Alcuni dei miei migliori amici sono persuasi,
con passione e veemenza, che la Coca Cola sia un male e un simbolo
del male. Pensano che, come le scarpe Nike, sia profitto sullo
sfruttamento, sottomissione dei più deboli e insulto ai diritti
civili dei poveri.
Parlo di giovani militanti che incontro alle Feste dell’Unità,
parlo dell’intera Festa dell’Unità di Genova che aveva vietato
la scorsa estate la vendita o la presenza di Coca Cola. Parlo di
amici giornalisti, anche in questo giornale.
Alcuni dei miei migliori amici hanno trovato il loro primo lavoro
alla Coca Cola. Qualcuno tra di essi è diventato dirigente.
Ne ricordo almeno due che sono diventati membri del Consiglio di
Amministrazione di quella gigantesca multinazionale. No, non parlo
del tempo in cui mi occupavo di multinazionali anch’io, nella mia
versione imprenditoriale americana. Parlo del Movimento per i
diritti civili, delle giovani donne e dei giovani uomini guidati da
Martin Luther King nelle rischiose marce in Georgia, Alabama e
Louisiana, quando Rosa Park ha sconvolto il mondo dei bianchi
rifiutandosi di cedere il suo posto sull’autobus.
Atlanta, la città in cui aveva la sua chiesa Martin Luther King,
è stata la sola città a non scatenare la polizia, i cani lupo e
gli idranti contro i dimostranti neri. La Coca Cola, che ha la sua
sede ad Atlanta (ed era, per quella città, come la Fiat per Torino)
è stata la prima azienda ad assumere giovani neri, uomini e donne,
e ad aprire percorsi per diventare quadri e dirigenti, unica azienda
del Sud degli Stati Uniti per molti anni, e comunque d’avanguardia
in tutto il Paese, perché negli anni Sessanta sarebbe stato
difficile trovare un dirigente nero alla General Motors di Detroit o
alla United Technologies del Connecticut.
Quando Andrew Young, già numero due di Martin Luther King e poi
ambasciatore di Carter alle Nazioni Unite (1976), ha lasciato il suo
posto perché giudicato troppo vicino ai Palestinesi, è stata la
Coca Cola a accoglierlo nel suo Consiglio di Amministrazione. A
quell’epoca la Coca Cola era già stata messa al bando da tutti i
Paesi Arabi perché considerata “un prodotto ebraico”, benché
tutta la storia e la gran parte dell’azionariato di quella azienda
siano nati e restati a lungo Wasp (la sigla che indica, in America,
i protestanti bianchi).
La storia della Coca Cola maledetta nasce in Medio Oriente, fa
parte del boicottaggio arabo di Israele di cui ci siamo tutti
dimenticati, ma che a momenti è stato così rigido da sconsigliare
anche le grandi aziende europee di avere filiali e punti di vendita
in quel Paese. Tutto è cominciato dopo la guerra dei Sei Giorni
(1967). Ma la guerra dei Sei Giorni è cominciata perché,
simultaneamente e all’improvviso, tutti i Paesi Arabi confinanti
con Israele hanno attaccato, dalla Siria, dall’Egitto, dalla
Giordania e dal Libano. Israele ha vinto, altrimenti non sarebbe
sopravvissuto e non saremmo qui a parlarne. Vincendo ha occupato
territori da cui era partita l’invasione che stava per
sterminarlo. I Paesi attaccanti e sconfitti hanno lanciato allora il
boicottaggio economico. Quel boicottaggio economico, in gran parte
rispettato dalla prudente Europa per riguardo ai Paesi Arabi, è
stato isolato quasi solo negli Stati Uniti, sotto presidenze
democratiche e sotto presidenze repubblicane. E forse è utile
ricordare che il più grande leader di sinistra che gli Usa abbiano
mai avuto, Robert Kennedy, è stato ucciso da un palestinese che lo
riteneva “sionista”.
La storia ha macinato eventi, vittime, rovine, ma ha anche
conosciuto momenti come Camp David, presidenti come Carter e Clinton,
primi ministri israeliani come Peres, Rabin, Barak e, nella sua
ultima incarnazione, Sharon. Egitto e Giordania sono diventati
vicini affidabili e adesso dichiara di volersi aggiungere l’Arabia
Saudita.
La Coca Cola resta il prodotto maledetto, ereditato come “il
nemico” da una generazione all’altra. In un mondo senza storia e
con poca memoria, adesso viene indicata come ragione di espulsione
della Coca Cola uno scontro sindacale in Colombia, che certo è
stato legittimo, che certo è stato la risposta a ingiuste
violazioni di diritti. Ma è avvenuto fra lavoratori colombiani e
imbottigliatori colombiani. Gli imbottigliatori locali, è noto,
sono aziende in proprio, che hanno a che fare con l’impresa di
Atlanta quanto un negozio con i suoi fornitori.
La Coca Cola fa parte del mondo del “fast food”, non è
migliore degli hamburger né più sano del “Kentucky Chicken”.
Ma mi sfugge da dove i consiglieri comunali della sinistra torinese
hanno trovato ragioni per boicottarla, iniziativa odiosa che
dovrebbe essere riservata a fatti gravi e provati della nostra vita.
Esempio: boicottare prodotti locali di Treviso fino a quando il
sindaco (poi vicesindaco ma sempre padrone Gentilini) fa togliere le
panchine perché gli immigrati non possano sedersi, fa distruggere
le abitazioni in cui molte famiglie di lavoratori con regolare
permesso di soggiorno e regolare posto di lavoro avevano trovato un
tetto, e impedisce che sia dato ai nuovi venuti un luogo in cui
pregare. Aggiungendo insulti.
Mi dispiacerebbe per Treviso, città tra le più belle
d’Italia. Però sarebbe un modo per dire che una città civile non
può essere rappresentata da un personaggio offensivo e incivile.
Ma la Coca Cola? Mi sembra di capire che una parte del Consiglio
comunale torinese ha risposto al richiamo di una leggenda
metropolitana. C’è chi ci crede in buona fede. Ma resta una
leggenda che si scosta alquanto dalla storia. S’intende che
conosco il rischio di questa nota, e attendo le precisazioni irate
che seguiranno.
furiocolombo@unita.it