Un interessante articolo uscito nel 2001 spiega le problematiche climatiche e come si è arrivati al protocollo di Kyoto... di nuovo di grande interesse dopo il disastro di New Orleans


tratto da Internazionale n.8 - 7/13 settembre 2001

 

Dopo Bush il diluvio

La storia del Protocollo di Kyoto dimostra quanto siano deboli gli sforzi per salvare il pianeta

MURRAY SAYLE, THE LONDON REVIEW OF BOOKS, GRAN BRETAGNA

PER SAGGIO DISEGNO DELL AUTORE DELLA NATURA, IN TUTTE LE COMUNI CIRCOSTANZE,
come pure nella nostra vita, la virtù è la vera saggezza, il mezzo più sicuro e più rapido per ottenere al
contempo sicurezza e vantaggio".
Adam Smith, La teoria dei sentimenti morali.


Foto Joanna B. Pinneo

Il 13 marzo scorso il presidente George W. Bush ha scritto a quattro senatori del Partito repubblicano per informarli che non avrebbe ratificato il Protocollo di Kyoto, che mira a ridurre le emissioni mondiali dei gas serra, soprattutto l'anidride carbonica lo stesso protocollo che Al Gore aveva negoziato nel 1997 quando era vicepresidente.

Qualche giorno dopo Bush ha seccamente difeso la sua decisione in una conferenza stampa a Washington: "Non intendo accettare un piano che danneggerà la nostra economia e i lavoratori americani. La cosa in assoluto più importante sono le persone che vivono negli Stati Uniti; è questa la mia priorità". La brusca decisione di Bush di ritirare il suo appoggio a un accordo già stipulato dal suo ex avversario è stata accolta con sgomento da molti democratici e persino da alcuni repubblicani sensibili, così come dai verdi e dagli ambientalisti di tutto il mondo.

Un mondo in cui gli Stati Uniti, con il 4 per cento della popolazione del pianeta, emettono un quarto di tutti i gas serra, soprattutto per generare elettricità, riscaldare, refrigerare e per far funzionare il sistema dei trasporti. A chi gli ricordava la sua promessa elettorale di sostenere le riduzioni obbligatorie di CO2 dalle centrali elettriche statunitensi, Bush ha risposto che "la situazione è cambiata dopo la campagna elettorale. Noi", cioè gli americani "ora ci troviamo in un periodo di crisi energetica".

Il texano tossico

Qualche giorno dopo il vicepresidente Dick Cheney, un veterano dell'industria petrolifera texana proprio come Bush, ha annunciato una nuova politica americana per generare più energia e ha previsto che agli Stati Uniti occorreranno tra le 1.300 e le 1.900 nuove centrali elettriche nei prossimi vent'anni, la maggior parte delle quali bruceranno carbone "Che non è la fonte di energia più pulita", ha ammesso Cheney, "ma la più abbondante fonte di energia a basso costo del paese".

Philip Clapp, presidente del National Environmental Trust degli Stati Uniti, ha accusato il piano Cheney di essere "un attacco all'ambiente che oltrepassa le nostre frontiere". Gli europei hanno cominciato a chiamare Bush "il texano tossico". Gli scienziati, quasi unanimi, hanno condannato l'improvviso cambio di atteggiamento dell'amministrazione americana. Un commento significativo e venuto da Nature: la rivista afferma che la decisione di Bush "chiarisce perfettamente com'è schierata l'amministrazione su questioni in cui gli scienziati, di regola, dovrebbero avere un importante ruolo consultivo. E' fermamente schierata a fianco degli imprenditori e degli inquinatori che hanno contribuito a pagare la vittoria elettorale ben poco impressionante di Bush nel novembre scorso, e al diavolo l'evidenza scientifica". Per pura coincidenza, l'Intergovernmental Panel on Climatic Change, la Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico (Ipcc), si è riunita a Nairobi meno di un mese dopo che Bush aveva di fatto stracciato il Protocollo di Kyoto, e ha inserito nel suo sito Internet un rapporto che aggiornava le conclusioni raggiunte nel 1995 dal Primo gruppo di lavoro, su cui era basato il protocollo del 1997. I nuovi dati, approvati da oltre mille insigni climatologi, confermano che le condizioni climatiche continuano a peggiorare.

Cupe prospettive

Cape GrimCape Grim, cioè Capo Tetro, fu battezzato con questo nome significativo dal britannico Matthew Flinders, della Royal Navy, che lo scoprì nel 1798. Questo sperone di arenaria alto cento metri si protende sull'Oceano Indiano dalla costa occidentale della Tasmania, spazzata dai venti. Qui nove meteorologi che inviano i loro rapporti all'Ipcc lavorano in un agglomerato di baracche e fanno avanti e indietro da Smithton, il centro abitato più vicino, dove si arriva percorrendo 120 chilometri di strada attraverso il bush, la macchia australiana. Sulle loro teste si innalza un pilone di una settantina di metri, sormontato da strumenti per prelevare campioni d'aria.

La stazione di rilevamento dell'inquinamento atmosferico di Cape Grim fa parte di una rete internazionale di centri analoghi dislocati in luoghi sperduti, lontani dagli insediamenti umani - Barrow in Alaska, Alert nell'Artico canadese, Ushuia vicino a Cape Horn, il vulcano di Mauna Loa alle Hawaii, in Antartide vicino al Polo Sud, e altre ancora create quando l'Anno geofisico internazionale del 1957 lancio l'allarme sulle condizioni dell'atmosfera.

Come le stazioni sorelle, il centro di Cape Grim manda rapporti all'Organizzazione meteorologica mondiale di Ginevra raccontando una storia di allarme perenne: negli ultimi vent'anni la concentrazione di anidride carbonica nella pura aria marina da cui preleva i suoi campioni e cresciuta del 10 per cento e il tasso di crescita è in accelerazione.

La storia della CO2

Quando Bush ha osservato che l'anidride carbonica non è un inquinante, ha dimostrato, o forse finto, una dubbia comprensione del ciclo del carbonio, e quindi della realtà che si nasconde dietro il grande scalpore sollevato dai media. In un certo senso ha ragione.

Di per sé, l'anidride carbonica è innocua, persino divertente. Tutti noi esaliamo circa un chilo di CO2 al giorno; fa le bollicine nell'acqua frizzante, la schiuma sulla birra e le ricciolute nubi di vapore (prodotte dalla sua forma gelata, il ghiaccio secco) con cui le pop star accompagnano la loro entrata in scena. Senza l'anidride carbonica, di fatto, non saremmo qui. Attraverso il processo naturale della fotosintesi, il pigmento complesso della clorofilla il verde della vegetazione terrestre e marina utilizza l'energia della luce solare per fissare la componente di carbonio dell'anidride carbonica più l'idrogeno e l'ossigeno dell'acqua in modo da produrre carboidrati. Noi li consumiamo direttamente nelle nostre salubri insalate verdi, oppure di seconda mano negli hamburger, nel pesce fritto o nelle crocchette di pollo, e poi espiriamo la quantità corrispondente di CO2, che viene riciclata nell'aria e nel mare e torna di nuovo a noi sotto forma di carboidrati. Il ciclo del carbonio un tempo era chiuso, e se avessimo continuato a vivere di caccia e prodotti della natura o ci fossimo fermati all'agricoltura a energia muscolare, avrebbe potuto restare chiuso per sempre.

Poi scoprimmo i combustibili fossili. Marco Polo raccontò che i cinesi si tenevano caldi bruciando pietre nere, ma l'attuale ingordigia energetica risale al 1709, quando Abraham Darby cominciò a usare il coke per fondere il ferro; all'invenzione della macchina a vapore di James Watt nel 1765; e allo scavo del primo pozzo petrolifero compiuto da Elmer Drake a Titusville, in Pennsylvania, nel 1859 tutti e tre, per inciso, uomini d'affari anglofoni. I tre combustibili fossili più importanti carbone, petrolio e metano in una certa fase furono (prevalentemente) carboidrati, materia vivente che si fossilizzò in un periodo relativamente breve se si può definire breve un periodo di 90 milioni di anni qualcosa come 200 milioni di anni fa, in quello che i geologi europei chiamano il Periodo carbonifero e i loro colleghi statunitensi più campanilisti il Mississipiano e il Pennsylvaniano. Il processo fu lo stesso sulle due sponde di quello che doveva ancora diventare l'Oceano Atlantico. Immense distese di alberi, felci e altra flora fiorirono nelle paludi e furono sepolte sotto la sabbia, il limo e il fango di inondazioni titaniche. La vegetazione che rimase dov'era divenne carbone, il petrolio greggio prodotto nelle paludi dall'azione dei batteri risalì nei letti di sabbia sovrastanti, che imprigionarono anche grandi quantità di gas di palude, più noto come metano o gas naturale.

Tutte e tre le forme, avendo perso l'ossigeno che un tempo contenevano, consistono prevalentemente di idrogeno e carbonio, da cui il termine "idrocarburi". Il carbone contiene anche zolfo, fosforo e altre impurità letali a cui alludeva Cheney; il petrolio ne contiene di meno, mentre il metano e carbonio puro misto a idrogeno. Bruciati come combustibile, tutti e tre producono anidride carbonica, e quindi reintroducono nella nostra atmosfera - attualmente al tasso di nove miliardi di tonnellate l'anno, ma la cifra è in aumento - il carbonio fissato anticamente dalla luce solare che è stato fuori circolazione per milioni di anni.

Il risultato dell'aumento delle emissioni di CO2 è che una maggiore quantità di calore solare resta con noi, sciogliendo il ghiaccio e la neve (che riflettono il calore rimandandolo nello spazio). L'acqua che si scioglie dai ghiacciai fa salire il livello del mare, e noi ci stiamo avviando sempre più rapidamente verso un nuovo Carbonifero, anche se il suo carbonio sepolto per milioni di anni non ci ha fatto nessun male fino a quando non abbiamo cominciato a estrarlo. (Che l'effetto serra sia una realtà è un'assoluta certezza: alcuni coltivatori britannici pompano CO2 nelle loro serre di pomodoro). Fino a oggi i cambiamenti climatici provocati dall'uomo e indicati dagli scienziati nell'ultimo rapporto del Primo gruppo di lavoro non sono stati così rilevanti, quanto meno se considerati in una prospettiva di lungo periodo. Nel Ventesimo secolo la temperatura media sulla superficie della Terra è cresciuta tra 0,4 e 0,8 gradi, una variazione di cui nella vasca da bagno non ci accorgeremmo neppure. Ma fino al 1995 l'aumento era stato tra 0,2 e 0,6 gradi: ciò vuol dire che negli ultimi cinque anni del secolo il riscaldamento si è accelerato. La superficie coperta di neve, osservata dai satelliti, si è ridotta del 10 per cento dalla fine degli anni Sessanta; nel Ventesimo secolo il livello medio del mare e cresciuto tra 0,1 e 0,2 metri (per l'aumento termico degli oceani più caldi a cui si aggiunge il deflusso più rapido delle acque disciolte). La concentrazione atmosferica di CO2 dal 1750 è aumentata del 31 per cento; il livello attuale di CO2 nell'aria non è mai stato più alto negli ultimi 420mila anni e probabilmente (secondo una stima prudente degli scienziati, che indicano un 66-90 per cento di probabilità) negli ultimi venti milioni di anni. Il tasso di incremento attuale non ha precedenti negli ultimi ventimila anni, vale a dire dall'ultima era glaciale. Come facciamo a saperlo? Analizzando bolle d'aria catturate dai campioni prelevati a quattro chilometri di profondità nelle calotte glaciali dell'Antartide e della Groenlandia.

Grafici inquietanti

Anche agli occhi di un profano è chiaro che esiste una convincente evidenza scientifica del fatto che la nostra abitudine di bruciare combustibili fossili è responsabile di questi cambiamenti. L'ultimo rapporto dell'Ipcc contiene quattro grafici inconfutabili: le curve che mostrano le concentrazioni atmosferiche dei tre gas serra anidride carbonica, metano e protossido di azoto e la curva che mostra gli aerosol di solfato emessi insieme alle polveri e depositati sul ghiaccio della Groenlandia. Le curve rimangono allo stesso livello fino alla fine del Settecento e poi tutte e quattro cominciano a salire simultaneamente, avvicinandosi sempre più alla verticale con l'approssimarsi dell'anno 2000.

Il probabile aumento del riscaldamento globale viene analizzato in dettaglio dal Secondo gruppo di lavoro dell'Ipcc, un'altra commissione composta da insigni scienziati, in "Cambiamento climatico 2001: impatti, adattamento e vulnerabilità". La prima cosa che notiamo in questo rapporto e l'ampiezza delle sue previsioni. Per l'anno 2100, dicono, la temperatura media globale sarà cresciuta tra 1,4 e 5,8 gradi (da una variazione appena avvertibile a un'autentica calura), il livello medio del mare salirà da 0,09 a 0,88 metri (la profondità che separa una pozzanghera da uno stagno). Se nei prossimi mille anni le calotte di ghiaccio della Groenlandia e dell'Antartide occidentale si scioglieranno, il livello globale del mare potrebbe crescere fino a sei metri.

Ma prima di precipitarci alle scialuppe di salvataggio dovremmo osservare che questi mutamenti, a breve o a lungo termine, non saranno distribuiti omogeneamente: gli abitanti di alcune regioni potrebbero addirittura trarne dei benefici. Probabilmente staranno peggio quelli che già oggi se la passano male. Alcuni paesi insulari, come Kiribati, un gruppo di atolli del Pacifico che non superano i due metri di altezza sull'attuale livello del mare, potrebbero sparire completamente. Il Bangladesh, che ottiene tre raccolti di riso l'anno sul delta del Gange e del Brahmaputra, ma a prezzo di frequenti tragedie provocate da uragani e inondazioni, diventerà un paese ancora più a rischio per gli agricoltori. In generale peggiorerà la situazione alimentare, già pessima, dei piccoli contadini che praticano l'agricoltura di sussistenza, soprattutto in Africa. Si diffonderanno malaria, dengue e febbre gialla. Viceversa alcune zone dell'Asia meridionale e del Sudest asiatico che attualmente sono a corto di acqua probabilmente avranno dei vantaggi. Vaste aree della Russia, oggi coperte dal permafrost, potrebbero trasformarsi in terra fertile e la Finlandia potrebbe diventare una regione vinicola.

A questo punto le alternative sono tre: l'esaurimento del combustibile fossile (nell'ultimo secolo è andato in fumo il petrolio accumulato in 14 milioni di anni); la scoperta è la diffusione dell'impiego di fonti di energia alternative senza carbonio; oppure la vita in un mondo più caldo, più umido e bersagliato dalle tempeste, ma ancora abitabile da creature facilmente adattabili come noi.

Fantasilandia di Kyoto

Davanti a questo scenario inquietante, seppure ambiguo, i delegati di oltre cento paesi – diplomatici, politici e sciami di lobbisti (63 solo dalle compagnie petrolifere e carbonifere degli Stati Uniti) – si incontrarono a Kyoto nell'autunno del 1997 per stipulare un trattato sul riscaldamento globale. In un suo libro dal titolo profetico The Collapse of the Kyoto Protocol and the Struggle to Slow Global Warming (Bush non aveva ancora scagliato i suoi strali quando il manoscritto è stato completato), David Victor del Council on Foreign Relations di New York lo chiama "la fantasilandia di Kyoto" e in retrospettiva bisogna dire che non è mai esistita la possibilità di un accordo praticabile. Ma i delegati di Kyoto credevano di avere due precedenti incoraggianti. Nel 1985 Joe Farman, responsabile del British Antarctic Survey – il contributo del Regno Unito all'Anno geofisico internazionale del 1997 – raccontò a Nature un fenomeno bizzarro: nel decennio precedente lo strato di ozono (O3), che filtra le radiazioni ultraviolette del Sole, si era assottigliato del 50 per cento nei mesi estivi, contribuendo al riscaldamento globale e aumentando l'incidenza dei tumori della pelle e delle cataratte.

Finalmente si scoprì che il colpevole era il gas freon, o più esattamente il clorofluorocarburo (Ccf), creato nel 1928 dal chimico statunitense Thomas Midgley per Frigidaire della General Motors, come sostituto della velenosa ammoniaca liquida che era stata usata fino ad allora per i frigoriferi. Chimicamente il freon è quasi inerte, non velenoso e bolle a temperatura ambiente.
Andava benissimo per i condizionatori che proprio allora stavano entrando nel mercato. Nel 1974, quando la produzione annuale si avvicinava a un milione di tonnellate l'anno, emerse il dato che il freon aveva anche una proprietà inaspettata: esposto ai raggi ultravioletti negli strati superiori dell'atmosfera rilascia la sua componente di cloro, catalizzando la disgregazione di ozono al tasso di una molecola di Cfc 3800 di ozono. Non solo fuoriusciva dai nostri vecchi frigoriferi, ma lo usavamo come propellente per i deodoranti spray e come solvente industriale. E' intanto divorava buchi nello schermo solare di ozono sopra le nostre teste.

Furono immediatamente presi dei provvedimenti. Nel settembre del 1987 un protocollo, o bozza di trattato, era pronto per la firma a Montreal. Il capo negoziatore statunitense, Richard Benedick, pur ammettendo che la scienza era ancora lontana dall'essere esatta, sollecitò una risposta immediata. "Se dobbiamo commettere degli sbagli nell'adottare misure per proteggere lo strato di ozono, allora – consapevoli della nostra responsabilità davanti alle generazioni future – è meglio sbagliare eccedendo in prudenza", dichiarò. I delegati gioirono. I firmatari accettarono di dimezzare la produzione di freon e delle sue imitazioni entro il 1996. Ici e DuPont misero a punto un sostituto, gli idrofluorocarburi. Anche gli idrofluorocarburi sono gas serra, ma non danneggiano lo strato di ozono.

In tutto il mondo la produzione di Cfc doveva scomparire entro il 2010. Con il disincanto di un giornalista, Norman Moss riferisce in Managing the Planet (Gestire il pianeta) che i Cfc sono ancora prodotti clandestinamente in Russia e in Cina e contrabbandati nei paesi più ricchi, ma poiché sono voluminosi e non danno nessun piacere sniffandoli il commercio sta gradualmente scomparendo. Oggi il buco nello strato di ozono, secondo l'Organizzazione meteorologica mondiale, sembra restringersi lentamente.

I diritti dell'aria

Poi nel 1992, il congresso statunitense approvò un emendamento alla legge sull'aria pulita destinato a ridurre le emissioni di aerosol di solfato emessi insieme al fumo industriale che stavano danneggiando i polmoni degli americani e sfigurando le loro città. Gli americani non amano le leggi restrittive e adorano i mercati. Il risultato fu uno schema ingegnoso di scambio delle emissioni, valido soltanto all'interno degli Usa, modellato sul sistema dei "diritti dell'aria" esistenti a New York e in altre grandi città, secondo il quale i proprietari di edifici bassi possono vendere lo spazio non occupato sopra la loro testa ai grattacieli adiacenti, che perciò possono essere più alti. In base allo stesso principio il dipartimento per l'Ambiente assegna un limite agli impianti che emettono anidride solforosa (SO2), per esempio le centrali elettriche, e le emissioni vengono misurate da dispositivi sulle ciminiere controllati ogni Capodanno.

Le società che superano le quote stabilite dal dipartimento dell'Ambiente vengono attualmente multate di 2,5OO dollari per ogni tonnellata di SO2 in eccesso, ma e questa é la novità quelle che sono al di sotto della loro quota possono vendere la differenza al migliore offerente. All'asta del Chicago Board of Trade nel 1996, il prezzo era inferiore a 70 dollari alla tonnellata, ma da allora é aumentato. E, soprattutto, questo schema ha dato dei risultati. Non solo i colletti degli statunitensi che vivono nelle grandi città sono notevolmente più puliti, ma grazie anche al declino dell'industria pesante nell'altro grande paese inquinatore, l'ex Unione Sovietica negli anni Novanta sono diminuiti gli enormi depositi di aerosol di solfato nei ghiacciai della Groenlandia.

Uno scienziato britannico, il professor Michael Grubb dell'Imperial College di Londra, fu il primo a suggerire che questi due improbabili successi potevano diventare il modello per un assalto mondiale al riscaldamento del pianeta. I gas colpevoli potevano essere individuati, si potevano negoziare obiettivi e date per la loro riduzione, e le nazioni al di sotto delle quote assegnate avrebbero potuto cedere i loro "diritti di emissione" a quelle che superavano la loro quota: in breve, un "sistema di tetto e di scambio".

A rendere questo schema anche lontanamente plausibile fu l'appoggio di ambienti statunitensi molto autorevoli, la cui partecipazione e sempre stata considerata cruciale, non solo perché gli Usa sono i maggiori responsabili delle emissioni e l'unico pretendente alla leadership morale del mondo, ma anche perché sono il paese che detta lo stile di vita e (dopo un fumoso inizio britannico) il massimo esponente della civiltà degli idrocarburi, con i suoi condizionatori d'aria che trangugiano energia, le sue automobili, i suoi aeroplani e tutto il resto.

La sfida di Bill Clinton

AL GORE AVEVA SENTITO PARLARE dell'effetto serra ad Harvard, e nel 1992, l'anno in cui diventò vicepresidente, pubblicò La terra in bilico, sollecitando la collaborazione internazionale per combattere il fenomeno. Poco tempo dopo Bill Clinton lanciò una sfida altisonante in un discorso a Queensland: "Dobbiamo batterci insieme contro la minaccia del riscaldamento globale. Una serra può essere un buon posto per coltivare le piante; non é un luogo dove far crescere i nostri figli". Ma i paesi in via di sviluppo, ora che si uniscono alla nostra cultura degli idrocarburi, vogliono emettere più anidride carbonica, e non meno. Le emissioni pro capite della Cina sono appena un decimo di quelle statunitensi 2,3 tonnellate contro 20,1 e il gigante asiatico si oppone strenuamente a qualsiasi tetto. "L'Occidente", disse il ministro indiano per l'Ambiente Kamal Nath durante la fase preparatoria di Kyoto, "ha emissioni per il lusso. Le nostre sono emissioni per la sopravvivenza".

Nelle discussioni preliminari, oltre cento paesi in via di sviluppo chiesero di essere esentati dal tetto alle emissioni di anidride carbonica, ma alcuni accettarono di essere compensati se assorbivano un maggiore quantitativo di emissioni dei paesi ricchi. A un Senato statunitense dominato dai repubblicani, tutto questo apparve sospettosamente simile alla beneficenza obbligatoria, ovvero le tasse, e ispirò la Risoluzione Byrd-Hagel (approvata con 95 voti a favore e zero contrari): il Senato non avrebbe ratificato un accordo che non prevedesse "impegni specifici e scadenzati" dei paesi in via di sviluppo. Questo non impedì a Tim Wirth, sottosegretario di Stato degli Usa per le Questioni globali, di annunciare alla conferenza preparatoria di Ginevra: "Permettetemi di chiarire la posizione degli Usa: la scienza ci chiama a decidere azioni urgenti". Eppure già nel 1999, nei primi mesi della sua presidenza, Clinton non era riuscito a far approvare dal Congresso una tassa marginale sull'energia, la Btu Tax (gli statunitensi usano l'unita termica britannica, insieme alle miglia e alle pinte). Nel loro entusiasmo per Kyoto, Clinton e Gore si erano già spinti oltre quello che il Congresso era disposto ad accettare e questo quando un secondo Bush alla Casa Bianca non era neppure immaginabile.

Il vertice ad alto consumo

A motivare gli sforzi di Kyoto fu una sola frase del Secondo rapporto valutativo dell'Ipcc del 1999: "La somma dei dati raccolti indica una chiara influenza umana sul clima globale". Screditare la scienza dell'Ipcc é stata una delle linee d'attacco dei sostenitori di Bush. Se quella che studia il riscaldamento globale é ben lontana dall'essere una "scienza fasulla", come hanno sostenuto i critici di Kyoto, non é comunque la scienza che un politico probabilmente ricorda dai giorni del liceo o che gli elettori capiscono al volo. Il tempo e il suo continuo storico, il clima, sono fenomeni "caotici", dove piccoli cambiamenti in entrata possono determinare enormi variazioni in uscita, e una giornata calda può scatenare un uragano.
I fenomeni caotici oscillano fra limiti approssimativi, noti come "attrattori", ma questi ultimi a volte possono essere superati. I nuovi supercomputer grandi come una casa possono modellare una situazione caotica, ma neppure un computer grande come il Ritz potrebbe scrutare nel nostro futuro lontano. Eppure l'Ipcc ha potuto affermare con sicurezza che gli umani stanno provocando un eccessivo riscaldamento globale e ha saputo formulare un'ipotesi ben documentata sulle cause dell'effetto serra. Pieni di buone intenzioni e spronati da una data di scadenza, quasi diecimila delegati si dettero convegno a Kyoto nel 1997, usando varie forme di trasporto ad alto consumo di energia (alcuni europei arrivarono con la transiberiana), per salvare il mondo che conosciamo. "Se falliremo a Kyoto", disse Tony Blair, "condanneremo i nostri figli, perché le conseguenze si faranno sentire durante la loro vita". John Prescott si presentò di persona per bloccare qualunque opposizione, seguito da altri pesi massimi della politica. Clinton pressò Argentina e Brasile al telefono. A parte le fastidiose riserve del Senato statunitense, nessuno sembrava mettere in discussione la necessità di controllare il clima. Norman Moss e David Victor hanno scritto resoconti eccellenti delle interminabili discussioni di Kyoto, Moss più attento alla parte scientifica, Victor più critico sul piano di scambio, forse perché é statunitense. Ma i trattati del mondo reale sono negoziati da politici e diplomatici che pensano soprattutto alla loro posizione in patria, e già prima che i delegati di Kyoto si sedessero per l'allegro banchetto di benvenuto, gli interessi egoistici stavano visibilmente oscurando l'entrata.

Chi emette cosa

Emissioni CO2IL PROGETTO CONCORDATO A Kyoto ormai ha un interesse prevalentemente accademico, eccetto forse come lezione pratica di futilità. La proposta di tetto e scambio di Michael Grubb fu entusiasticamente sostenuta dall'amministrazione Clinton e in due mesi di intense, per non dire frenetiche, trattative nessun altro approccio venne preso seriamente in esame. Il primo problema fu convenire una stima di chi stava emettendo che cosa. Le cifre approssimative erano accettabili dai paesi "in via di sviluppo" (cioè poveri), che erano presenti in forze per escludere se stessi da ogni tetto, e che in ogni caso emettono quantitativi pro capite modesti – la Cina 2,3 tonnellate, l'America Latina 2,2, l'Africa meno di una mentre i paesi industrializzati facevano dei calcoli ragionevolmente affidabili. Per evitare l'accusa di barare sulla data di 'partenza, si convenne che il 1990 era un buon numero tondo sufficientemente lontano nel passato, e fu fissato l'obiettivo di riportare le emissioni globali al livello del 1990 nel periodo 2008-2012.

Il sogno irraggiungibile

Non che questo sogno ormai irraggiungibile avrebbe fermato il riscaldamento globale: l'anidride carbonica che abbiamo già emesso resterà nell'atmosfera per almeno altri cento anni.
Ma sarebbe stato un inizio, e avrebbe potuto rallentare il tasso di crescita delle emissioni. Il 1990 come anno di partenza causò proteste e accuse di ingiustizia. Quelli che Kyoto chiama con tatto "paesi riformatori", cioè l'Europa dell'Est e l'ex l'Unione Sovietica, hanno visto crollare la loro industria pesante e sono al di sotto dello 0,6 per cento rispetto ai livelli del 1990.
O per dirla in altri termini, questi paesi (con la Russia e l'Ucraina in particolare vantaggio) potevano avere 6,9 miliardi di tonnellate di diritti di emissione da vendere ai grandi emettitori, America del Nord, Europa occidentale, Giappone, Australia e Nuova Zelanda (tutti paesi dell'"Annesso 1" nel gergo di Kyoto, cioè prosperi). Nell'insieme, gli anni Novanta erano stati un buon decennio inquinante per tutti i paesi dell'Annesso 1, perciò noi dovremmo ridurre le nostre emissioni del 7,4 per cento rispetto ai livelli del 1990: questo obiettivo è vicino a un miliardo di tonnellate di anidride carbonica all'anno.

L'Australia, campionessa di emissioni (16,6 tonnellate a testa) è un grosso esportatore di carbone verso altri emettitori cronici, riuscì a negoziare un obiettivo negativo – e forse una quota da vendere – sostenendo che nel 1990 c'era stato un disboscamento anomalo del bush, zona verde ad alto assorbimento di carbonio. La Ue presentò un suo accordo nell'accordo: un impegno congiunto, o "bolla", per ridurre le emissioni globali dell'8 per cento rispetto ai livelli del 1990, mentre i membri più poveri, Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, furono autorizzati ad aumentare le loro – addirittura del 27 per cento nel caso del Portogallo. La Francia, che ricava il 60 per cento della sua energia dalle centrali nucleari, non assunse nessun impegno, la Gran Bretagna e la Germania se la cavarono benone perché erano già scese al di sotto dei loro livelli di emissione del 1990 – la Gran Bretagna deindustrializzandosi e passando dal carbone al metano, la Germania modernizzando la Germania orientale. Prescott disse che la Gran Bretagna poteva assicurare una riduzione del 17 per cento e forse persino raggiungere il 20.

Questo lasciò Stati Uniti e Canada due paesi con una fame pantagruelica di energia e troppo grandi per gli spostamenti in bicicletta alla maniera giapponese davanti alla necessità di tagliare le loro emissioni rispetto al 1990 di circa il 7 per cento. Come convincere gli americani a spegnere le luci, abbassare i termostati e andare a piedi? Alcune lungimiranti aziende statunitensi avevano già affrontato il problema, anche se in misura modesta. Di solito è più economico ridurre le emissioni nei paesi poveri che in quelli ricchi, e all'atmosfera non importa dove vengono fatti i tagli. Sin dal 1993 gli Usa avevano lanciato un'Iniziativa di attuazione congiunta, e a tutt'oggi sono stati spesi 450 milioni di dollari per 25 progetti da realizzare in Russia e America Latina: investendo in fonti di energia rinnovabili come dighe e centraline eoliche oppure piantando alberi e rinnovandoli, con gli alberi vivi che servono da "assorbitori" del carbonio. La Applied Energy Services, per esempio, ha piantato 52 milioni di alberi in Guatemala, che si calcola possano assorbire il carbonio emesso dal suo nuovo impianto a carbone in Connecticut (il trucco e che gli alberi, alla fine, potrebbero essere tagliati e bruciati). Gli olandesi aggiungono una piccola tassa alle bollette elettriche per finanziare la forestazione di paesi più estesi.

Kyoto cercò di universalizzare quest'idea istituendo un Fondo per lo sviluppo pulito, grazie al quale le multe pagate dai paesi che superano le quote assegnate sarebbero state usate per aiutare i paesi poveri a limitare le loro emissioni gia scarse e ad adattarsi agli inevitabili cambiamenti climatici. Gli emettitori ricchi non sembravano troppo entusiasti fino a quando i sostenitori brasiliani del progetto (da cui il Brasile avrebbe tratto parecchi vantaggi) proposero una delle poche concessioni di Kyoto alla politica del mondo reale, anche se in realtà era una modifica puramente cosmetica: cambiare il nome del Fondo in "meccanismo" e chiamare le multe per il mancato rispetto delle quote "contributi per l'osservanza". La proposta suonava sospettosamente ecocolonialista a un delegato africano, che chiese arrabbiato: "Perché i governi africani dovrebbero permettere che la loro terra sia usata come una latrina per assorbire le emissioni delle seconde macchine americane?". Per fare soldi, rispose Kyoto. E cosi il Meccanismo per lo sviluppo pulito andò ad aggiungersi al grande armamentario dei sogni della conferenza.

Gli ultimi quindici giorni di Kyoto rasentarono l'allucinazione, con liti furibonde in corridoi affollati e tumultuose sessioni notturne seguite da postumi di sbornia di classe mondiale. Trenta delegati finirono in ospedale, disidratati ed esausti. Nella sessione finale, che durò tutta la notte, i delegati statunitensi salirono sulle sedie cercando di farsi dare la parola dal presidente argentino, Raul Estrada Oyuela. Alcuni dormivano. Poco dopo le dieci del mattino dell'11 dicembre 1997, dopo l'aggiunta di alcune formulazioni deliberatamente imprecise, Estrada diede il via alla votazione. Svegliati dal sonno, alcuni delegati in seguito ammisero di non sapere per cosa avevano votato. Ottantaquattro paesi firmarono il protocollo nella sede dell'Onu a New York. Clinton firmò per gli Stati Uniti in un incontro successivo a Buenos Aires. Insieme, i paesi firmatari emettono l'88 per cento dell'anidride carbonica globale in eccesso. Dopo Kyoto non è successo niente di speciale: la Terra ha avuto tre anni più caldi, mentre tutti aspettavano che gli Stati Uniti ratificassero l'accordo. Poi Bush ha parlato.

Il debito con il futuro

E ORA COSA SUCCEDERA’? A PARTE IL perenne ciclo statunitense di bastone e carota, alcuni segnali inquietanti indicano che potremmo trovarci in un interludio fra due guerre, come negli anni Venti. Regna la pace più o meno ma le armi proliferano, e il mondo si sta dividendo in campi avversi. Lo schieramento finale è confuso come lo era nel 1928, quando i bolscevichi erano dei paria, Hitler era uscito di scena, e nessuno immaginava che capitalisti e comunisti potessero stringere un'alleanza contro qualcuno.
Il fiasco di Kyoto ci ha lasciati nello stesso clima di sospetto reciproco. Da una parte ci sono Europa e Giappone, comunità nazionali molto più antiche della rivoluzione industriale, che non hanno mai apprezzato i cumuli di scorie e le ciminiere. Le bianche scogliere di Dover, le fitte foreste della mitologia teutonica, la spiaggia di Saint-Tropez e il cono immacolato del monte Fuji hanno un ruolo centrale nell'identità nazionale. Il combustibile fossile, se continueremo a ingozzarci, li distruggerà tutti. Dalla parte opposta c'è il Nuovo Mondo democratico, guidato dai suoi membri più energici, Stati Uniti, Canada e Australia, campioni di emissioni pro capite, che con discrezione stanno formando un fronte comune contro Kyoto.

Come negli anni Trenta, i soliti indecisi guardano in entrambe le direzioni. La Russia non vuole che San Pietroburgo scivoli sotto il Baltico, ma non ha nulla in contrario allo smaltimento delle scorie nucleari nel cortile siberiano, che aveva gia dovuto farsi carico dell'industria pesante di Stalin. La Gran Bretagna, soprattutto le contee intorno a Londra, strepita per le bianche scogliere, ma il paese è spaccato fra nord e sud, fra ecorealisti ed ecosentimentali, e spera di avviare la sua industria nucleare comprando i reattori statunitensi, senza avere la minima idea di cosa farà delle scorie. La Cina con ogni probabilità seguirà l'esempio del Giappone: inquina in fretta, ripulisci con calma. L'India vuole estrarre più petrolio. La frase fatidica del Secondo rapporto dell'Ipcc solleva, sommessamente, una nuova questione: nessuno si è mai reso veramente conto che, come specie, abbiamo la responsabilità collettiva del pianeta. Siamo ancora in dubbio sui nostri attuali debiti reciproci, e ora dobbiamo decidere se e quanto siamo in debito con le prossime dieci o cento generazioni.

Se il riscaldamento globale ha una soluzione, può venire soltanto dalla solidarietà umana e dal rispetto di sè che Smith sperava potessero mitigare la miope ingordigia di una società puramente commerciale. Accoppiata, per il momento, al nome di George W. Bush. (G.G.)


La conferenza di Bonn

Il protocollo salvato

Con il Protocollo di Kyoto sulla diminuzione delle emissioni di gas a effetto serra, firmato nell'omonima città giapponese l'11 dicembre 1997, i paesi industrializzati si erano impegnati a ridurre- tra il 2008 e il 2012 l'emissione dei gas nocivi di almeno il 5 per cento rispetto ai livelli del l990. II protocollo è stato firmato da 84 paesi ma l'hanno ratificato solo 37 e sulla sua strada ha incontrato molti ostacoli. Ultimo in ordine di tempo il no alla ratifica annunciato dal presidente statunitense George W. Bush nel marzo scorso. Un no che ha rischiato di ottenere l'appoggio anche del cosiddetto Gruppo Umbrella formato tra l'altro da Canada, Russia, Australia e Giappone, elemento fondamentale per le sorti del protocollo. Il Gruppo è però tornato sui suoi passi durante la Conferenza Onu sull'ambiente che si è svolta a Bonn dal l6 al 27 luglio e sulla quale pesava il fallimento dell'incontro precedente all'Aja, nel novembre 2000. A Bonn è stato accolto il compromesso presentato dal presidente della Conferenza, il ministro dell'Ambiente olandese Jan Pronk. Un compromesso criticato da più parti come inefficace per contrastare l'effetto serra ma giudicato comunque come un primo passo concreto in quella direzione.





 

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