Il compromesso di Kyoto
di Gennaro Corcella
su Guerre&Pace n. 46 - febbraio 1998 |
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Gli accordi di Kyoto pur costituendo il primo tentativo di ridurre l'effetto serra, appaiono inadeguati alla gravità del problema. Proponiamo una riflessione sugli effetti delle pressioni delle imprese e sulle proposte avanzate dal governo italiano.
Lo scorso dicembre, delegati di 159 paesi si sono riuniti nella città giapponese di Kyoto per discutere del progressivo surriscaldamento della terra e dell'effetto serra. Al termine di un'estenuante trattativa, si è giunti ad un accordo che, sebbene di
portata storica, appare a molti insufficiente se confrontato coi rischi cui si sta andando incontro.
I TERMINI DELL'ACCORDO
La risoluzione sottoscritta prevede che
i 38 paesi maggiormente industrializzati
riducano le emissioni dei gas che contribuiscono all'effetto serra del 5,2% entro il
quadriennio 2008-2012. L'anno di riferimento e il 1990 per i gas da combustione
(anidride carbonica, metano e ossidi di azoto), il 1995 per quelli di origine chimica
(perfluorocarburo, idrofluorocarburo ed esafluoruro di zolfo).
Le riduzioni sono differenziate: -8%
per l'Unione Europea (-7% per l'Italia),
-7% per gli Stati Uniti, -6% per il Giappone, mentre i paesi in via di sviluppo, con a
capo la Cina, hanno ottenuto l'esenzione da qualsiasi impegno formale di "tagliare"
le emissioni. Prima che il trattato diventi legalmente vincolante sarà comunque necessaria l'approvazione dei parlamenti dei
singoli stati.
L'accordo raggiunto si presenta come
un compromesso tra le diverse posizioni
rappresentate a Kyoto, che andavano da
una riduzione del 15% per i soli gas da
combustione, obiettivo dell'Unione Europea, alla stabilizzazione delle emissioni al
livello del 1990 per tutti i gas e tutti i paesi (Nord e Sud del mondo), proposta dagli
Stati Uniti.
UNA RIDUZIONE SUFFICIENTE?
Fenomeni quali l'aumento della temperatura media della terra, l'innalzamento
del livello dei mari, le inondazioni o le carestie, che potrebbero essere causati dal
progressivo surriscaldamento del pianeta,
hanno una dinamica estremamente complessa, poiché sono in parte eventi naturali ed in parte provocati dall'uomo, con il
contributo determinante dell'effetto serra.
Affermare con assoluta certezza se la
prospettata riduzione del 5,2% sia adeguata non è perciò banale.
E’ sicuramente un risultato notevole
che i governanti dei paesi industrializzati
abbiano formalizzato un impegno che, come ha sottolineato Ermete Realacci, presidente di Legambiente, "per la prima volta
stabilisce il principio che i mercati devono
tenere conto delle conseguenze ambientali
della propria attività". Secondo il World
Resources Institute, centro di ricerche statunitense, le misure adottate a Kyoto salveranno qualcosa come 8 milioni di persone. Tale è infatti stimato il numero di
vittime da epidemie o malattie che, come
la malaria o il colera, sono sensibili al surriscaldamento del globo e potrebbero
diffondersi sempre più se l'effetto serra
continuasse a crescere. L'importanza delle decisioni di Kyoto non impedisce tuttavia agli esperti di fisica della terra e dell'atmosfera ed agli esponenti delle associazioni ambientaliste di esprimere una generale insoddisfazione.
La comunità scientifica internazionale
reputa come concentrazione massima tollerabile dei gas di serra una quantità doppia rispetto a quella dell'era preindustriale.
Secondo le analisi degli studiosi britannici del Global Commons Institute,
s,volte considerando solo l'anidride carbonica, tale soglia estrema verrebbe raggiunta nel 2030 se la Gran Bretagna riducesse
le proprie emissioni del 50% o gli USA
del 77%. Il pianeta dunque richiede limiti
ben più marcati rispetto a quelli della mediazione raggiunta in Giappone...
Vi è inoltre il rischio che la concentrazione totale dei gas possa addirittura crescere, in quanto il protocollo di Kyoto non prevede nulla per i paesi del Terzo Mondo, le cui emissioni sono così destinate ad
aumentare.
Non è certo una vittoria sotto il profilo
ambientale quella riportata a Kyoto dai
paesi in via di sviluppo. Proprio perché in
questi stati il processo di industrializzazione é avvenuto in ritardo e non è ancora
completo, sarebbe stato senz'altro più opportuno ed "ecologico" porre un freno
all'impiego dei combustibili fossili ed utilizzare subito fonti alternative, quali l'energia solare, eolica o geotermica.
La mancanza di impegni precisi per le
aree in via di sviluppo pone poi un problema interno agli Stati Uniti, ove il Senato
aveva dato mandato al vicepresidente Al
Gore di non firmare alcuna risoluzione
che implicasse diversi vincoli tra Nord e
Sud del mondo.
Si teme quindi che il pur esiguo limite
del -7% previsto per gli USA, al primo posto per le emissioni "per capita", possa non essere ratificato dal parlamento americano.
LE CRITICHE DI WWF E GREENPEACE
Associazioni ecologiste internazionali come WWF o Greenpeace sono deluse
dagli esiti del vertice giapponese. Il WWF
sostiene che l'accordo è debole, a maggior ragione se si osserva che non è stata
prevista alcuna sanzione per i paesi che
non dovessero mantenere gli impegni: si
teme cioè che, come è avvenuto per il
meeting di Rio del 1992, gli accordi possano essere tranquillamente disattesi.
Greenpeace denuncia le lacune che presenta il trattato e gli escamotage che consentirebbero di aggirarlo. Tra questi, la
possibilità di vendere o acquistare quote
di emissioni da parte dei paesi vincolati
dal trattato, oppure l'equiparazione tra azioni di riforestazione e "tagli" alle emissioni.
E’ vero che gli alberi assorbono CO2 e
che la creazione di nuove foreste va nella
direzione auspicata, tuttavia gli ecologisti
hanno osteggiato quest'ultimo punto essendo pressoché impossibile esprimere
numericamente la quantità di gas assorbita dalle piante.
Possono ancora ottenersi ulteriori
"sconti" sulle riduzioni se si finanziano
nel Terzo Mondo imprese ove vengano utilizzate fonti di energia alternativa. I pae si in via di sviluppo temono però che eventuali investimenti di questo genere possano, a lungo termine, indebolire il GEF, il fondo gestito dalla Banca Mondiale per lo sviluppo sostenibile del Sud del mondo.
IL FALSO SPETTRO DELLA DISOCCUPAZIONE
L'approvazione di misure più stringenti è stata ostacolata a Kyoto dalle pressioni di potenti lobby finanziarie, quali le
compagnie petrolifere ed automobilistiche
degli USA, l'industria australiana del carbone e dell'alluminio, quella finlandese
della carta. Attraverso i propri referenti
politici, gli industriali sostengono che il
surriscaldamento e poco più di un'illusione ed alimentano spauracchi quali crisi economica, disoccupazione di massa e perdita di competitività internazionale. In nome del liberismo e della concorrenza, si
oppongono a qualsiasi tassa sul consumo
di combustibili inquinanti.
Il GCC (Global Climate Coalition), un
consorzio che comprende multinazionali
quali la Shell, la Mobil, la Texaco e la
Ford, che puntualmente partecipa ad ogni
meeting sull'ambiente, ha addirittura paventato il rischio che negli Stati Uniti possano perdere il lavoro 600 mila persone se
si dovessero attuare le misure di Kyoto.
Agitare lo spettro della disoccupazione
per impedire l'attuazione di serie politiche
ecologiche è però falso ed ipocrita. Come
scrive Giorgio Nebbia su "il manifesto",
"non è vero che l'occupazione dipende
dalla moltiplicazione delle automobili, degli inceneritori, del consumo di concimi e
pesticidi.
L'occupazione può venire dalla difesa
del suolo, dalla lotta all'inquinamento,
dalla modificazione degli attuali processi
produttivi e delle relative materie prime;
l'occupazione aumenta se diminuiscono i
rifiuti, se vengono progettate merci e
macchine durature, se vengono riutilizzate
le materie oggi buttate via. Un aumento
dell'occupazione, insomma, dipende dalla
diminuzione e non da un aumento della
contaminazione atmosferica".
In un rapporto della Commissione Europea si legge che l'installazione in varie
zone del continente di un milione di tetti a
celle fotovoltaiche, per la conversione
dell'energia solare in energia elettrica, potrebbe creare 50 mila posti di lavoro.
L'associazione Friends of the Earth ha valutato che una serie di interventi per ridurre le emissioni di CO2, per esempio del
20% entro il 2010, determinerebbe nella
sola Gran Bretagna 226 mila nuovi posti
di lavoro.
ITALIA: LE PROPOSTE DEL CIPE E DI RONCHI
Controfirmato l'accordo di Kyoto, anche il governo italiano dovrà prendere adeguati provvedimenti per raggiungere
l'obiettivo del -7% o, come vorrebbero
Legambiente e WWF Italia, del -15%,
proposta originaria europea. Già prima del
vertice giapponese, il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) aveva elaborato un documento in cui venivano individuati una serie di interventi per diminuire la produzione dei
gas di serra di 106 milioni di tonnellate equivalenti entro il 2010. Tra le misure
proposte, interventi nel settore dei trasporti, tra i più critici, per il quale, come ha
ammesso il ministro per l'ambiente Ronchi, la tendenza è per un aumento delle emissioni del 18% nei prossimi dodici anni.
Dovrebbero essere investiti 70 mila
miliardi di lire per la costruzione di nuove
metropolitane, tram, ferrovie locali e nuove infrastrutture per il trasporto pubblico,
con nuovi piani di viabilità. Ciò consentirebbe un risparmio di 16 milioni di tonnellate di petrolio e, a detta di Ronchi, un
aumento dal 12% al 20% del quantitativo
di merci viaggianti su ferrovia. Altri interventi proposti dal Cipe riguardano il riciclaggio e il recupero dei rifiuti, riduzione
dei consumi di riscaldamento nel settore
civile, incentivi per gli elettrodomestici a
basso consumo energetico.
Un punto nevralgico riguarda l'impiego di fonti energetiche alternative, che attualmente pone l'Italia all'ultimo posto
nell'Unione Europea. Sono in fase di contrattazione con l'Enel, progetti volti alla
generazione, entro il 2010, di 10 mila Megawatt di potenza mediante impianti solari, eolici, geotermici ed a biomassa. E prevista la costruzione di 3 milioni di metri
quadrati di collettori a celle fotovoltaiche.
A questi proponimenti, il WWF aggiunge
la richiesta di riforestazione dei boschi italiani con piante autoctone.
Il complesso delle proposte del Cipe e
del ministro Ronchi è sicuramente innovativo: si tratta ora, con il concorso dei
ministeri di Industria, Trasporti, Lavori
Pubblici, Bilancio ed Agricoltura, di individuare le strategie che permettano di
concretizzare le dichiarazioni d'intenti, in
modo che, almeno sulla questione ambientale, il governo Prodi segni un'inversione di rotta rispetto al passato.
FONTI: IPS-Inter Press Service; Global Commons Institute; Scientists for Global
Responsibility; "il manifesto" (speciale "La battaglia di Kyoto" ed articoli di M.Forti).
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