A Plachimada,
nello stato indiano del Kerala, gli adivasi, originari abitanti dell'India
hanno lanciato da qualche settimana una serie dia zioni dirette non
violente contro un impianto della Coca Cola. Migliaia di persone partecipano
ai blocchi e ai picchettaggi promossi a partire da organizzazioni
quali Adivasi Gotha Mahasabha e Adivasi-Dalit Samara Samity. Il loro
coordinamento, la Coca-Cola Virudha Janakee ya Samara Samithy di Plachimada
(e-mail:Pathichira_Haritha@yahoo.com) chiede l'immediata chiusura
della fabbrica e preannuncia un'azione giudiziaria di risarcimento
danni.
L'attivista
Veloor Swaminathan chiede agli indiani e non solo di diffonderel'informazione
sulla lotta degli adivasi e di boicottare la famosa bevanda. Peccato
che, a quanto pare, l'iniziativa sia avversata da partiti e sindacati
locali di destra, centro e sinistra, «che fungono da agenti
della Coca Cola» sostiene Veloor. Contrapposizioni «fra
poveri»: nessuna novità. Né è nuova la
resistenza contro l'invasione multinazionale in Kerala, uno stato
tradizionalmente molto attivo (fu il primo al mondo dove icomunisti
andarono al potere vincendo elezioni: nel 1957). E' di circa un
anno fa la proposta di un gruppo di coltivatori di boicottare l'olio
di soia di importazione per preferirgli l'ottimo olio di cocco localeche
rischiava di finire invenduto.
Fino
al 1991, anno in cui l'India virò al neoliberismo e alla
globalizzazione, la Coca-Cola era proibita nel paese, in nome dello
swadeshi (autosufficienza, produzione in loco). Non se ne sentiva
la mancanza, fra la spremuta di canna da zucchero, ogni genere di
succhi di frutta e perfino la Campa Cola, marrone bibita locale.
Adesso Coca e Pepsi imperversano. Ma la battaglia degli adivasi
non è tanto control'imperialismo culturale. Piuttosto, è
contro le distruzioni provocate dalla produzione locale della bevanda,
oltretutto così inutile dal punto di vista nutrizionale.
La
fabbrica di Plachimada fu avviata dalla Hindustan Beverages Pvt.
Ltd nel 1998-99 su circa 15 ettari di terreno in precedenza agricolo,
a multicoltura. Mille famiglie di adivasi e dalit (fuoricasta) vivono
nelle zone circostanti; sono prevalentemente dei senza terra e lavorano
come salariati agricoli. Dalla fabbrica, dove lavorano 70 operai
stabili più 150 avventizi, ognigiorno escono 85 camion, ognuno
con 600 casse di 24 bottiglie (300 ml)fra Coca Cola, Mirinda, Thums
Up e acqua minerale. La produzionerichiede molta acqua.
Oltre
60 pozzi pompano in produzione circa1.500.000 litri di acqua al
giorno. La depurazione dell'acqua stessa eil processo di preparazione
delle bottiglie danno luogo a un volume enorme di acque contaminate
e sostanze chimiche, oltre a montagne dirifiuti solidi. L'impianto
viola la legge, sostengono i rappresentantidegli adivasi. Il Land
Utilization Act obbliga a chiedere un permesso preciso per convertire
le terre agricole a un uso non agricolo, ma pare che la concessione
non sia mai arrivata. Intanto, la falda si èinquinata per
un raggio di 5 km, danneggiando i villaggi, ora colpiti dascarsità
e inquinamento idrici.
Le
analisi chimiche mostrano che l'acqua contiene concentrazioni di
calcio e magnesio così elevate da essereimbevibile e perfino
inadatta all'irrigazione. Una settimana dopol'inizio della protesta,
la fabbrica di Coca Cola ha distribuito acqua con autobotti alle
colonie circostanti: un'ammissione di colpa, dicono gli attivisti.
Inizialmente, la fabbrica ha regalato agli agricoltori della zona
una parte dei mefitici fanghi di lavorazione, spacciandoli per ottimo
fertilizzante. La contaminazione ha provocato dermatiti a diverse
persone.
Il
resto dei rifiuti è stato gettato senza riguardo lungo i
canali, sepolto nella proprietà della fabbrica e, secondo
alcuni rapporti, anche se terre pubbliche. La coltivazione del riso
è stata abbandonata su un'area di 150 ettari, obbligando
gli agricoltori a sperimentare altre colture che richiedonomeno
acqua; molti braccianti adivasi sono rimasti privi di lavoro.
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