Prigionieri e prigioniere politiche

Ancora una volta la possibilità di far approvare una legge di indulto è fallita. Ormai sono otto anni che vanno avanti questi tentativi senza che si riesca a giungere ad un provvedimento. In questa occasione la necessità di una soluzione politica che chiudesse un periodo storico è stato posta dalle alte cariche istituzionale: il Presidente della repubblica e della camera Violante.
Ed anche se Scalfaro ha parlato di una soluzione " non generalizzata ", il suo intervento è stata interpretato dal mondo politico come un’apertura ad una legge d'indulto. Le alte cariche dello Stato hanno usato il problema della soluzione per i prigionieri politici del conflitto armato degli anni 70, in occasione dei 50 anni della Repubblica, per porre la necessità di una pacificazione dei conflitti seguiti alla lotta di liberazione nazionale. Quindi si riconosce che un conflitto c'è stato. Ed è stato un conflitto cruento che ha lasciato lutti da tutte e due le parti. Se ai "ragazzi di Salò" si riconosce che avevano le loro ragioni, anche le generazioni della lotta armata ( 5.000 arrestati ) furono spinte da ragioni ideali, in un contesto storico nazionale e internazionale fortemente segnato da uno scontro sociale e politico violento. Il fatto che le alte cariche istituzionali sentano la necessità di porre il problema di una soluzione politica è la dimostrazione di quanto i detenuti politici facciano ormai parte del vissuto storico del paese. Questo indipendentemente dalla volontà e dai giudizi dei singoli e dalla incapacità del ceto politico, nel suo insieme, a dare soluzione al problema per interessate ricostruzioni politiche e miserabili calcoli elettorali. Questo è l'unico aspetto concreto, da cui occorre partire per investire in ogni modo la società reale. Le prese di posizione ai livelli alti delle istituzioni ha fatto credere, agli addetti ai lavori, che questa volta ci fosse qualche possibilità di giungere ad un provvedimento.
Tant'è che la lobby dei tangentisti, Casini, segretario del Ccd in testa, ha subito alzato il prezzo, per legare la soluzione politica per i prigionieri politici a quella per tangentopoli. In una lettera al Corriere della sera Casini affermava che non si poteva avere "una doppia morale": tenendo in carcere chi ha usato il voto di scambio e del finanziamento illegale dei partiti, con cui la classe politica della prima repubblica ha governato; e scarcerando chi ha usato la violenza politica per sovvertire quella dirigenza politica. Occorre avere, a questo punto, la determinazione e la forza di dire che le responsabilità maggiori dell'esplosione del conflitto armato sono dello Stato e della classe dirigente al potere allora, (servizi segreti e interessi internazionali compresi) con le bombe del 69 e la strage di Piazza Fontana.
Un atto di vero e proprio terrorismo, che impediva a tutti di dirsi innocenti da quel momento in poi, e che metteva fine all'alibi di una democrazia pacifica. 10 anni di stragi impunite lo stanno a dimostrare, cosi come le decine di militanti di sinistra uccisi dalle forze di polizia durante le manifestazioni di massa. Non era un democrazia pacifica, se neanche con il 51% si potevano vincere le elezioni e fare i cambiamenti richiesti dalle lotte sociali. E questa non era una convinzione solo della sinistra rivoluzionaria di quegli anni, ma la constatazione del segretario del più grande partito comunista dell'Europa occidentale all’opposizione, con il 36% di voti. Il PCI cercava un compromesso "storico" con la DC: - il partito di mafiosi, stragisti e corrotti, dove chi non era colpevole era comunque complice, sapeva e taceva -, per evitare che anche in Italia si ripetesse l'esperienza Cilena, dove un governo di sinistra democraticamente eletto, fu rovesciato dai militari con la complicità della DC cilena, e l'appoggio Americano. Ora che anche questa tornata di chiacchiere e proposte sull'indulto si è chiusa, ancora una volta senza concludere nulla, come negli ultimi 8 anni, dobbiamo decidere cosa fare.
Con raffinati ragionamenti politici, che farebbero quadrare il cerchio, potremmo arrivare a concludere che ci sarà l'occasione, tra qualche anno, magari con la Bicamerale e le riforme istituzionali conseguenti. Ovviamente sappiamo che tutto questo non è vero, perché ragionamenti raffinati non si addicono in una situazione di scontro per bande di potere, armate o meno, che si sta svolgendo all'interno dello Stato tra parlamento e Magistrati; partiti politici, forze economiche e boiardi di Stato. Uno scontro diverso da quello degli anni 70 certo. In quel decennio, infatti erano gli operai e le classi subalterne, a contendere alla borghesia, a una classe politica corrotta e mafiosa il potere politico, per difendere il quale questi ultimi non esitarono a scatenare una reazione terroristica fatta di stragi. Questo è stato lo snodo politico che ha caratterizzato il conflitto degli anni 70 e che ha animato le passioni di migliaia di giovani, di settori operai, di pezzi importanti di società che non intravedevano nelle risposte delle classi dominanti la soluzione ad alcuna richiesta di dignità e giustizia accettabile, ma unicamente il perpetuare di un sistema sociale economico e politico profondamente ingiusto. Incapace di rappresentare l'interesse collettivo, geneticamente predisposto e strutturato a difesa di interessi diametralmente opposti a quelli dello studente proletario, dell'universitario deprofessionalizzato, del disoccupato, dell'operaio sfruttato, della donna discriminata, delle diversità rimosse e represse.
Riconoscere la legittimità politica a chi ha combattuto per una società diversa significa per forza di cose ammettere che questa società deve essere diversa e che le operazioni di facciata finiscono per eludere e spesso per acutizzare piuttosto che risolvere le ragioni profonde di un frattura sociale, di una ingiustizia di fondo che attraversa e frantuma la società. Per i partiti di centro sinistra, a parte lodevoli eccezioni, questo è impossibile. Oltre l'interesse di classe, c'è un concetto di democrazia e di giustizia che fa da spartiacque, divide e caratterizza il dibattito politico sulla prigionia, cosi come su ogni questione sociale o istituzionale. Nel terzo settore come sull'immigrazione, sul lavoro come sui diritti, fino al sistema di rappresentanza politica si sente il peso di una concezione sociale profondamente elitaria, discriminante, autoritaria, sicuramente non alternativa ai processi di globalizzazione che condizionano il dibattito e la cultura politica. La stessa questione delle vittime e della violenza politica decontestualizzata diventa lo specchio deformante con il quale si cancellano i costi tremendi di un conflitto lacerante, profondo, vero che ha visto tante vittime, tante stragi e che nessuno può permettersi di dimenticare.
Come area di prigionieri politici abbiamo sempre sostenuto che mai si sarebbe arrivati alla liberazione dei prigionieri politici, se non ci fosse stato un dibattito a più voci, che ricostruisse il contesto storico, le ragioni e le scelte politiche di tutti i soggetti che hanno vissuto quel conflitto cruento ; che facesse chiarezza nell'opinione pubblica, e riequilibrasse i giudizi e le verità sul perché di quello scontro. Questo renderebbe un paese più cosciente e maturo, in grado di riappropriarsi della propria storia e non vivere nell'oblio, senza memoria. Occorre che una parte della società, quella più sensibile - non compromessa con il potere, né con il pensiero dominante - le realtà sociali della sinistra di base si facciano carico del problema della soluzione politica dei prigionieri . Che lo tolgano dalle mani di un ceto politico incapace e compromesso, per portarlo a vivere nella società reale attraverso i molteplici e diversi linguaggi con cui oggi comunica. Per far sì che un paese maturo si riappropri della propria storia e memoria senza la censura dei poteri "occulti", ai quali interessa di più un paese senza memoria! L'unica memoria che resta oggi è solo quella dell'emergenza, come politica concreta dello Stato per affrontare le questioni sociali, i diritti, i conflitti: l’armamentario emergenziale, dunque, è divenuto l'unico modo con cui si rapporta. Un paese senza memoria, incapace di elaborare le ragioni, ormai divenute storia, dello scontro sociale degli anni 70, è un paese che si incarognisce nell'affrontare i problemi dell'oggi, problemi vecchi e nuovi, riuscendo unicamente a cancellare tutte le conquiste precedenti, senza la capacità di elaborare soluzioni che aiutino ad arricchire la coscienza sociale del paese. Non a caso l'area che oggi in particolare subisce ancora questa cappa emergenziale sono i centri sociali e tutte le forme autorganizzate di base dei lavoratori che difendono i diritti delle classi più deboli.
Un paese senza memoria è un paese senza storia; senza storia è un paese senza coscienza dell'oggi. Ormai ci chiediamo e chiediamo a voi, se non ci sia una volontà politica di impedire ai prigionieri, che non si sono né pentiti né dissociati, di parlare, prendere parola sulla storia degli anni 70 senza dover raccontare versioni di comodo, ravvedute e corrette ad uso delle ricostruzioni di partito, ed essere testimoni scomodi di quel periodo storico - di cui tutti parlano solo per scaricare su altri le responsabilità delle loro scelte e della sconfitta politica. Forse questo silenzio si romperà solo, e una volta che sia consumata una vendetta di Stato, quando i prigionieri politici finiranno la loro esistenza in carcere, o in una "libertà" senza diritto di parola. Crediamo che i Centri Sociali in prima persona possano farsi promotori della lotta per la liberazione dei prigionieri politici, perché pensiamo da sempre che siano il soggetto sociale e politico più legittimato storicamente a rivendicarli. Crediamo che sia anche un percorso da seguire come riappropriazione di memoria e identità per l'antagonismo sociale, culturale che oggi essi esprimono e rappresentano. Ci piacerebbe che tutta l'area dell'antagonismo "allo stato presente delle cose", fosse in grado di rappresentare ed essere depositaria della memoria dell'"altra storia"; quella scritta dalle lotte sociali e dai movimenti rivoluzionari comunisti di questo paese.
Di sottrarla alla penna dei "vincitori". Che un patrimonio umano di esperienze e coscienza, non si disperda, che non accada ciò che è accaduto con la generazione di comunisti precedente la nostra, con cui è stato reso impossibile ricostruire un percorso comune di riflessione sull'"utopia" possibile nel presente.

Pasquale Abatangelo, Renato Arreni, Paolo Cassetta, Geraldina Colotti, Prospero Gallinari, Maurizio Locusta, Remo Pancelli, Teresa Scinica, Bruno Seghetti.

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