NUOVO ALLARME DELLA CIA E DELL'ONU


Finora nel mondo si è combattuto per l'etnia, la religione, il petrolio. Nei prossimi anni, secondo la Cia, l'Onu e molti governi, le guerre scoppieranno per l'acqua Le risorse idriche restano immutate ma il consumo continua ad aumentare a causa del boom demografico e dell'agricoltura intensiva. E intorno ai tre grandi fiumi del Medio Oriente rischiano di esplodere nuovi conflitti.

di BRUNO CRIMI e GIOVANNI PORZIO

C'erano una volta le guerre del petrolio, risorsa energetica da cui dipendevano lo sviluppo economico e il benessere delle società industriali. Guerre che appartengono al passato. Ora di greggio ce n'è fin troppo, e i paesi dell'Opec faticano a mantenere a galla il prezzo del barile.
Nel terzo millennio sarà un'altra risorsa strategica a scatenare tensioni e conflitti tra le nazioni: l'acqua. L'allarme, lanciato anche dalla Cia e dalla Banca mondiale, è contenuto in un rapporto elaborato dall'International food policy research institute di Washington, che è stato al centro del dibattito promosso da Jacques Chirac a Parigi, dove il 19 marzo ne hanno discusso i rappresentanti di 84 paesi. Le statistiche parlano chiaro: 232 milioni di persone dispongono di una quantità d'acqua inferiore al livello minimo di 1.000 metri cubi pro capite all'anno e 400 milioni soffrono di "stress idrico", cioè prelevano acqua a un ritmo più elevato del ripristino naturale delle sorgenti.
Il consumo si è moltiplicato per sette dall'inizio del secolo, il 40 per cento della popolazione del pianeta ha difficoltà di approvvigionamento e nello spazio di una generazione il numero degli esseri umani che non avrà sufficiente acqua potabile salirà a 1,5 miliardi.
L'offerta resta stabile, mentre la domanda cresce in modo esponenziale, a causa dell'intensificazione della produzione agricola che assorbe il 70 per cento dell'acqua dolce disponibile. Senza contare il problema dell'inquinamento da nitrati, pesticidi e metalli pesanti che raggiungono le falde e rendono necessari costosi sistemi di depurazione. I "giacimenti", poi, sono distribuiti in modo ineguale: l'Europa e altri otto paesi si spartiscono i due terzi delle risorse globali, mentre vaste aree del mondo versano ormai in uno stato di cronica penuria.
Ma se sono molti i contenziosi (tra India e Bangladesh per il Gange, tra Messico e Stati Uniti per il Rio Grande, tra Vietnam e nazioni limitrofe per il Mekong), è soprattutto in Medio Oriente che il conflitto per le acque rischia di sfociare in scontro armato.
Il ricatto della sete Pochi lo ricordano, ma nel maggio 1975 Siria e Iraq avevano ammassato truppe ai rispettivi confini. I tentativi della Lega araba di evitare un conflitto erano falliti: l'unica strada sembrava quella del ricorso alle armi. In extremis, una mediazione dell'Arabia Saudita evitò la guerra.
Che cosa era successo? Che dopo la costruzione della diga di Tabqa in territorio siriano, il corso dell'Eufrate arrivava in Iraq con una portata d'acqua di 197 metri cubi al secondo, invece dei normali 920. Il governo di Baghdad aveva considerato "intollerabile" questa riduzione che metteva in pericolo non solo la sua agricoltura, ma lo stesso approvvigionamento idrico della capitale e delle principali città. Ci sono volute innumerevoli riunioni dei governi di Ankara, di Damasco e di Baghdad per giungere al compromesso del 1987, fortemente voluto dall'allora premier turco Turgut Ozal: stabiliva che il flusso del fiume in territorio iracheno dovesse essere di 500 metri cubi al secondo.
Ma proprio quell'accordo mise in luce che Siria e Iraq potevano essere sottoposte al ricatto dell'acqua da parte della Turchia per qualsiasi ragione: politica, strategica, economica. Lo si vide nel '90, quando Ankara decise di mettere in azione le chiuse della grande diga Atatürk, sull'Eufrate, per 30 giorni, al fine di creare un lago di invaso: Siria e Iraq vennero privati dell'acqua del grande fiume.
Il Tigri, che scorre quasi parallelo all'Eufrate, ma in un terreno più accidentato e quasi senza dighe, è meno sottoposto del suo gemello a controlli di flusso dell'acqua, ma è anche vero che la portata del Tigri è molto inferiore a quella dell'Eufrate, considerato il fiume vitale di Turchia, Siria e Iraq. Durante la guerra del Golfo alcuni strateghi americani avevano pensato all'eventualità di "assetare l'Iraq", ma non se ne fece nulla. Dopo il conflitto Baghdad ha avanzato nuove rivendicazioni sul fiume.
L'Iraq sostiene che 500 metri cubi al secondo non sono più sufficienti. E chiede che l'Eufrate arrivi in territorio iracheno con una portata di almeno 700 metri cubi.
L'acqua, per Saddam Hussein, è importante quanto il petrolio. E, come il petrolio, potrebbe essere il detonatore di un nuovo conflitto. Dieci paesi per un fiume "L'acqua è l'unica ragione che potrebbe nuovamente spingere l'Egitto a una guerra": parole di Anwar el-Sadat, pronunciate nel 1979 subito dopo la firma del trattato di pace con Israele.
Il Nilo, il fiume sacro che rese possibile lo sviluppo della civiltà faraonica, è la vena giugulare dell'economia e dell'agricoltura egiziane, l'indispensabile sorgente di vita per milioni di contadini, l'insostituibile fonte di energia per le industrie del paese: dai deserti della Nubia alle coste del Mediterraneo. Ma l'Egitto (120 milioni di abitanti, che saranno il doppio nel 2020) non è solo ad abbeverarsi al grande bacino idrico. Duecentocinquanta milioni di africani in dieci nazioni affacciate sul Nilo Bianco e sul Nilo Azzurro si contendono il prezioso liquido. Sudan ed Etiopia, in particolare, contestano l'attuale sistema di quote, fissato da un trattato del 1959, giudicato iniquo e superato. E premono sul Cairo per una radicale revisione degli accordi. La guerra dell'acqua ha avvelenato per decenni la politica della regione. Negli anni Settanta e Ottanta i tre paesi si sono aspramente combattuti per interposto esercito.
Gli egiziani appoggiavano i guerriglieri eritrei e tigrini, gli etiopi sostenevano (e continuano a farlo) i ribelli cristiani nel Sudan del Sud, che nel 1985 costrinsero Il Cairo e Khartoum ad abbandonare la costruzione del canale di Jonglei: un progetto che avrebbe impedito a miliardi di metri cubi d'acqua di evaporare nelle paludi dell'alto corso del Nilo Bianco.
Dopo il fallito attentato del giugno '95 ad Addis Abeba contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, la cui responsabilità è stata attribuita alla giunta islamica di Khartoum, le alleanze sembrano essersi capovolte: il rais del Cairo ha avvertito che non tollererà "alcuna interferenza sudanese sulle acque del Nilo"; mentre si è detto disponibile a discutere con Addis Abeba la costruzione di nuove dighe sul territorio etiope, tormentato dalla siccità e da una carestia endemica. Un faraonico progetto d'irrigazione rischia però di dar fuoco nuovamente alle polveri: il canale di Toshka (che si aggiunge al "canale della pace" nel Sinai) si propone di creare un nuovo delta del Nilo nel deserto a occidente di Alessandria. In febbraio, senza consultare gli altri paesi del bacino, Mubarak ha firmato con la giapponese Hitachi e la britannica Kvaerner International un contratto per la costruzione di 21 stazioni in grado di pompare 334 metri cubi al secondo di acqua dal lago Nasser. Il progetto, che punta a rendere fertile un'area di 210 mila ettari, è considerato vitale per aumentare la produzione agricola, arginare la disoccupazione e frenare l'esodo dei fellahin dalle campagne.
Ma è visto con estrema preoccupazione ad Addis Abeba. Finora l'Egitto ha avuto accesso libero, e di fatto illimitato, alle risorse idriche del Nilo. Non sarà sempre così. "L'Etiopia ha pianificato l'irrigazione di 3 milioni di ettari di terreni agricoli" spiega a Panorama George Joffé, vicedirettore del Royal institute of international affairs di Londra. "L'abbassamento della portata del Nilo avrà serie conseguenze sull'economia egiziana, che dipende dalla capacità di produzione di energia idroelettrica".
Non sono previsioni a lungo termine: è lo scenario di domani. Uno scenario che nessun faraone, se vuole restare sul trono, può permettersi di accettare. La guerra del Giordano A vederlo nella sua parte meridionale sembra un torrentello, e volendo lo si può attraversare senza bagnarsi i piedi. Il Giordano, forse il fiume più carico di storia del mondo, ha un aspetto modesto, ma il suo valore reale e simbolico è immenso. Dal suo controllo dipende il presente e il futuro di almeno quattro paesi che sono stati al centro dell'attualità internazionale nell'ultimo mezzo secolo: Israele, Giordania, Libano e Siria. David Ben Gurion, fondatore di Israele, lo aveva capito fin dal 1956, affermando: "Stiamo portando avanti una guerra dell'acqua con gli arabi. Il futuro dello stato ebraico dipende dal risultato di questa battaglia".
E nel '91 l'erede al trono hashemita, il principe Hassan di Giordania, ha sostenuto: "Il problema dell'acqua è cruciale. Se entro il 2000 non ci sarà un accordo, i paesi della regione entreranno in conflitto". Il 37 per cento dell'acqua consumata in Israele proviene dal Giordano e dal lago di Tiberiade, a sua volta alimentato da questo fiume che segna il confine tra la Cisgiordania occupata e la Giordania, per finire nel Mar Morto. Se si guardano le conquiste territoriali israeliane avendo presente il problema dell'acqua, si può capire che quanto aveva detto Ben Gurion nel '56 ha guidato la strategia militare dello stato ebraico negli ultimi decenni.
Le falde acquifere della Cisgiordania rappresentano infatti il 38 per cento delle risorse di Israele. Il rimanente 25 per cento è rappresentato da sorgenti e falde che si trovano sia in territorio cisgiordano che israeliano. Non è tutto. La conquista del Golan siriano durante la guerra del 1967 non era dettata solo dalla necessità di proteggere la popolazione israeliana che viveva a valle delle alture. Altrettanto importante era prendere possesso del territorio in cui si trova la sorgente del Giordano e del suo principale affluente, lo Yarmuk, dal quale Israele preleva il 3 per cento del suo fabbisogno d'acqua. Anche la conquista del Libano del Sud (1982) può essere letta nella chiave del controllo delle fonti idriche che Tel Aviv considera vitali, oltre che in quella di un'esigenza strategica di creare una zona di sicurezza tra gli estremisti sciiti dell'Hezbollah, che hanno le basi nel Sud del Libano, e lo stato ebraico: nel settore sotto controllo israeliano scorrono i fiumi Hasbani e Litani, che proprio in territorio libanese si gettano nel Giordano. (ha collaborato Alan George)



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