UN
MONDO D'ALLEGRIA
Nove
omicidi e decine di minacce di morte. Gli operai colombiani della
Coca-Cola rischiano la vita se si iscrivono ai sindacati. Ma il
sostegno internazionale li può aiutare
Autore:
Philip Cryan
Testata: Counter Punch (Stati Uniti) – è una newsletter
quindicinale di Alexander Cockburn e Jeffrey St. Clair, che “ogni
due settimane offre ai suoi lettori notizie che i grandi giornali
non pubblicano mai”. E’ tra le pubblicazioni più agguerrite
della sinistra radicale americana.
Data: 5 Aprile 2004
Versione originale: http://www.laborrights.org/press/coke_counterpunch_0404.htm
Traduzione: Internazionale 7/13 Maggio 2004 – n° 538 – Anno 11
– pagg. 41-43 www.internazionale.it
Le
pubblicità al cinema non hanno mai molto successo. Quando nella
sala si fa buio e invece del film o del trailer appaiono sullo
schermo le immagini di uno spot, tutta la platea sospira delusa.
Qualcuno scuote la testa, qualcun altro impreca sottovoce.
Un’altra intrusione. Un’altra conquista perfetta: insinuante,
apparentemente definitiva, indiscutibile. Proprio in un momento
rituale (l’inizio del film) di autentica magia: un attimo prima
sarebbe stato commercialmente inefficace.
Invece quel momento è molto più che commerciale. E’ un altro
prezzo di patrimonio culturale comune che ci viene sottratto. Le
luci si sono appena spente e in quell’istante di piacere condiviso
siamo tutti più ricettivi, ci prepariamo a lasciarci andare a
quell’incanto. E’ un attimo prezioso. Lucroso.
Un venerdì sera in cui mi sono seduto in un cinema con le luci
appena spente, la prevaricazione è stata doppia. Sullo schermo una
ragazza nera, sorridente e gioiosa, camminava per una strada di città.
Cantava con voce meravigliosa: “I wish I knew how it would feel to
be free”, vorrei sapere come ci si sente ad essere liberi. Ma
doveva già saperlo, come faceva ad essere così felice, altrimenti?
Lei sapeva come ci si sente ad essere liberi. Quella canzone era un
inno del movimento per i diritti civili. Era stata scritta da un
gigante del jazz, Billy Taylor, nel 1954; poi Nina Simone l’aveva
resa famosa nel 1967. Era diventata una canzone di protesta, un inno
delle manifestazioni. La ragazza che camminava orgogliosa, cantando
a voce spiegata, sorrideva ai passanti. Tutti sembravano entusiasti
e incantati dal suo fascino. Mentre camminava, offriva a tutti una
bottiglia di Coca-Cola.
Il resto dello spot non l’ho visto perché ero piegato sulla mia
poltrona, nel tentativo di reprimere l’impulso ad urlare di
rabbia. Proprio quel venerdì, il 26 marzo, trenta operai degli
impianti di imbottigliamento della Coca-Cola di otto città
colombiane entravano nel dodicesimo giorno di sciopero della fame.
Due giorni prima, il 24 marzo, il sindacato nazionale
dell’industria alimentare (Sinaltrainal, l’organizzazione che
rappresenta i lavoratori della Coca-Cola) aveva riferito che molti
degli scioperanti continuavano a lavorare secondo i turni normali,
per poi stramazzare all’uscita dal lavoro nella tenda del
sindacato fuori dalla fabbrica. Soffrivano di vertigini,
depressione, emicranie, insonnia e dolori al torace. Il quarto
giorno uno degli scioperanti, Marco Tulio Rey, ha avuto un leggero
attacco cardiaco. Un altro, Ruben Dario Munoz Joya, è stato
ricoverato in ospedale in stato di grave disidratazione. I dirigenti
sindacali hanno riferito di aver ricevuto numerose minacce di morte
da quando è cominciato lo sciopero. Ma hanno visto di peggio.
Negli ultimi anni gli squadroni della morte formati da paramilitari
hanno assassinato nove membri del Sinaltrainal. Isidro Segundo Gil
è stato ucciso all’interno dell’impianto di imbottigliamento di
Carepa, dove lavorava. I paramilitari hanno minacciato di morte
almeno 65 membri del sindacato.
IL POSTO PEGGIORE
La Colombia è il paese più pericoloso del mondo per i
sindacalisti. Nell’ultimo decennio ne sono stati uccisi almeno
1.500 (nessuno conosce la cifra esatta). E secondo un rapporto del
Dipartimento di Stato Usa, nessuno è mai stato condannato per i
quasi 400 omicidi di sindacalisti colombiani avvenuti nel 2001 e
2002. Alcuni membri del Sinaltrainal sono stati rapiti e torturati.
Altri sono stati incarcerati con delle false accuse. Lo scorso
settembre, dei paramilitari mascherati hanno rapito il figlio
quindicenne di un dirigente del sindacato per farsi dire dove si
trovava suo padre. Secondo il Sinaltrainal molti degli attentati
sono stati ordinati dalla Panamerican Beverages, una ditta
d’imbottigliamento controllata dalla società messincana Femsa, di
cui la Coca-Cola è azionista di maggioranza.
Hiram Monserrate, membro del Consiglio Municipale di New York City e
capo di una commissione d’inchiesta sugli omicidi, è stato in
Colombia a Gennaio. In quell’occasione, ha scritto la rivista In
These Times, i rappresentanti della Coca-Cola hanno ammesso che i
propri dipendenti potrebbero aver collaborato con i paramilitari in
omicidi e torture. Monserrate ha riferito: “Per quanto riguarda la
Coca-Cola, nessuno è stato processato o condannato per questi
omicidi. Nessuno è stato processato o condannato per gli
innumerevoli rapimenti che ci sono stati. Nessuno è stato
processato o condannato per i pestaggi avvenuti negli impianti di
imbottigliamento o nelle abitazioni dei lavoratori”.
Il 2 marzo, pochi giorni prima che i sindacalisti del Sinaltrainal
cominciassero lo sciopero della fame, quattro uomini armati fino ai
denti hanno assaltato la sede del sindacato a Barranquilla, una città
sulla costa atlantica della Colombia. Oltre a denaro e attrezzature,
gli assalitori hanno sottratto la videocassetta delle
telesorveglianza. L’incursione si è svolta poche settimane dopo
la visita di una delegazione di sindacalisti e studenti di New York,
e solo un giorno dopo che la società e il sindacato avevano dato
inizio a una nuova contrattazione collettiva nella capitale, Bogotà.
Un dirigente sindacale di Barranquilla, Adolfo de Jesus Munera Lopez,
era stato assassinato dai paramilitari il 31 agosto del 2002.
Ma la persecuzione costante e brutale non è riuscita a ridurre al
silenzio il sindacato. Nel luglio del 2003 il Sinaltrainal ha
chiesto un boicottaggio internazionale di tutti i prodotti
Coca-Cola. Sindacati di tutto il mondo, gruppi religiosi, studenti,
organizzazioni per i diritti umani ed esponenti politici hanno
espresso la propria solidarietà al Sinaltrainal. Sono state inviate
lettere all’azienda e al governo colombiano, si sono realizzate
iniziative d’informazione per promuovere il boicottaggio e
manifestazioni di protesta davanti alle fabbriche. E infine, cosa
ancora più importante, sono state fatte pressioni sulla società,
convincendo università ed altre istituzioni a evitare di
sottoscrivere accordi con la Coca-Cola. Nel 2001 il sindacato
americano dei metalmeccanici e la Fondazione Internazionale per i
Diritti dei Lavoratori hanno fornito un sostegno inestimabile al
Sinaltrainal: hanno promosso un’azione legale collettiva contro la
Panamerican Beverages e la Coca-Cola in un tribunale distrettuale
statunitense a Miami, accusando le due imprese di aver ingaggiato i
paramilitari per uccidere i sindacalisti. E ora uno sciopero della
fame di trenta persone in otto città.
UN RISULTATO POSITIVO
La cosa che non sapevo, quando mi sono ritrovato in quel cinema a
lottare con uno spaventoso disagio, era che tutti quegli sforzi di
solidarietà erano stati premiati da un risultato. A partire dal 15
marzo, data d’inizio dello sciopero, i suoi sostenitori
all’esterno e in Colombia avevano sommerso la Coca-Cola di lettere
e telefonate chiedendo che la Femsa concordasse il trasferimento dei
sindacalisti licenziati l’anno scorso in seguito alla chiusura di
unidici impianti di imboottigliamento della società. Il sindacato
sostiene che la Femsa aveva costretto 500 lavoratori a dimettersi in
cambio di una liquidazione, mentre la legge colombiana e una
clausola contrattuale davano ai dipendenti il diritto di
essere trasferiti in un’altra fabbrica del gruppo in caso di
chiusura di un impianto. Juan Carlos Galvis, dirigente del
Sinaltrainal di Barrancabermeja, ha spiegato il motivo per cui
difendono con tanta forza il diritto al trasferimento: “Se
perdiamo questa battaglia contro la Coca-Cola, perderemo anzitutto
il sindacato, poi i posti di lavoro e infine le nostre stesse
vite”.
Il 26 marzo il Sinaltrainal ha raggiunto un accordo senza precedenti
con Juan Carlos Jaramillo, rappresentante della Coca-Cola in
Colombia. La società ha accettato di trasferire novantuno membri
del sindacato, di ritirare tutte le penali che erano state inflitte
a chi partecipava allo sciopero della fame, di riconoscere agli
scioperanti due settimane di ferie pagate per riprendersi e
pubblicare un annuncio su un quotidiano nazionale in cui si
diffidavano i paramilitari dal compiere ulteriori rappresaglie
contro il sindacato. In un comunicato che annunciava il
raggiungimento dell’accordo e la fine dello sciopero della fame, i
dirigenti del Sinaltrainal hanno scritto: “Ci sono voluti 12
giorni di sciopero della fame perché la società accettasse
finalmente di ascoltare i suoi dipendenti”. La dichiarazione
rilevava inoltre che era stata necessaria un’enorme pressione
itnernazionale sulla Coca-Cola: “ I problemi che hanno portato a
questa protesta non sono stati risolti. Quello che è accaduto è
solo l’inizio di un dialogo, di un processo che potrebbe portare
alla loro soluzione. Oggi più che mai dobbiamo essere forti e
uniti. Tutti quelli che ci hanno accompagnato con dignità, fermezza
e amore per la nostra causa devono continuare a farlo, per garantire
ai lavoratori una soluzione giusta e rapida”.
Il 5 dicembre del 1996 all’impianto Coca-Cola di Carepa, due
paramilitari ficcarono dieci pallottole in corpo all’operaio
Isidro Segundo Gil. Quella notte, l’edificio che ospitava la sede
del sindacato fu distrutto da un incendio. Pochi giorni dopo i
paramilitari tornarono per ordinare ai lavoratori di abbandonare il
sindacato. Naturalmente obbedirono tutti. Alcuni scapparono. Chi era
rimasto fu licenziato due mesi dopo. Nel 2000 i paramilitari
assassinarono ache Alcira, la moglie di Gil, che aveva denunciato il
ruolo avuto dalla Coca-Cola nella morte di suo marito.
ALTRI PROBLEMI
“Vorrei sapere come ci si sente a essere liberi/ Vorrei poter
spezzare le catene che mi legano/ Vorrei poter dire tutte le cose
che dovrei dire/ Dirle forte, dirle chiare/ Perché il mondo intero
possa sentire”. Sono queste le parole che cantava la ragazza che
camminava orgogliosa offrendo bottiglie di Coca-Cola a tutti.
E’ curioso: nel novembre 2000 la Coca-Cola ha sborsato 192,5
milioni di dollari per mettere fine a una causa collettiva promossa
da 2000 dipendenti afroamericani per trattamento discriminatorio
nelle retribuzioni e nelle promozioni. Altri casi simili sono ancora
in corso. Nel giugno 2002 alcuni autisti addetti alla distribuzione
della Coca-Cola a Dallas hanno dichiarato alla National public radio
che la società rifornisce regolarmente i negozi dei quartieri neri
e latinoamericani con bibite scadute. Nel 2001 i dipendenti della
Coca-Cola che versavano contributi ai fondi pensione dell’azienda
hanno perso 71 milioni di dollari. L’anno precedente la società
aveva pagato al suo amministratore delegato, Douglas Daft, un
compenso di 105.186.544 dollari, con una quota di stock option.
Nel gennaio 2004 il presidente del Sinaltrainal, Luis Javier Correa
Suarez, è andato a Bombay, in India, per la preparazione del World
Social Forum. Lì ha scoperto che tre città indiane soffrono di
carenza di acqua potabile e che i loro terreni agricoli sono
desertificati a causa dello sfruttamento delle falde e
dell’inquinamento provocato dallo scolo delle acque residue degli
impianti Coca-Cola. I danni provocati dall’azienda statunitense
hanno fatto crescere un movimento di protesta. Per rimediare la
Coca-Cola ha incaricato una società di pubbliche relazioni, la
Perfect Relations, di migliorare la sua immagine pubblica. Ora i
camion della Coca-Cola portano acqua potabile alle comunità rimaste
senza fonti pulite. Ma non si cerca nessun rimedio o compenso per i
danni provocati. Gli eccessi peggiori della Coca-Cola sono degni di
Pr Watch, l’osservatorio sulle pubbliche relazioni del Centro per
i media e la democrazia. L’azienda ha convinto i coltivatori
che vivono nei pressi del suo impianto del Kerala a utilizzare come
fertilizzanti i suoi scarti industriali, come se il suo slogan
fosse: “I fanghi tossici sono una manna”. Una ricerca
commissionata dalla Bbc ha riscontrato in quei fanghi elevati
livelli i piombo e cadmio.
SIMBOLI E MARCHI
“Vorrei essere un uccello nel cielo:/ Come sarebbe dolce saper
volare/ Mi alzerei fino al sole e guarderei giù nel mare/ E mi
metterei a cantare, perché saprei/ Saprei come ci si sente a essere
liberi”. Ci sono ricordi sacri – come il ricordo di milioni di
persone che sfilano in corteo e cantano con coraggio, consapevoli
della loro forza, sfidando il razzismo e l’ingiustizia. Quella
forza fa gola ai pubblicitari. Anche se all’inizio reagivamo con
indignazione, ormai ci siamo abituati a queste pubblicità che non
solo sfruttano la forza di un evento o di un simbolo, ma usandola
l’annullano. Sottraggono poco a poco il significato di qeull’evento
(o di quel simbolo o di quel ricordo) e lo confondono. Ci
confondono. C’impongono un altro marchio. Ma non bisogna
dimenticare che in questo sfruttamento che dà forza a un feticcio
si perde anche qualcos’altro: la consapevolezza delle condizioni
di produzione. Cosa c’è dietro la magia della pubblicità? In
alcuni casi, come quello dei lavoratori dell’industria alimentare
colombiana, c’è non solo la miseria ma anche l’ingiustizia.
E perfino l’omicidio.
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