I nizia lunedì a Buenos Aires un'altra sessione internazionale dedicata al riscaldamento globale. Si tratta di fare qualche passo avanti rispetto al trattato generale (e genericissimo), siglato a Kyoto in Giappone nel dicembre scorso. In particolare di verificare da vicino se i fini generali enunciati possono farsi strada con degli strumenti concreti e con un vero calendario. Se così sarà, allora diventa realistico sperare che il trattato riceva sufficienti firme di ratifica da parte dei singoli stati da diventare operativo.
Le questioni controverse sono almeno due, quella dei paesi in via di sviluppo e quella del commercio dei crediti e debiti di inquinamento. Sul primo fronte la destra americana e molte industrie dei paesi ricchi sostengono che non sia giusto esentare i paesi del Terzo mondo da ogni obbligo di ridurre le emissioni di gas serra. Replicano questi: l'inquinamento atmosferico che ha provocato il riscaldamento globale è un'eredità vostra, del mondo industrializzato, perché dovremmo farne noi le spese, rallentando il nostro faticoso sviluppo?
Il che porta alla seconda questione: la possibilità, almeno teorica, di mettere tutti d'accordo, sviluppati e poveri, consentendo loro di scambiare oneri e diritti. Se un paese del Terzo mondo accetta di ridurre le sue emissioni, per esempio in cambio di aiuti allo sviluppo sostenibile, allora la sua quota potrà essere utilizzata dal paese ricco che gli fornisce gli aiuti. A Buenos Aires dovrebbero essere fissate le regole generali di questo nuovo mercato globale dei "diritti" a inquinare. La cosa è già di per sé controversa, ma lo diventa ancora di più se si pensa che gli Stati Uniti, mentre sollecitano per questo meccanismo, vorrebbero anche che esso fosse senza alcun limite superiore: in pratica un paese ricco come gli Usa potrebbe non fare alcun sacrificio nè alcuna riconversione delle sue industrie, accontentandosi di "comprare" il diritto a emettere gas in eccesso.
Va segnalata tuttavia qualche timida novità positiva che proviene proprio dal nord America: il fronte industrialista, ferocemente contrario a Kyoto e a ogni regola e organizzato in lobby attraverso due associazioni, la Global Climate Coalition e la Business Roundtable, si va parzialmente scomponendo. Per esempio elle settimane scorse General Motors ha preso le distanze dalle posizioni più oltranziste e due grandi aziende petrolifere come British Petroleum e Shell hanno abbandonato la Gcc. I motivi sono diversi: da un lato c'è una valutazione tattica (è meglio trattare e condizionare le regole che farsi imporre qualcosa dall'alto, magari più severo). Dall'altro cè un aspetto di immagine (le industrie sporche rischiano di vendere di meno presso i consumatori consapevoli). Infine, e forse più importante, quello della riconversione ambientale è anche un business del futuro: vale la pena di attrezzarsi adesso per vendere prodotti sostenibili, anticipando la concorrenza.