci stanno ammazzando? Che senso hanno
gli hotel di lusso, gli esperti delle Ong e tanti intellettuali, che
senso ha tutto cio' per noi che abbiamo cosi' bisogno che ci
aiutiate a non morire?"
A questa domanda non abbiamo saputo dare alcuna risposta efficace né
come movimenti, né come sindacati e, tanto meno come istituzioni
internazionali. Queste ultime, tra cui la stessa OIL, continuano -
nella peggiore ipocrisia – a ritenere che la violenza in Colombia
contro i leader e gli attivisti dei sindacati, delle comunità
indigene e delle organizzazioni della società civile sia il
risultato di una violenza diffusa ed indiscriminata e non il frutto
di un’azione sistematica (con metodi organizzati da parte dello
Stato, dei paramilitari e, in misura minore, dalla guerriglia) che
tenta di sterminare interi gruppi sociali.
La comunità internazionale non può chiudere gli occhi di fronte al
genocidio che si sta compiendo in un paese formalmente democratico,
in nome della sicurezza nazionale.
Nel 2004 gli ultimi dati diffusi dall’Escuela Nacional Sindical ci
dicono che le violazioni contro la vita, la libertà e l’integrità
personale dei sindacalisti, in un contesto generale d’impunità,
sono nuovamente in aumento (94 attivisti sindacali assassinati, 445
minacce di morte, 77 detenzioni arbitrarie).
Per la CISL il rispetto dei diritti umani e sindacali è uno degli
indicatori per misurare e dare significato autentico alla libertà e
alla democrazia. Per questo ci battiamo contro tutte le ingiustizie
e le violazioni dei diritti fondamentali compiute verso chiunque ed
in qualsiasi paese del mondo, dalla Birmania alla Colombia, dalle
Zone Franche Industriali alla Cina.
A poco più di un mese da quell’episodio d’inaudita violenza
militare compiuta dall’esercito colombiano contro civili inermi e
pacifici della comunità di San Josè de Apartado', vorrei
condividere il “racconto” allegato scritto dal giornalista Guido
Piccoli sul massacro (la realtà purtroppo supera la
finzione).
E' un modo per ricordare nel giorno di Pasqua Luis Eduardo e sperare
insieme nella “resurrezione”.
Gianni Alioti, Ufficio Internazionale FIM CISL
GLI
AMICI DELLA NONVIOLENZA MASSACRATI IN COLOMBIA
di Guido Piccoli
Luis
Eduardo Guerra era uno dei leader della straordinaria esperienza
nonviolenta della Comunita' di pace di San Jose' de Apartado', in
Colombia; il 21 febbraio e' stato massacrato insieme ad altre otto
persone. Aveva detto, intervenendo al Foro Sociale delle Americhe
svoltosi a Quito nel luglio 2004: "Che senso hanno, signori,
tante riunioni e tanti eventi mentre ci stanno ammazzando? Che senso
hanno gli hotel di lusso, gli esperti delle Ong e tanti
intellettuali, che senso ha tutto cio' per noi che abbiamo cosi'
bisogno che ci aiutiate a non morire?"
Gli
dicono che lo stanno cercando, lo scongiurano di nascondersi. La
mattina del 21 febbraio scorso, Luis Eduardo Guerra decide di non
sfuggire alla violenza, che l'ha accompagnato fin dalla nascita,
trentacinque anni fa. Non vuole abbandonare la sua nuova compagna
Bellanira e Deiner, il figlio undicenne che zoppica dall'esplosione,
nell'agosto scorso, di una granata abbandonata dall'esercito. E' uno
dei leader piu' riconosciuti di San Jose' de Apartado'. Forse si
sente protetto dalla solidarieta' ricevuta negli Stati Uniti e in
vari paesi europei, tra cui l'Italia con gli amici di Narni e degli
altri gruppi che formano la Rete di solidarieta' con le Comunita' di
pace in Colombia. O forse non immagina che vogliano ammazzarlo. Si
sbaglia.
Luis Eduardo, Bellanira e Deiner vengono intercettati vicino al rio
Mulatos, portati sul greto del fiume e squartati con i machete fino
ad essere decapitati.
Poco lontano un altro gruppo entra sparando nella casa di Alfonso
Bolivar, membro della Comunita' di pace del suo villaggio. L'uomo
riesce a scappare.
Scappa anche un contadino di nome Alejandro che sta percorrendo un
sentiero vicino: una pallottola lo ferisce alla schiena, viene
raggiunto e finito.
Alfonso potrebbe salvarsi, ma quando sente le urla della moglie
Sandra Milena, che chiede piete' per i suoi figli, torna indietro a
morire con la sua famiglia. I machete infieriscono sul suo corpo e
quello di Sandra.
Nessuna pieta' neppure per Natalia di quattro anni e per Santiago di
solo 18 mesi. I due massacri hanno dei testimoni, il fratellastro di
Luis Eduardo e un vicino di Alfonso.
Sono loro che raccontano una verita' spaventosa: stavolta i
carnefici non sono i tagliateste delle Autodefensas Unidas, i
principali protagonisti da vent'anni della macelleria colombiana, ma
i militari del trentatreesimo battaglione di controguerriglia
dell'esercito. Da quattro giorni l'intera regione e' sorvolata da
elicotteri ed aerei bombardieri e invasa dai reparti della
diciassettesima brigata di stanza nella base di Carepa. E' la
risposta all'imboscata nella valle della Llorona di una settimana
prima del quinto fronte delle Farc, costata la vita a sedici
soldati. Com'e' successo tante altre volte, sono i civili indifesi a
fare da vittime sacrificali delle rappresaglie.
Da quando, nel 1997, gli sfollati di San Jose' de Apartado' si sono
proclamati Comunita' di pace, rifiutandosi di collaborare con tutti
i protagonisti della guerra, compreso l'esercito, molti generali li
considerano alla stregua dei ribelli. Lo stesso presidente Alvaro
Uribe, nel corso di un vertice tenuto nel maggio scorso nella vicina
Apartado', sostenne che San Jose' fosse in realta' un
"corridoio" usato dalle Farc.
Noncurante delle sentenze della Commissione interamericana dei
diritti umani e della stessa Corte costituzionale colombiana che
hanno, in piu' occasioni, ingiunto allo stato colombiano di
"offrire una protezione speciale" alla Comunita' di San
Jose', in quell'occasione Uribe invito' la polizia ad arrestare, se
necessario, i suoi dirigenti e a deportare i volontari che li
proteggono, prima di tutti quelli delle Peace Brigades.
Quando a San Jose' si viene a sapere del massacro, partono gli
inviti a bloccare la carneficina, gli appelli alle organizzazioni
umanitarie in Colombia e nel mondo.
Per recuperare i corpi delle vittime viene organizzata una
spedizione di quasi duecento persone, accompagnata da sacerdoti,
cooperanti internazionali e l'ex sindaca di Apartado', Gloria
Cuartas. La comitiva si dirige a Mulatos, nella fattoria di Alfonso,
affollata di vicini che aspettano l'arrivo dei funzionari
giudiziari. E' il 25 febbraio. Il giorno dopo ci si fa guidare dai
cerchi concentrici degli avvoltoi, per scoprire i cadaveri
straziati di Luis Eduardo e dei suoi. All'orrore si aggiunge la
rabbia. In zona vagano ancora reparti dei soldati. A differenza di
altre volte, il loro atteggiamento e' sfrontato. C'e' chi,
ironizzando sul fetore che satura la zona,
sostiene che ci sia "puzza di guerrigliero morto". Qualcun
altro accusa il gruppo di essere arrivato fino a li' dietro ordine
delle Farc.
Vengono prese foto e rivolte minacce ai contadini. Un soldato
brandisce come un trofeo un machete trovato sul greto del fiume e,
nonostante le proteste, lo pulisce con la sabbia cancellando le
tracce di sangue. Piu' che un'ammissione di colpa, l'atteggiamento
dei militari equivale ad una rivendicazione.
Di diverso tono sono ovviamente le risposte che le autorita' danno
pubblicamente a Gloria Cuartas, agli avvocati della Corporacion
Juridica Libertad e al padre gesuita Javier Giraldo che denunciano
la responsabilita' della diciassettesima brigata nel massacro:
mentre il comandante dell'esercito, Reinaldo Castellanos, definisce
queste accuse "temerarie", il ministro della difesa, Jorge
Alberto Uribe assicura una certa "tranquillita' della forza
pubblica, visto la sua estraneita' al crimine".
Da tutto il mondo piovono proteste indignate contro il governo Uribe
che, come minimo, non ha fatto nulla per difendere la Comunita' di
San Jose'.
Oltre all'Onu e l'Organizzazione degli stati americani, gli scrive
una dura lettera anche il sindaco di Roma, Walter Veltroni. Da parte
del governo di Bogota' inizia l'abituale fuoco di sbarramento,
orchestrato dal vice-presidente Francisco Santos, ormai esercitato a
recitare, nello staff di Uribe, i ruoli piu' patetici. Salta fuori
il solito guerrigliero pentito, lasciato ovviamente anonimo, che
racconta che Luis Eduardo sarebbe stato ammazzato dalle Farc per non
avere piu' voluto che San Jose' continuasse ad essere usato dai
ribelli "come luogo di riposo e vacanza". L'assurda tesi
viene fatta propria dai mezzi di comunicazione.
Il 2 marzo arriva in zona una commissione giudiziaria, che si
scontra pero' con un muro di silenzio: nessuno vuole parlare con i
giudici. Neppure Gloria Cuartas che ricorda che "tutte le
testimonianze rese negli ultimi otto anni sulle violazioni dei
diritti umani sono servite soltanto a criminalizzare le vittime e
non i carnefici".
Ancora piu' dall'insediamento di Uribe, parlare di giustizia, in
Colombia e' un eufemismo. Sottoposta a minacce e ripulita da quasi
tutti gli elementi onesti, la magistratura ha sempre assecondato il
sodalizio tra i vertici dell'esercito, comandato negli anni scorsi
nella regione di Uraba' dal generale Rito Alejo Del Rio, detto
"El Pacificador" (al quale persino gli Usa avevano negato
il visto d'ingresso per avere costituito gruppi paramilitari)
e il nucleo centrale delle Auc, a capo dei quali c'erano Carlos
Castano e Salvatore Mancuso. Oltre ad intimidire i testi o ad
accumulare inutilmente le loro denunce, i giudici hanno lasciato
spesso filtrare le loro generalita', segnalandoli ai killer statali
e parastatali.
Dei duemila abitanti di San Jose', dal 1997 ne sono stati ammazzati
165, una ventina dalle Farc e dell'Eln e il resto da militari e
paras. Non a caso, nel centro del villaggio, cresce a dismisura un
monumento di mattoni con i nomi delle vittime e, dietro le fila
delle baracche, il cimitero.
Non solo tutti gli omicidi sono rimasti impuniti: come ricorda padre
Javier Giraldo "in molti hanno pagato con la morte la fiducia
nella giustizia". Per questo, la Comunita' ha deciso di rendere
testimonianza del massacro solo alla Commissione interamericana dei
diritti umani, riunita il 14 marzo in Costarica. I giudici della
Fiscalia lasciano a mani vuote San Jose'.
Sulla strada del ritorno sono attaccati a colpi di mortai e
lanciarazzi, che uccidono un poliziotto di scorta e ne feriscono
altri tre. L'agguato, che governo, esercito e giudici attribuiscono
alle Farc, corrobora per i giornali la colpevolezza dei ribelli
nell'uccisione di Luis Eduardo e degli altri 8. Da Bogota' Uribe
tuona che "non puo' esserci un solo centimetro del territorio
nazionale vietato alla forza pubblica". Considerando la "neutralita'"
una forma di complicita' con la guerriglia, il ministro della difesa
annuncia che verra' al piu' presto sanata l'anomalia di San Jose' e
delle altre comunita' di pace esistenti, per lo piu' lungo la costa
del Pacifico. Quando, il giorno dopo, l'esercito entra nelle
stradine del villaggio, i suoi abitanti minacciano un nuovo esodo,
rifiutandosi di "convivere con i loro assassini". E fanno
un appello a tutte le voci libere del mondo perche' si uniscano nel
richiedere il rispetto per la popolazione civile.
Il braccio di ferro tra i contadini di San Jose' e lo Stato
colombiano chiede di schierarsi. Impresa non facile, ad esempio, per
la chiesa. Per un padre Giraldo che rischia ogni giorno di trovare
un sicario sulla sua strada, c'e' il vescovo della vicina Apartado'
che, in questi giorni, ci tiene a sottolineare il suo
"accompagnamento solo pastorale" alla comunita' ribelle.
Ma l'ultima strage impone anche a Bruxelles e alle diplomazie
europee presenti a Bogota' d'intervenire. Per salvare altri
innocenti e per valutare che non sia il caso di sistemare nella
lista dei terroristi colombiani anche gli squartatori e i loro
rispettabili mandanti e conniventi.
Giornalista e sceneggiatore, profondo conoscitore della
Colombia su cui ha scritto Pablo e gli altri, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Colombia, Clup, Milano 1996; Colombia, il paese
dell'eccesso, Feltrinelli, 2000 Milano.
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