Permettete una parola?...


Navigando tra giornali e riviste delle ultime settimane, dove un po' tutti sembravano impegnati a sottolineare i disagi psicofisici della detenzione (cautelare o meno poco importa), abbiamo avuto modo di leggere su "Famiglia cristiana" la seguente e un po' bizzarra dichiarazione del Ministro Flick: "Quanto ai suicidi i dati dimostrano che è un fenomeno in contrazione. Su questa materia c'è troppa emotività che produce pendolarismo un po' in tutti". Negli stessi giorni, il Presidente dell'Associazione Nazionale Medici Penitenziari, in una intervista al "Tempo", prospettando un sicuro peggioramento dei problemi sanitari nelle carceri, affermava invece: "E i suicidi aumentano, in genere sono 40-50 l'anno mentre negli ultimi tre mesi sono stati oltre 30". Noi carcerati, come soggetti direttamente interessati, non riteniamo molto simpatico entrare nel calcolo statistico dei suicidi, e francamente avremmo voluto un po' più di serietà da parte di tutti coloro che su questo argomento si sono espressi pubblicamente.
Tanto per essere chiari, ci riferiamo alle posizioni di chi trova il coraggio per scandalizzarsi soltanto in occasione della morte di "uomini illustri", oppure quelle di chi per decenni ha massacrato il Diritto anche in materia di custodia cautelare e oggi sottolinea l'assurdità della stessa per "i poveri diavoli", ossia i tanti di noi "signor nessuno", italiani o stranieri, che riempiono le galere. Se la loro non è ipocrita demagogia, lo dimostrino con i fatti!
Oltretutto, noi siamo così "di parte", "emotivi" e tanto poco moderni da essere convinti che ogni gesto autolesionistico (avvenga esso dentro o fuori le mura del carcere) è ancora oggi, come mille anni fa, un tremendo "grido" contro la realtà in cui, volontariamente o meno, si vive o si è costretti a vivere.
Crediamo sia allora facile capire, per ogni persona intellettualmente onesta, perché in un Paese in cui ancora oggi si privilegia la risposta detentiva ai tanti problemi di carattere sociale, politico/amministrativo e finanche culturale che generano le cosiddette micro e macrocriminalità, è praticamente inevitabile una situazione di sovraffollamento permanente delle carceri. Con tutti i problemi relativi, compreso appunto l'autolesionismo.
Questa è una particolare forma di protesta che troppe volte è persino facilitata dal fatto che la nostra umiliazione quotidiana viene accentuata dal cinismo di una parte della custodia, e dalla quasi totale latitanza dai Reparti e dalle Sezioni di molti di quegli operatori (come i medici, i dirigenti sanitari, gli psicologi, gli educatori e via dicendo) che formalmente dovrebbero invece assolvere al compito di "osservare" la complessità psicofisica di ognuno di noi, seguendolo e aiutandolo per lo meno nei tanti problemi sanitari, legali e burocratici che fanno parte della nostra quotidianità.
Secondo noi queste "grida" esprimono allora l'esigenza di essere ascoltati e soprattutto di poter ascoltare e "toccare con mano" ciò che matura nella società esterna. Esse costituiscono quindi un'ulteriore dimostrazione dell'impossibilità di "rieducare" e "risocializzare" attraverso un sistema punitivo fondato sulla reclusione, che già di per sé ha un effetto traumatizzante e deprimente poiché sminuisce la dignità degli uomini e delle donne detenuti.
Tutti questi problemi sopraesposti sono inoltre accentuati quando vengono vissuti dai detenuti stranieri oppure da quelli italiani sballottati a centinaia di chilometri dalla propria famiglia. Ancor più opprimenti lo sono se vengono vissuti da uomini e donne affetti da gravi malattie o detenuti in carceri e sezioni speciali, dove, essendo addirittura esclusi anche dalle più semplici attività ricreative e culturali previste dall'Ordinamento Penitenziario, vivono una sorta di angoscia permanente.
E' allora per noi lecito chiedere come sia possibile non rendersi conto che la limitazione del danno prodotto dal reato può aversi anzitutto "costringendo" il soggetto a ricomporre su di un piano più alto quel complesso di relazioni, prime fra tutte quelle con la famiglia, con il mondo del lavoro, della cultura, con l'altro sesso e con tutte le attività sociali che caratterizzano la specie umana!
Ogni forza politica (sia essa di maggioranza o d'opposizione) che voglia seriamente contribuire alla risoluzione di questi drammatici problemi, deve avere il coraggio di ascoltare e interpretare correttamente queste "grida", con la consapevolezza che continuare a vendere fumo ai detenuti è semplicemente da incoscienti.
Esse devono quindi sostenere quelle proposte innovative che già nell'immediato servano realmente a sfoltire le carceri e a rendere più vivibile, nel limite del possibile, la detenzione. E soprattutto abbiano il coraggio di esporsi pubblicamente, iniziando a delineare la concreta prospettiva di un nuovo "sistema punitivo" che non sia più fondato sulla reclusione, bensì faciliti la reale risocializzazione attraverso l'estensione di attività lavorative e culturali esterne al carcere.
È anche per costruire un'alternativa all'autolesionismo, all'individualismo e alla disgregazione, che è nata e si sta sviluppando la particolare attività di quei detenuti di Rebibbia che rifiutano di sottostare alla pratica dei piccoli, continui ricatti che caratterizzano il carcere, e operano per coniugare la denuncia dei problemi quotidiani con il "semplice" fine del superamento della galera.

Rebibbia, agosto 1996



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