L'incontro con Sante ha avuto luogo negli studi di Radiondarossa 
    di Roma il 21 gennaio 2000. Sante si è recato a Roma in quell'occassione 
    per festeggiare la definitiva riconquista della libertà piena (e non 
    più condizionale come negli ultimi anni). Il saluto con compagn@ e 
    amic@ di Roma è avvenuto al Csoa Ex-Snia Viscosa a partire dal pomeriggio 
    del 21 gennaio nel corso dell''iniziativa "Ricominciamo da Sante". 
    In serata, attorno a un'imponente tavolata, si è mangiato, bevuto, 
    chiaccherato. Amicizie e legami di anni, ma anche persone che si incontravano 
    lì per la prima volta e che con naturalezza hanno saputo entrare in 
    sintonia tra loro e condividere lo stesso clima di festa. Quella sera non 
    sono serviti discorsi per far sentire vicine generazioni diverse. Libertà 
    è stato l'unico discorso, semplice, chiaro, capace di essere compreso 
    da tutt@ e di mettere tutt@ in comunicazione.
    La mattina del 21 gennaio Sante si è recato negli studi di Radiondarossa 
    per una trasmissione alla quale hanno partecipato un compagno di Liberiamoci 
    del carcere, un compagno e una compagna del Csoa Ex-Snia Viscosa. Riportiamo 
    qui di seguito la trascrizione di quella mattinata radiofonica. Abbiamo scelto 
    di riprodurre fedelmente quanto detto dai microfoni, per cercare di dare un'idea 
    del clima così comunicativo che Sante ha saputo creare quella mattina 
    negli studi della radio.
| L'intervista | Chi sta dentro | Chi sta fuori | Rapporti | Difficoltà | Prospettive | 
Ror 
    
    Un saluto a tutte le persone in ascolto e in particolare a 
    chi in questo momento sta ascoltando Radiondarossa dalle carceri di Rebibbia, 
    Regina Coeli, dall'Istituto Penale minorile di Casal del Marmo, dal Centro 
    di Permanenza Temporanea di Ponte Galeria, a chi si trova agli arresti domiciliari 
    o è latitante, a chi è privat@ in qualsiasi forma della propria 
    libertà personale.
    Siamo qui con Sante Notarnicola, oltre venti anni passati in carcere, costretto 
    per i continui trasferimenti a transitare per quasi tutti gli istituti di 
    pena italiani. Venti anni di reclusione caratterizzati da una forte e continua 
    battaglia per la libertà, che ha visto Sante protagonista delle varie 
    fasi di lotta all'interno del carcere: prima con il movimento dei "dannati 
    della terra" che all'inizio degli anni '70 si mobilitò in tutti 
    gli istituti della penisola ottenendo nel 1975 la Riforma carceraria, un provvedimento 
    che in parte tradiva le richieste dei detenuti, ma che sicuramente senza quella 
    lotta non avrebbe visto la luce. Dalla fine degli anni '70 la battaglia di 
    Sante proseguì con un avvicinamento alle organizzazioni combattenti 
    che riempivano sempre più le patrie galere, fu il periodo delle carceri 
    speciali quando lo stato utilizzò l'isolamento, l'annientamento psicofisico, 
    la dissociazione e il pentitismo per fiaccare la conflittualità all'interno 
    del carcere; nel 1988 Sante ottiene il regime di semilibertà e poi 
    la liberazione condizionale 
 fino ad oggi, gennaio del 2000, che ci 
    troviamo a festeggiare il definitivo esaurirsi dei suoi "conti con la 
    giustizia".
    In base a quella che è stata la tua esperienza da dove può prendere 
    le mosse oggi una campagna di libertà, contro il carcere, un carcere 
    sicuramente molto diverso da quello che hai conosciuto tu, e allo stesso tempo 
    una campagna per la libertà di quei compagni e quelle compagne che 
    dal conflitto di classe degli anni 70 e 80 rimangono in carcere o sono in 
    esilio? 
    Sante
    Ciao saluto tutti e mi associo ai saluti che ha fatto il compagno soprattutto 
    ai detenuti, saluto Rebibbia, ecc. ecc., un abbraccio veramente forte e sentito. 
    Poi voglio salutare tutti i compagni romani con cui ho sempre avuto un buon 
    rapporto e Daniele con cui abbiamo organizzato l'incontro di stasera all'ex-Snia 
    Viscosa.
    Secondo me è necessario fare un piccolo bilancio, rapido, di come in 
    questi anni ci siamo mossi, di come siamo riusciti o non siamo riusciti ad 
    imporre ciò di cui lorsignori avrebbero dovuto prendere atto e risolvere 
    autonomamente. Alcuni di noi, ex-galeotti, o ex- seguito da quello che volete, 
    sono andati in giro a raccontare la buona novella, a raccontare la storia. 
    C'erano e ci sono tutt'oggi espressioni positive rispetto alla memoria storica 
    ed alla condizione attuale di coloro che sono prigionieri. Il percorso è 
    stato secondo me abbastanza contraddittorio. Nel momento in cui il movimento, 
    o almeno larga parte di esso, pareva aver raggiunto un'intesa di fondo su 
    questo problema, la maledizione storica della sinistra si abbatteva anche 
    su questa che era una questione centrale. Mi riferisco al settarismo, alla 
    difesa della propria parrocchia che ormai si è ridotta a difesa della 
    propria famiglia.
    Io credo che la questione dei prigionieri oggi è una questione che 
    riguarda i liberi, riguarda i ventenni, i compagni che si avvicinano oggi 
    alla politica, riguarda essenzialmente loro. Sono loro ad essere i protagonisti 
    perché a vent'anni tu non ci stai. Io a vent'anni non ci stavo a nessun 
    tipo di discorso, semplicemente non ci stavo. A sessant'anni divento un pochino 
    ragionevole e guardo con curiosità a chi non ci sta. E' importante 
    che i ventenni non ci stiano di fronte a questa cosa così clamorosa 
    che è la prigionia. E' loro il privilegio dell'indignazione, il meccanismo 
    della ribellione è tutto loro. Noi dobbiamo far sì che non venga 
    sprecato questo patrimonio. Serve una parola d'ordine da lanciare perché 
    i ventenni hanno bisogno sia di memoria storica sia di prospettive. Devono 
    lavorare attorno a un progetto minimo, semplice, tranquillo:
    libertà per tutte le compagne e per tutti i compagni prigionieri 
    e ritorno per gli esuli. 
    Le varie parrocchie, i vari clan, ecc. debbono ciascuna muoversi rispetto 
    a quello che fanno, rispetto a quello che è il loro percorso e la loro 
    sensibilità, mantenendo questo come aspetto centrale e unificante. 
    Questo serve ai ventenni. Come nel mio caso l'esser rimasto incantato a 15, 
    16, 17 anni a sentire i partigiani e le loro storie ha in grossa misura determinato 
    la mia esistenza successiva, lo stesso meccanismo va innescato con i ventenni 
    di oggi.
    Recentemente c'è stata l'esperienza di Silvia Baraldini, che colgo 
    l'occasione per salutare, e prima ancora quella di Prospero Gallinari. Il 
    movimento romano è stato protagonista di queste vicende, così 
    come il movimento bolognese e di altre città. La libertà di 
    Prospero per noi era una questione di natura politica e lo abbiamo sostenuto 
    fino in fondo. In quel momento lì, però, si poneva il problema 
    che il carcere non poteva rinchiudere una persona in tali condizioni di salute. 
    In questo modo il discorso è stato allargato a tutti i malati, a Ricciardi 
    e a tutte le situazioni che conoscevamo. Purtroppo sono rimaste molte situazioni 
    che conosciamo molto poco sebbene siano veramente drammatiche. 
    Il meccanismo che fu messo in moto a partire dal convegno di Bologna dove 
    era rappresentato tutto il movimento fu molto semplice e chiaro. Si era scesi 
    sulla politica, ci si era rimpossessati della politica, si era smesso di ragionare 
    come se fossimo una grande forza, prendendo atto di quelle che erano le forze 
    minime. Bisogna capire che le chiavi della cella neanche un movimento forte 
    ce le ha. Un movimento forte al massimo può mandarti un seghetto, può 
    aiutarti ad evadere, ma non serve neanche più questo con il carcere 
    attuale. E poi quelle evasioni lì sono state così poche anche 
    quando eravamo forti
 insomma bisogna ragionare in altri termini.
    Le battaglie che si possono fare oggi sono tante, anche per i detenuti cosiddetti 
    comuni. C'è il problema di come tu arrivi alla Gozzini, l'uso 
    che viene fatto della Gozzini, della rieducazione che poi sono le leccate 
    di culo che devi fare. Se anche hai rielaborato le eventuali cazzate e reati 
    che hai fatto, se anche sei cambiato non è questo in realtà 
    ciò che ti chiedono. Ti chiedono la passività, mentre nella 
    Gozzini il protagonista sarebbe dovuto essere il detenuto che prendeva in 
    mano la sua sorte
 Solo lottando, aggregando, conoscendo i propri diritti 
    e rivendicandoli puoi uscire in modo integro e dignitoso dal carcere. Questo 
    meccanismo qui non va bene a nessuna direzione: chi oggi propone anche la 
    minima cosa, un sit-in, lo sciopero della fame, 
 la Gozzini se la può 
    scordare. Bisogna rivoluzionare questo meccanismo. Rendere le alternative 
    al carcere automatiche e non sottoposte a meriti di merda. 
    I meriti sono altri: sono la tua applicazione allo studio, la tua applicazione 
    alle cose. Dal carcere tu puoi anche uscire come un uomo nuovo. Fu proprio 
    questo uno dei grandi risultati che ottenemmo all'epoca dei "dannati 
    della terra". Nessuno si ricorda qui un nome famoso per l'epoca, in tutte 
    le carceri quelli con i capelli bianchi ancora lo ricordano: Martino Zichitella. 
    Era un compagno, era un rapinatore, un rapinatore borghese, lui faceva le 
    rapine per il vestito, la macchina bella, il night club degli anni 60
Lui 
    in carcere si è trasformato, è diventato un compagno. E' morto 
    poco lontano di qua nel 1976, è morto facendo parte dei NAP, è 
    stato ucciso durante un'azione in cui i compagni avevano attaccato un capo 
    della Digos dell'epoca ed è morto con una tuta da operaio addosso. 
    A me questa cosa qui, al di là che era un mio grande amico, questa 
    cosa che lui è morto con una tuta addosso mi è sempre rimasta 
    impressa: un percorso compiuto.
    Allo stesso modo molti rapinatori e ladri quando sono usciti sono andati a 
    lavorare. Non per il gusto di andare a lavorare per mettersi la cenere in 
    testa, ma perché loro avevano imparato che sul posto di lavoro c'erano 
    le aggregazioni, c'erano i compagni, c'era da fare politica, avevano imparato 
    a fare politica. Noi avevamo insegnato loro che il carcere era una fabbrica, 
    era la stessa cosa. Ed era la stessa cosa all'epoca: con i grandi numeri alla 
    Mirafiori, alla Fiat, ecc. l'organizzazione del carcere e l'organizzazione 
    della Fiat erano la stessa cosa. Solo che tu dopo le ore di lavoro uscivi 
    e andavi a casa a riposarti e poi alle 5 a riaffrontarlo
 non so cosa 
    fosse meglio. Capito questo meccanismo abbiamo avuto un casino di persone 
    che si sono presentate in modo diverso, diventando dei compagni e questo se 
    lo sono guadagnato studiando, discutendo e lottando, soprattutto lottando.
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 Ror 
    Prima ti sei rivolto alle persone che stanno fuori dicendo 
    che un percorso di liberazione per le compagne e i compagni detenuti può 
    iniziare proprio a partire da coloro che sono liberi. Noi ci scontriamo quotidianamente 
    con un'enorme difficoltà a portare avanti mobilitazioni sul carcere. 
    Per il capodanno del 2000 avevamo lanciato l'idea di un appuntamento sotto 
    il carcere di Regina Coeli, ma non si è riusciti a fare in modo che 
    ciò si realizzasse. Più in generale l'attenzione nei confronti 
    del carcere è molto scarsa. Se a parole ci si dichiara contro il carcere 
    e per la libertà delle compagne e dei compagni, poi nella pratica queste 
    rimangono parole d'ordine prive di un contenuto. Non credo sia sufficiente 
    individuare parole d'ordine semplici, come dicevi tu prima. Occorrerebbe individuare 
    le vie attuali per una mobilitazione ed una elaborazione sul carcere. E' un'illusione 
    credere che si possano ripresentare, fuori e dentro, le condizioni che tu 
    hai vissuto e di cui parli nei tuoi libri, quando spesso i cortei sfilavano 
    sotto il carcere e vi era un'attenzione e una solidarietà reciproca 
    tra le lotte interne ed esterne.
    Per quanto riguarda il dentro hai ricordato l'esempio di Martino Zichitella 
    sottolineando come sia sempre più difficile incontrare in carcere figure 
    di questo tipo. Si parlava del carcere di oggi e della legge Gozzini. Tra 
    i suoi effetti principali c'è stato un processo di individualizzazione 
    della popolazione detenuta che ha ostacolato le espressioni collettive e rivendicative. 
    Dicevi delle leccate di culo e della passività assoluta cui si è 
    costretti in carcere per fingere di seguire il trattamento rieducativo. Le 
    misure alternative sono un percorso minato in cui vige la massima arbitrarietà 
    da parte delle varie figure con cui chi è detenut@ deve avere a che 
    fare: dalla magistratura ordinaria a quella di sorveglianza, dalle guardie 
    alla direzione, dagli educatori all'assistenza sociale, dal datore di lavoro 
    alla comunità terapeutica, chiunque può impedire l'uscita dal 
    carcere e scaricare la responsabilità su un altro anello della catena. 
    Alla persona detenuta è chiesto un atteggiamento totalmente passivo 
    di fronte a questi arbitrii, nella speranza di ottenere, come premio riservato 
    a pochi, la tanto sospirata libertà. Da questo punto di vista, nella 
    sua impostazione così fortemente premiale, la Gozzini ha funzionato 
    bene ed è riuscita a far cessare, o comunque a ridurre notevolmente, 
    qualsiasi esperienza collettiva tra la popolazione detenuta.
    Partendo da questi due aspetti che riguardano il fuori e il dentro quali possono 
    essere secondo te percorsi, idee che riescano a superare le attuali difficoltà?
    Sante 
    Chiunque abbia frequentato il carcere sa che bastano pochi mesi perché 
    le situazioni cambino. 
    Io sono fuori dal carcere in pratica da 11 anni e so, leggo ma soprattutto 
    immagino il cambiamento forte che c'è stato. Si tenga conto poi che 
    già all'epoca il carcere per noi politici era assai diverso dal carcere 
    per gli altri detenuti. Dall'apertura delle carceri speciali nel 1977 noi 
    prigionieri politici e alcune figure "autorevoli" della malavita 
    eravamo isolati tra di noi. Quindi in realtà la mia vicenda viva con 
    il carcere finisce nel 1977. Per questo mi è difficile capire bene 
    la realtà dentro. 
    Nonostante ciò leggo e seguo ciò che accade. Nel 1998 era anche 
    nata qualche speranziella: un governo di sinistra, il guardasigilli 
    addirittura proveniente dal partito comunista
 e invece, ma non paradossalmente 
    perché l'esperienza mi insegna che è stato così anche 
    in passato, questi ti fanno rimpiangere i democristiani. A partire dalla strage 
    di Alessandria del 1974 in cui vennero uccisi 7 detenuti, un episodio ormai 
    dimenticato e proseguendo con le altre vittime che ci furono ovunque tra le 
    lotte carcerarie di quegli anni, quando la sinistra ha occupato posizioni 
    di governo si è avuta la repressione più dura. Nel 1974 era 
    diventato ministro per la prima volta in Italia un socialista: Zagari e ci 
    fu la strage di Alessandria. I democristiani erano sicuramente più 
    mediatori o avevano una pratica di potere grazie alla quale riuscivano in 
    qualche modo a ricomporre le contraddizioni. 
    Oggi la sinistra al governo per guadagnare consenso e dimostrare che è 
    capace a fare il boia ha fatto sì che la situazione nelle carceri sia 
    peggiorata da quando c'è questo signore (il ministro Diliberto). Guarda 
    alla vicenda del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Prima era 
    stato messo Margara che per ogni detenuto era un riferimento di apertura, 
    un mito nelle carceri, inutile negarlo. Ha fatto un'esperienza brevissima, 
    l'hanno subito tolto di mezzo ed è arrivato il signor Caselli. Eh sì 
    Caselli
    Ci è capitato qualche volta durante assemblee e incontri di sollevare 
    il problema del 41bis e ci siamo sentiti dire dai compagni, quasi con fastidio, 
    "roba di mafiosi", ecc
.Lì capivamo che c'era una grossa 
    incomprensione rispetto al carcere. Perché tu come compagno devi anche 
    essere capace a un certo momento, avere il coraggio di assumerti le tue responsabilità 
    e difendere lo stato di detenzione di Totò Riina. Devi averlo questo 
    coraggio perché le condizioni di detenzione che hanno creato per queste 
    persone all'Asinara prima, e ancora oggi in altre supercarceri, vere pietre 
    tombali, sono persino più feroci di quelle cui eravamo sottoposti noi 
    con l'articolo 90. Il silenzio su questi temi lo stiamo ancora pagando. Perché 
    lì hanno torturato, maltrattato, sono riusciti a far pentire fior di 
    mafiosi che io alcuni li conoscevo: con tanto di pelo così ed una scorza 
    dura
 e trovarmeli pentiti è una cosa che non mi sono mai spiegato, 
    se non ammettendo una realtà carceraria che va al di là di quello 
    che dovrebbe esistere in un paese civile. Questo silenzio è stato molto 
    pesante e non ha prodotto indignazione. Perché io credo che nel momento 
    in cui tu vieni arrestato, qualunque reato tu abbia fatto, in quel momento 
    lì sei nelle mani dello stato e lo stato ti deve determinate garanzie. 
    Invece lì le hanno fatte crollare tutte.
    Mi chiedevi prima da dove partire. Francamente per i motivi che ti ho detto 
    io non lo so. Sono molto scettico: tentativi ce ne sono stati ma non si è 
    riusciti a mettere su qualcosa che avesse una certa continuità e dignità, 
    anche partendo dalla prigionia politica. Prima parlavi della mancata iniziativa 
    a Regina Coeli, ma chiediamoci quanti dei nostri ragazzi, di noi stessi a 
    capodanno, in tutta questa euforia per il 2000, quanti hanno scritto una cartolina 
    a un prigioniero? Quanti hanno mandato un libro? Io penso che siano stati 
    rarissimi questi casi. 
    E' molto amaro ma ve lo devo dire: mi sono sempre chiesto se questo movimento 
    ha sentito suoi quei prigionieri lì, parte della propria storia e dei 
    propri percorsi. Io ho qualche dubbio in merito. Ho qualche dubbio perché 
    non c'è iniziativa, neanche da parte degli esuli, alcuni dei quali 
    sono attivi politicamente.
    Qui siamo in via dei volsci, un mito, era l'anima della rivoluzione, l'anima 
    del movimento. Io quando ero in galera e vedevo in TV gli scontri che partivano 
    da qui, sentivo un impulso, un'indignazione, una voglia di lottare, di cambiare. 
    Per me era una forza prorompente, mi sarei fatto altri cinquant'anni di galera, 
    non me ne fregava assolutamente niente. Perché sapevo che i compagni 
    combattevano, i compagni lottavano, i compagni si organizzavano. 
    Per questo a quei tempi qualunque questione era collettiva. Ecco, bisogna 
    ripristinare un pochino di poesia collettiva. Creare intorno alle compagne 
    e ai compagni qualcosa che faccia sentire una persona che oggi ha vent'anni 
    parte di quella storia e parte della storia che deve ancora percorrere.
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    Compagno ex-Snia
    Volevo riprendere il discorso di Sante laddove parla di indignazione. 
    Non c'è più indignazione per coloro che stanno in galera, torturati 
    giorno e notte, non c'è più indignazione per gli operai uccisi, 
    non c'è più indignazione per le persone mangiate dai pescecani 
    nel canale d'Otranto, non c'è più indignazione ormai per nulla, 
    se non in piccole sacche della società. E' lo stessa parola che si 
    è svuotata: sembra che il termine indignazione non faccia più 
    parte del vocabolario di questa società. Le rivoluzioni mediatiche, 
    la frantumazione sociale hanno prodotto questa profonda mutazione della capacità 
    di indignarsi. 
    Proprio per questo abbiamo organizzato l'iniziativa di quest'oggi all'ex-Snia 
    Viscosa e l'abbiamo chiamata "Ricominciamo da Sante". Perché 
    Sante per noi rappresenta la poesia di quel movimento e la poesia è 
    di tutti, non di una parte o dell'altra. 
    E' importante impostare il discorso sul legame tra le generazioni. Solo così 
    è possibile recuperare quell'indignazione che manca. Si deve stabilire 
    una comunicazione tra generazioni che attualmente è deficitaria da 
    entrambe le parti. L'una non è stata capace di comunicare e trasmettere 
    un'esperienza all'altra, mentre l'altra è rimasta chiusa nella sua 
    piccola storia. 
    L'iniziativa di stasera è incentrata sull'amnistia, perché è 
    una parola forte e riassume un filo ideale tra le generazioni. Ci rendiamo 
    conto che oggi il problema non è di mandare il seghetto in galera perché 
    ciò è ridicolo anche solo a pensarlo; ci rendiamo conto che 
    il problema dei compagni in galera non può essere risolto, da un punto 
    di vista tecnico-pratico, domani o dopodomani; l'unica soluzione sta nel riallacciare 
    questo filo tra generazioni. La trasmissione di un'esperienza di libertà 
    può essere proprio l'embrione per qualcosa di nuovo. L'amnistia di 
    cui parliamo non appartiene né a un pezzo di movimento né a 
    un pezzo di organizzazione, ma ad un'intera generazione che ha lottato negli 
    anni 70 e 80 e che sicuramente era figlia di quel grande movimento comunista 
    nato nel secolo passato. Da parte di quella generazione, che poi è 
    anche la mia, c'è stata un'incapacità di riflettere sulle proprie 
    storie e non è possibile pensare al presente e al futuro senza aver 
    consumato una riflessione accurata sulla propria storia che è fatta 
    di cose pregevoli e anche di grossi errori.
    La mia domanda a Sante è la seguente: spesso si è affermato 
    che una seria riflessione sull'esperienza della lotta armata non è 
    possibile fino a che sono rinchiusi nelle galere italiane i prigionieri politici. 
    Dall'altro lato si è affermato che per parlare di amnistia bisogna 
    riflettere sugli anni 70. C'è un vizio di forma, qualcosa che stride, 
    una condizione che ci vede incapaci di una trasmissione ricca, un cane che 
    si morde la coda. E' possibile secondo te riuscire a stare tra di noi? Tranquillamente 
    come stasera, attorno a un tavolo?
    Sante
    Questa domanda mi viene posta sempre. Ma vi immaginate voi un compagno come 
    Prospero che con tutti i suoi by-pass, con tutte le sue cose, con grande preoccupazione 
    nostra
 Prospero è stato uno di quelli che non si è risparmiato, 
    sebbene le sue condizioni fisiche fossero tali che da un momento all'altro 
    ci poteva lasciare le penne. Non si è risparmiato, ha fatto tutti i 
    centri sociali d'Italia, non ne ha trascurato nessuno, andava lì dove 
    c'erano dieci ragazzi e lì dove erano più organizzati. Anche 
    altri compagni hanno fatto questo tipo di sforzo; sono stati scritti dei libri, 
    dei documenti. Nessuno di noi si è sottratto alle richieste, compatibilmente 
    con i propri impegni. 
    Il problema è che quella storia lì non la puoi risolvere in 
    maniera individuale. Quella è stata una grande storia collettiva. Si 
    parla di lotta armata, ma si dovrebbe parlare di un movimento rivoluzionario 
    nel suo insieme di cui la lotta armata è stata solo una parte, forse 
    neanche la più importante. La lotta armata fu, se vuoi, la parte più 
    eclatante: per Moro e tutte le seghe varie, per l'immaginario collettivo, 
    chi si sentiva esaltato, chi depresso 
 Però il problema era molto 
    più vasto, molto più ampio: erano le migliaia e migliaia di 
    compagni, le femministe, i lavoratori, le fabbriche, le scuole, l'università
 
    si trattava di decine di migliaia di compagni, di giovani. 
    Io ricordo sempre il bellissimo libro di Primo Moroni che è veramente 
    uno spaccato del movimento, stupendo, molto ricco. Quello era il libro del 
    movimento. Si sarebbe dovuto fare il libro anche dell'altra parte
 e 
    invece non è stato possibile discuterne collettivamente. 
    Ci sono state delle difficoltà di diversa natura. Culturali innanzitutto: 
    io per esempio sono un proletario, io ho fatto la prima media, non mi sono 
    mai ritenuto un accidenti di niente, ho dei limiti abissali, cerco di sforzarmi 
    di capire. La mia scuola è stato il carcere. Non è che io abbia 
    avuto altre possibilità. In un certo senso sono veramente l'ultima 
    ruota del carro. Nonostante ciò mi rendo conto che a un certo punto 
    io, da proletario, ho dovuto sostituire i grandi leader, i capi, i presidenti 
    futuri che hanno preferito andare a prendersela nel culo, invece che svolgere 
    fino in fondo il loro ruolo, soprattutto in una situazione difficile come 
    era quella in cui ci siamo trovati. Alcuni addirittura sono passati dall'altra 
    parte. Questo è il dramma. Un compagno una volta mi disse che le rivoluzioni 
    -i tentativi rivoluzionari- finiscono o sotto terra, come è stato in 
    Argentina, in Cile, ecc. oppure coperte dalla merda. A noi purtroppo la merda 
    ci è arrivata fino a un buon punto, siamo un po' asfissiati.
    Ma l'impossibilità di stabilire una comunicazione non deriva solo da 
    una parte. Anche se guardiamo dall'altra parte 
Il bilancio deve essere 
    complessivo. Non c'è nessuno che può cantare vittoria o avere 
    l'atteggiamento stronzo di dire "l'avevo detto io 
". Queste 
    cose purtroppo ci sono qualche volta, ma a me non interessano. Tante volte 
    ho risposto a chi mi chiedeva conto, ma io l'ho raccontata talmente tante 
    volte che adesso a qualcuno vorrei dire: "fammi la cortesia, raccontami 
    tu la tua storia, io mi siedo dall'altra parte del tavolo e voglio sentire 
    la tua storia, le tue valutazioni, le tue cose". Mi rendo conto che ci 
    sono molte punte polemiche in ciò che ho detto
 però rimane 
    che un tavolo comune non è stato possibile costruirlo. Nessuno con 
    le sue responsabilità, il suo percorso, la sua formazione ha sviluppato 
    qualcosa da poter dare ad Alice, una compagna che ha vent'anni ed è 
    qui con noi negli studi. Poterle dire: "guarda, io sono arrivato fin 
    qua, adesso me ne vado in pensione, sono cazzi tuoi, vai avanti tu". 
    Avrei voluto partecipare a un'esperienza di questo tipo, anche se non ci avrei 
    messo una lira, però non è stato possibile farlo. 
    Ci sono stati alcuni che hanno provato a farlo individualmente, con il rischio, 
    però di essere smentiti in qualsiasi momento da uno che si alza e dice: 
    "parla per te". Anche quando è stato fatto in modo serio, 
    mi riferisco al libro di Moretti con la Rossanda, si è visto il tipo 
    di difficoltà a raccontare una storia simile: un compagno è 
    finito in galera dopo vent'anni! 
    La discussione va svincolata, esplicitata politicamente senza vincoli con 
    le varie inchieste sempre aperte, perché giudici che non hanno un cazzo 
    da fare e inseguono quattro titoli sui giornali ce n'è tanti. Questo 
    è sicuramente un impedimento, ma credo che ormai non ci siano più 
    le basi politiche, le figure più responsabili. Semplicemente perché 
    stanno facendo altro. Nonostante tutto per un giovane di vent'anni che è 
    interessato è possibile trovare i momenti di confronto: guardate i 
    libri che ci sono nelle vostre case, ci sono i racconti, ci sono ancora le 
    persone.
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    Ror
    Dicevi prima che sei portato a fare la considerazione amara 
    che questo movimento non sente come suoi i prigionieri politici in carcere 
    o in esilio. Accennavi anche ai settarismi e alle divisioni che ci sono state. 
    Su questo forse c'è stata poca chiarezza: si è confuso il sentirsi 
    propri i prigionieri con il difendere la propria parte, o addirittura ci si 
    è inseriti nelle spaccature per individuare una propria fazione cui 
    far riferimento. Da questo punto di vista credo invece che una campagna di 
    libertà come quella di cui stiamo discutendo, che può partire 
    anche da semplici segnali di attenzione o sensibilità, debba saper 
    andare al di là delle divisioni passate e presenti.
    Sante
    Le questioni del movimento, i diversi settori del movimento, le linee diverse 
    sono una cosa che non mi appartiene. La discriminante per noi è una 
    sola: la dissociazione. Per noi è stata una delle infamie più 
    grosse, ha distrutto il movimento al punto che oggi un ventenne non scrive 
    nemmeno una cartolina dentro. La dissociazione ha frantumato e distrutto la 
    solidarietà, il minimo su cui gli esseri umani si incontrano, il minimo 
    su cui nascono le idee, la politica, l'aggregazione. Questo va sempre ribadito 
    con molta forza: la dissociazione è stata responsabile di ciò. 
    
    Fatto salvo ciò le altre divisioni non hanno senso. E' come se io adesso 
    mi mettessi a polemizzare con Prima Linea, oggi che nessuno sa neppure che 
    c'è stata un'organizzazione, abbastanza grossa e potente, come Prima 
    Linea. Oppure mi soffermassi sulle posizioni all'interno delle Brigate Rosse, 
    della brigata Walter Alasia di Milano, o via discorrendo. Sono questioni da 
    lasciare agli studiosi, ma che oggi non hanno più senso.
    Alcuni settori del movimento non hanno inteso fino in fondo questa cosa. Ciò 
    ha creato irrigidimenti anche lì dove determinati progetti stavano 
    più o meno marciando, con fatica, ma con molta chiarezza. Io sono disponibile 
    a lavorare con tutti. Io ci parlo e amo alcuni compagni di rifondazione. Quando 
    vengono al mio pub, a volte ci può essere un po' di freddezza, ma su 
    delle cose, su un problema come la guerra ad esempio, non è possibile 
    dividersi. Vi sono delle cose su cui i comunisti, le persone coscienti, gli 
    indignati si ritrovano e lavorano insieme, tranquillamente, pacificamente, 
    per realizzare qualcosa. Ciò non è stato possibile sul tema 
    della prigionia. 
    Vi porto un esempio della mancata comunicazione con il movimento. Avete presente 
    quelli che vennero bollati da alcune organizzazioni come i "professorini"? 
    che sono poi gli stilatori del famosissimo documento di fondazione della dissociazione, 
    a disposizione di chiunque volesse leggerlo. Uno dei professorini è 
    venuto a Bologna ed io mi sento una compagna che mi dice: "sarà 
    dissociato, come dici tu, però cazzo parlava bene! Ha parlato per due 
    ore in maniera affascinante
" Io le ho risposto: "guarda che 
    quello ha parlato nove ore col giudice e anche il giudice era affascinato!" 
    Si crea confusione su queste cose qui. Io sono molto rigido sull'identità 
    e sulle posizioni ferme rispetto alle porcherie, dopodiché possiamo 
    discutere di tutto, possiamo anche litigare.
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    Compagno ex-Snia
    Sono d'accordo con te quando dici che la dissociazione è 
    stato l'elemento più deprecabile e dirompente intorno a quella che 
    è stata la nostra esperienza. Pentiti ed infami nella storia ci sono 
    sempre stati, persone che si vendono totalmente. La dissociazione invece è 
    una vendita dell'identità, di una parte di te ed un'accettazione dell'esistente: 
    rinnegare per legge qualcosa che è parte di noi stessi. La dissociazione 
    nasce negli anni 80, subito dopo i grandi arresti dal 1981 al 1984. E' necessario 
    centrare l'attenzione proprio su quegli anni, sul declino provocato dalla 
    dissociazione. Nasceva in quegli anni il settarismo politico e si viveva in 
    galera, più che fuori, un clima terribile. Alcuni compagni avevano 
    intuito che qualcosa si stava rompendo e bisognava fermarsi, ma queste idee 
    non hanno preso strada. Fino alla fine degli anni 80 si è continuato 
    a riprodurre un modello che ormai era fuori da quelle che erano le condizioni 
    di quel periodo. Tant'è che negli anni 80 nascono i primi centri sociali, 
    che rappresentarono una rottura di forma e di sostanza, di interpretazione 
    stessa della politica rispetto alla generazione precedente.
    La fine di un'esperienza è come la fine di un amore: può finire 
    a cazzotti o con dirsi "t'amerò lo stesso". La fine fotografa 
    la ricchezza di quello che c'è stato. La nostra fine non è stata 
    delle più gloriose. Secondo te i primi calcinacci del muro di Berlino 
    non sono cascati per quanto ci riguarda proprio in quegli anni? Per cui è 
    necessario tornare a riflettere su quegli anni?!
    Sante
    Ogni tanto quando incontro qualche vecchio compagno ci viene da dire "pensa 
    che sfiga se noi avessimo vinto! perlomeno lì sono resistiti cinquant'anni, 
    noi nel giro di quattro mesi
". A parte gli scherzi io credo che 
    quel movimento abbia dato tutto quello che poteva dare, e anche di più, 
    in senso rivoluzionario. Quel movimento lì ha fatto molto, ha cambiato 
    la società italiana. In bene o in male non lo sappiamo ancora, però 
    le spallate che quel movimento ha dato ad una situazione ferma, incancrenita, 
    tutta democristiana ecc. ecc. li fanno piangere ancora adesso. 
    Il problema che ci compete è chiedersi perché non ci sia stato 
    uno sviluppo ulteriore. Io sono arrivato a pensare che il difetto non fosse 
    nella volontà dei compagni o nella loro capacità, ma semplicemente 
    nel fatto che le basi teoriche erano un po' vecchiotte. Nelle celle dei compagni 
    detenuti, i PP come li chiamavamo, trovavi sempre gli stessi libri: le opere 
    di Marx, Lenin, ecc. Andavano bene per comprendere quel passaggio lì, 
    ma erano assolutamente insufficienti, secondo me, per andare oltre e quindi 
    usare meglio quel movimento rivoluzionario. 
    In galera a volte si creava una situazione anche un po' comica. Io ero il 
    vecchio rapinatore e con il detenuto "comune", il ragazzotto sveglio, 
    riuscivo a stabilire un rapporto privilegiato. Lui magari era intimidito a 
    parlare con gli altri, con il grande leader che compariva tutti i giorni sul 
    giornale e parlava difficile senza che lui capisse una sega. Lui diceva di 
    aver capito e poi veniva da me a chiedermi spiegazioni che neanche io ero 
    in grado di fornire. Quando individuavi una persona sveglia, la prima cosa 
    che facevi era di mollargli i libri di lettura, i libri di storia, i libri 
    dei militanti
 dopodiché faceva un saltino di qualità e 
    tu gli davi il "che fare" e cominciavi con le discussioni all'aria, 
    ecc. e poi si andava oltre. In carcere abbiamo formato dei quadri rivoluzionari, 
    sto parlando di delinquenti, gente che aveva poca formazione di base. Quelli 
    sono diventati tanto così di dirigenti rivoluzionari. 
    Se adesso mi trovassi in una situazione di quel genere, in carcere così 
    come fuori, mi chiederei da dove cominciare? Avrei molte difficoltà 
    a passare i libri dell'epoca: il manifesto del partito comunista, ad esempio, 
    che era la base minima. 
    Allo stesso tempo, però, diamo un po' di speranza, altrimenti qui ci 
    piangiamo addosso. Questa situazione è anche carina, bella. Se non 
    serve quel libro lì, non me ne frega niente, si tratta di scrivere 
    un altro libro. Chi è che lo scrive 'sto cazzo di libro? Come facciamo 
    a scrivere il nuovo manifesto del nuovo o futuro partito rivoluzionario? Bisogna 
    mettersi lì e penso che lo faranno loro che hanno vent'anni oggi. Loro 
    devono ripartire, devono conoscere la storia.
    E' importante che il meccanismo di comunicazione tra me e un ventenne non 
    sia più lo stesso: devo essere io ad arrancare, è giusto che 
    io arranchi dietro a lui.
    Come all'epoca un quadro serio sindacale della Mirafiori non era neanche da 
    paragonare a un D'Alema, per non parlare degli altri; così deve diventare 
    oggi. Qualunque compagno che ha fatto il rivoluzionario in quegli anni aveva 
    uno spessore, una morale, una dignità abissali. Così oggi ci 
    sono le possibilità per andare oltre, secondo me ci sono tutte le condizioni
 
    Bisogna che scrivano un libro.
    Ror
    terminiamo con questa nota d'ottimismo. Ringraziamo dell'attenzione 
    tutte le persone all'ascolto e salutiamo chi è privato o privata della 
    propria libertà personale. Per chi sta fuori speriamo che questa chiaccherata 
    con Sante Notarnicola possa servire da stimolo non solo per scrivere qualche 
    cartolina, ma anche mandare libri e comunicare con dentro il carcere. A chi 
    sta dentro fa sempre piacere e sarebbe importante, anche per noi che stiamo 
    fuori, riconquistare il piacere di farlo.
    Sante
    rinnovo i saluti per tutti, saluto i compagni prigionieri, tutti i detenuti, 
    tutti i dannati, tutti i compagni e le compagne che conosco direttamente o 
    indirettamente. Ciao a tutti.
Scriveteci a :
     outout@usa.net
    
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