Louk Hulsman, nato nel 1923, docente di diritto penale, è stato consigliere del ministero della giustizia olandese; ma, mettendo in discussione il suo ruolo professionale, da un quarto di secolo almeno va in giro professando l'abolizionismo del sistema penale, movimento di cui è, insieme ai norvegesi Nils Christie e Thomas Mathiesen, il più noto esponente. Così, non risulterà troppo strano che a curare la versione italiana di questo suo libro (scritto con Jacqueline Bernat de Celis e apparso ben diciotto anni fa in Francia) sia non un giurista, un criminologo o almeno un sociologo, ma addirittura un galeotto come il sottoscritto.
Non parlerò dunque di storia del diritto. E visto che siamo forse in tema d'eresia già così dicendo, il lettore non si dovrà stupire se parlerò pure un po' di me anziché solo dell'autore. Sia chiaro che non lo faccio solo per una inevitabile piccola vanità, ma soprattutto per dire che, data l'importanza accordata da Hulsman al <<vissuto>> all'interno della sua metodologia abolizionista, in contrapposizione all'<<astratto>> (o, anzi, in fondo, per meglio ricomprendere le astrazioni quali strutture più ampie della realtà concreta), è naturale che egli abbia accordato a me l'onore di curare questa versione del suo libro. Sono infatti nel mio ventitreesimo anno di galera e anche questo può essere un buon curriculum vitae per la scuola abolizionista se la fortuna vuole, come spero sia ancora per me, che non si rimbambisca del tutto dopo tanto tempo trascorso da recluso. E se non lo sono, lo devo in parte proprio a Hulsman, Christie, Mathiesen, il cui pensiero è stato per me un vento nordico che ha diradato un po' le nubi italiche che m'avvolgevano, che mi ha incoraggiato a proseguire nei pensieri che già andavo maturando per conto mio. Anch'io, infatti, ero giunto a conclusioni abolizioniste anche se per una strada molto diversa da quella di Hulsman. E se al fondo di quella scoperta non sono rimasto personalmente sconsolato quanto a prospettive, lo devo al <<vento nordico>>.
Che cosa ci dice, in fondo, Hulsman? Che l'abolizionismo è una nuova lingua, una lingua perciò ai suoi inevitabilmente difficili inizi. Tutti, dai tempi dei Romani dell'antichità fino ad oggi, ne parlano un'altra: quella della colpa, ossia della colpevolizzazione del presunto altro da sé, soprattutto. Ma ecco che questa vecchia lingua appare sempre di più come un nuovo tipo di torre di Babele, dove non è che ognuno parli una lingua diversa dall'altro, ma anzi, più precisamente, è ormai diventata un nonsenso dove tutti, magari pur dicendo le stesse parole, intendono cose diverse.
Ebbene, Hulsman individua nel sistema penale sia una fonte che un risultato, importante quanto misconosciuto, di questo stato di cose. Tutte le vie lo portano all'abolizionismo. Da qui la sua speranza, e il suo metodo in cui ricerca e azione coincidono. Con una saggezza che è difficile raggiungere, egli si addentra ben poco sul terreno filosofico, metafisico delle possibili teorie sulla colpevolezza. Pur non condividendo lo spirito punitivo, egli non sta lì a contestarlo più di tanto e dichiara grosso modo alla vittima reale o potenziale di un reato: - Mi sta bene che tu voglia vendicarti, capisco il tuo bisogno di sicurezza e protezione, ma guarda che il sistema penale non ti dà ciò che chiedi, ma anzi, per molti versi, crea l'opposto di quanto ti promette. È solo da un punto di vista logico che ti parlo -. Hulsman mi pare infatti giustamente convinto che i bisogni di vendetta, di sicurezza e protezione (per quanto resi abnormi, specie questi ultimi due, da campagne disinformative dei media e dei politicanti) nascano da una realtà profonda e non più razionale, dando luogo a una vera e propria <<psicosi collettiva>>.
È qui che è mi è utilissimo il confronto con Hulsman. Sono giunto a conclusioni abolizioniste, come dicevo, per una via molto diversa dalla sua e, se vogliamo, <<filosofica>>, proprio quella che lui volutamente accantona. Ero finito in carcere per aver fatto la lotta armata nelle Br. Riflettendo sulla sconfitta subita, mi sono reso conto che attraverso il ricorso a una violenza ritenuta rivoluzionaria, ci ritrovavamo senza volerlo a far rientrare dalla finestra quel che cacciavamo dalla porta: il ricorso al più antico dei riti, quello del capro espiatorio, che finiva per renderci simmetrici all'avversario. M'accorgevo che di fronte alle difficoltà, alla crisi di qualunque tipo e in ogni ambito, tendiamo tutti a individuare una vittima espiatoria invece di riflettere su noi stessi per capire dove ancora collaboriamo con le regole dell'esistente che pur critichiamo, rinnovando la servitù volontaria. E il ricorso alla violenza favoriva questo dirottamento dell'attenzione dalle forme di collaborazione e di servitù volontaria che ancora si prestano allo stato di cose esistente. E, altrettanto ovviamente, non potevo non vedere nella realtà della pena carceraria la massima espressione di questo modo di pensare collettivo. Eravamo perciò letteralmente posseduti, a mio parere, e come afferma René Girard nell'intera sua opera, da un inconscio espiatorio di cui bisogna liberarsi, pena - in prospettiva - l'autodistruzione umana perché la pena è diventata l'unica nostra morale, il centro della nostra civiltà. Ma da dove veniva questo pericolo apocalittico diluito in forma d'implosione di una civiltà? Dal fatto che l'essere umano, ponte fra l'animale e una realtà possibile e sconosciuta, ma ancora fermo a una realtà primitiva, fraintendendo il principio di trascendimento che deriva dal possibile, separandolo da sé, difende la sua incompiutezza come presunta finitezza attraverso logiche di impossessamento e di dominio intese come prosecuzione di un sé ridotto al proprio io reso ipertrofico, illusoriamente autosufficiente: un io che si è costruito come presunto soggetto proprietario nei tribunali prima ancora che nella testa dei filosofi che ce l'hanno presentato come progresso. E, tutto questo, per una ragione quasi banale: perché ogni processo d'apprendimento è anche in noi, come nel regno animale, quello dell'imitazione. E questo principio mimetico, come spiega Girard, porta perciò al <<desiderio di essere secondo l'altro>>. È in questo quadro che il rito del capro espiatorio diventa il centro misconosciuto - cioè necessariamente occulto - di tutte le attività umane. Ebbene, il sistema penale è il più grande monumento eretto per questa religione ormai storicamente suicida.
Ma proprio per questo carattere religioso e irrazionale insieme del ricorso alla vittima espiatoria quale unico centro della nostra vita sociale, è inutile fare appelli <<razionali>> ai sempre più numerosi cacciatori di sempre nuove streghe. A costoro bisogna tuttavia spiegare che il sistema penale non può dare ciò che si attendono da esso, da un punto di vista strettamente logico. Un sistema fondato su un diritto civile rinnovato darebbe più soddisfazioni di quello attuale anche a chi è animato da desideri di vendetta. È invece certo che a poco valgono per costoro le dimostrazioni sulla controproduttività economica del carcere: c'è gente che, per risentimento, è anche disposta a rovinarsi e a lasciar rovinare l'economia di una società...
Piuttosto, questa riflessione metafisica sul <<religioso>> può essere preziosa per coloro che si dichiarano o si sentono antirepressivi. È qui che troppe riflessioni, non raggiungendo il <<centro misconosciuto>>, restano solo a metà e si scavano la fossa da sole, non sfruttano le difficili possibilità che pur vi sono di dar corso a un mutamento reale. Molta gente critica sì il sistema penale, ovvero il monumento, ma è poi complice delle sue fondamenta in mille altri campi, offrendo inconsciamente varie forme di collaborazione: in caso di crisi, è infatti scomodo guardare in se stessi e più automatico individuare un facile nemico quale causa della crisi... È triste vedere sindacalisti, femministe, ecologisti, movimenti omosessuali eccetera, ridursi spesso a chiedere la definizione di nuovi reati per l'estensione del sistema penale. Se si vuole un mondo migliore e perciò meno violento, i conflitti vanno visti non come qualcosa da reprimere per forza (riducendoli a reati), ma come delle realtà positive che si tratta di liberare, trovando allora mediazioni, riparazioni...; trovando cioè in tal modo soluzioni per trasformare i conflitti, portandoli a essere la via con cui si eleva la coscienza dell'umanità.
Certo è che, non so se per il bene o per il male, per la catastrofe o la via d'uscita, siamo comunque vicini a un punto di svolta. Il paradosso del sistema penale è che meno funziona, più si ricorre ad esso proprio a causa dell'<<inconscio espiatorio>>: esaltandolo, estremizzandolo, estendendolo in modo ormai isterico negli ultimi due decenni, a riprova del suo essere altare di una religione dominante e non dichiarata, praticata più o meno da tutti. Il libro di Hulsman e Bernat de Celis non parla ovviamente di tutto ciò, essendo uscito in Francia nel 1982; resta tuttavia non solo intatta ma addirittura ulteriormente confermata la sua validità, diventando una specie di utile manuale per orientarsi.
Il sistema penale è uscito ulteriormente dai suoi ambiti, estende la sua logica in sempre più numerosi campi della vita sociale e privata, sostituendosi qui a una politica sempre più abdicante. In Italia in modo particolare, per esempio, a livello penitenziario e ormai anche processuale, si è liberato di molte pastoie del diritto, sostituendolo col suo opposto, il premio, che è il massimo per una logica puramente punitiva e per l'offesa della dignità umana. In Occidente in generale, a livello nazionale pretende di sostituirsi allo Stato sociale in crisi offrendosi come quasi unica risposta per i più poveri e deboli, così riconfigurando le carceri come nuovi lager - luoghi per gente in sovrappiù, e non solo da reprimere. Negli USA ci sono due milioni di reclusi, molte condanne a morte, e in Italia c'è oggi oltre il doppio di detenuti rispetto al 1990. Persino a livello internazionale, si vuole sostituire l'arte della diplomazia con dei tribunali penali internazionali permanenti... Ma, ripeto, è altresì evidente il paradosso che più si estende il sistema penale, più esso si rivela inefficace e controproduttivo.
Un'interessante novità si è avuta in Italia con la cosiddetta <<Tangentopoli>>, che ha visto molti colletti bianchi investiti dal sistema penale e non più solo da quello civile e amministrativo com'era nella tradizione. Anche se in pratica non sono quasi mai finiti in carcere, le loro grida contro il <<giustizialismo>> e <<l'eccesso di diritto penale>> hanno contribuito non poco alla nascita del maggiore partito politico moderato italiano, Forza Italia, ispirato al liberismo. Questi colletti bianchi non si rendono conto che in una società socialmente disgregata, dalle vite atomizzate, sia ovvio che intervenga sempre più, quale presunto solutore di conflitti e in prima istanza, quel sistema penale che - in teoria - doveva intervenire solo quale ultima istanza. E, anzi, richiedono sempre più istericamente <<tolleranza zero>> e sicurezza contro i poveracci, mentre chiedono per sé la fine del <<giustizialismo>>, raggiungendo una vera e propria schizofrenia al posto della semplice antica ipocrisia del doppio diritto.
Di fronte a una tale forma implosiva della logica espiatoria, mi pare allora lecito supporre che si potrà fare ben poco finché gli antirepressivi non si renderanno conto che il sistema penale è <<soltanto>> l'altare di una religione riguardante tutta la nostra vita come suo centro, e della quale anch'essi sono in gran parte dei fedeli. O troviamo il modo di praticare un'attiva non collaborazione non-violenta al centro occulto o l'umanità va verso la distruzione. Non me ne importa nulla se questo discorso apparirà ad alcuni apocalittico, millenaristico - cosa che, a quanto pare, non va di moda. Credo infatti che la questione di cui stiamo parlando sia per certi versi vecchissima. Anche su questo ci siamo autoingannati a lungo. Per esempio, secondo Girard (Il capro espiatorio, 1982), Satana andrebbe visto nei Vangeli come l'Accusatore, giacché il Paracleto, dal greco parakletos, è l'equivalente esatto dell'italiano avvocato, cioè il difensore di tutti gli accusati, di tutte le vittime, che viene per porre fine alla logica persecutoria (tant'è che non a caso sono famosi i passi invitanti a <<non giudicare>>). La parola, però, è sempre stata perlopiù traslitterata, mai tradotta se non con altre, quali il <<Consolatore>> ecc.
Insomma, stiamo parlando di qualcosa che giunge al proprio nodo, e che pone tutta l'attualità dei temi proposti da Hulsman.
Quanto alla situazione immediata in Italia, sarà opportuno ricordare che è un paese con pene tra le più alte d'Europa, che l'ergastolo è ancora effettivo (<<fine pena mai>>) anche se in genere non lo si dice o si afferma addirittura il contrario.
Vincenzo Guagliardo
Opera, agosto 2000
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