Egregi Assessori,
a nessuno sfugge la gravità del fenomeno della disoccupazione , prodotto assurdo di uno sviluppo tecnico e scientifico a cui non corrisponde un effettivo e generalizzato progresso sociale. Ciò non di meno, vogliamo tentare di affrontare, seppur da una condizione estremamente difficile e alquanto " stretta ", un problema di civiltà che prima o poi andrà risolto : la reale funzione che può svolgere il lavoro nella " rieducazione e risocializzazione " di chi ha violato la legge.
È senz'altro vero che ogni serio progetto di prevenzione generale dei comportamenti illegali, che riguardi milioni di persone giovani e meno giovani e che non sia fondato sulla pura e semplice repressione, è molto costoso e richiede un lungo periodo per la sua applicazione.
È però vero che, già oggi, la costruzione di significative esperienze lavorative può aiutare gli uomini e le donne che stanno pagando per i reati commessi, a costruirsi una quantità e qualità di relazioni che gli permetteranno di affrontare i tanti piccoli e grandi problemi della vita in modo diverso dal passato. Ed è inoltre provato che il costo di queste esperienze è senz'altro minore del danno e dell'allarme sociale che aiutano a prevenire.
In linea generale, noi riteniamo che ogni ipotesi innovativa nel rapporto tra i detenuti e il mondo del lavoro deve basarsi sulla costatazione del fallimento storico della pretesa di "risocializzare recludendo", ossia dell'assurda idea di modificare in positivo la coscienza degli uomini comprimendo quasi completamente le loro più importanti relazioni sociali, quali sono quelle con la famiglia, con la scuola e la cultura in generale, con l'altro sesso e, appunto, con il mondo del lavoro.
Ristabilire, o stabilire per la prima volta un rapporto con il lavoro è quindi un passaggio fondamentale per la trasformazione qualitativa della personalità, in quanto è la condizione indispensabile per garantire almeno una sufficiente autonomia economica e per ri/costruire ogni giorno la necessaria autostima.
Ma un primo ostacolo allo sviluppo di un nuovo rapporto tra i detenuti e il lavoro è di natura "interna", ed è costituito proprio da quello stupido criterio pedagogico che vige, inevitabilmente, in un sistema penale fondato sulla reclusione e si esprime nel binomio premio/punizione. In tale contesto, anche il lavoro all'interno diviene troppe volte un elemento "premiale" che ha ben poco a che vedere con una reale crescita complessiva del detenuto.
Un tale ostacolo non è ovviamente superabile se non attraverso una radicale trasformazione del rapporto reato/pena, e perdipiù i continui tagli agli stanziamenti destinati alla remunerazione dei lavori interni non fanno altro che inasprire la "concorrenza" tra noi detenuti, dando vita a comportamenti clientelari che sono quanto di meno educativo vi possa essere in carcere.
Anche per la concessione del tanto declamato "lavoro esterno", la situazione e le modalità di concessione non sono certo diverse, visto che ancora nel 1996 i detenuti che ne usufruivano in tutta Italia erano niente popò di meno che...371!! E soltanto 1432 erano coloro che godevano della semilibertà.
Un secondo problema, che và affrontato già nell'immediato ma con lo sguardo rivolto al futuro, è costituito invece dal modo in cui vengono programmati e attuati i vari "corsi di formazione professionali", che sono quasi raddoppiati dal '90 ad oggi. Ciò che si evidenzia è la concentrazione delle risorse in corsi che vengono scelti esclusivamente su esigenze interne all'istituto (tipo: cuochi, giardinieri, muratori, etc...) senza che vi sia alcuna relazione con le richieste esistenti nel mercato del lavoro di questa o quella Regione.
A nostro avviso, si possono invece utilizzare queste esperienze dei corsi come "collettori" per facilitare un effettivo reinserimento all'esterno, e per farlo basterebbe costituire un "raccordo permanente" tra il Ministero, gli Enti locali, le associazioni del volontariato e tutte le diverse associazioni imprenditoriali (da quelle dell'artigianato a quelle degli agricoltori, da quelle dei commercianti a quelle della piccola, media e grande industria).
In questo modo, la programmazione del quanto e del dove investire risorse nei corsi di formazione, sarebbe basata sulla reale situazione presente e sulle ipotesi di sviluppo nei diversi settori del mercato del lavoro.
E' ovvio che questa diversa impostazione, a differenza di ciò che oggi avviene, permetterebbe ai detenuti partecipanti di avere delle notevoli possibilità di trovare un posto di lavoro una volta usciti del carcere (rispettando ovviamente una predeterminata percentuale di assunzioni di "soggetti deboli", onde evitare che i detenuti divengano una sorta di nuovi privilegiati).
Anzi, la nostra idea e che già la stessa frequentazione dei corsi non dovrebbe avvenire esclusivamente all'interno dei carceri, bensì all'esterno, nelle sedi di Aziende o Enti Pubblici dove normalmente vengono svolti per le persone libere. Sarebbe, insomma, una sorta di estensione dell'applicazione dell'art. 21 già nel periodo della formazione professionale.
Ci sembra peraltro fuori discussione che la pos
sibilità di assumere detenuti da parte di privati ed Enti pubblici non può e non deve avvenire attraverso una penalizzazione del salario, bensì deve essere incoraggiata con sgravi fiscali e facilitazioni di vario tipo, le quali, probabilmente, per una prima fase dovrebbero avere carattere regionale o addirittura comunale, visto che sarebbe alquanto difficile poterle oggi formalizzare con una legge generale valida per tutto il paese.
Noi certo non siamo così ingenui da illuderci sulla facile attuabilità delle nostre idee, vista l'estrema gravità del problema disoccupazione, epperò, essendo molto testardi , riteniamo che l'effettivo progresso sociale di un paese passi anche di qui.
Roma, lì 27gennaio 1997
Papillon