Vincenzo Guagliardo

LA PACE DELLE BEFFE

novembre 2001

Molti pacifisti, militanti di sinistra e persino dei "non-violenti" dicono di opporsi alla guerra auspicando, come alternativa, la nascita di un tribunale penale internazionale permanente (TPP). Essi oppongono perciò alla guerra in atto contro i fondamentalisti dell'islamismo armato la necessità di istituire una polizia internazionale.
     Pacifismo e sinistra sono indubbiamente delle definizioni e collocazioni molto ampie che possono avere al loro interno posizioni violente. A volte si può persino essere pacifisti rispetto a una determinata guerra pur essendo di destra. Il filosofo Kant, misogino, favorevole alla pena di morte, si dichiarava contro la guerra e parlava di "pace perpetua". Ma si può essere insieme dei non-violenti e a favore di un TPP?
     Istituire una simile corte costituirebbe un'estrema estensione del sistema penale. Questa scelta presuppone dunque che si sia così soddisfatti dei risultati raggiunti dalla storia del diritto penale da desiderare un suo ulteriore salto nell'affrontare i conflitti della vicenda umana, anzi, il più grande salto possibile e immaginabile. Ma, in ogni caso, il sistema penale resta violento in quanto tale e perciò, a meno di non essere shizofrenici, chi non solo non lo mette in discussione ma addirittura lo vuole estendere, dovrebbe essere così coerente da non dichiararsi più un non-violento. Purtroppo, la prima affermazione che guida il ragionamento dei sostenitori del TPP è la seguente: far la guerra è più violento che processare. Questa affermazione è un luogo comune, molto meno sensata di quanto sembri. Intanto, già il senso comune sa che la guerra non è permanente ma un'emergenza che ha meno pretese di una sentenza, non va per il sottile (<<la guerra è guerra...>>). E allora che cos'è storicamente il diritto se non il risultato sancito di una guerra, di una violenza? Ciò che una guerra prima pone, la legge poi conserverà: <<Ogni violenza è, come mezzo,>> diceva Benjamin otto decenni fa, <<potere che pone o conserva il diritto>>(*nota bibliografica). Ed ecco che davanti ai nostri occhi si scopre oggi che questa differenza tra porre e conservare si è andata rivelando sottile nel tempo, confusa nello spazio, tant'è che se si vogliono fare certe cosiddette operazioni di polizia internazionale, o le si fa con i bombardieri B52 oppure non le si fa. E già nei nostrani "anni di piombo", le operazioni di polizia "contro il terrorismo" venivano inquadrate in quella condizione di indeterminatezza giuridica che va sotto il nome di "emergenza" e che ricorda, appunto, il diritto di guerra.
     L'errore dei pacifisti neo-penalisti è che guardano solo al fatto che le operazioni di polizia, pur essendo di natura militare, generalmente usano mezzi meno massicci di un'azione di guerra. Ma questa differenza è puramente quantitativa e dipende esclusivamente dall'obiettivo concreto che ci si pone, ossia dai mezzi che quest'ultimo richiede. Quanto alla sua natura, invece, si può dire che da sempre la polizia è per tanti versi più pericolosa di un esercito. Questa pericolosità viene ignorata perché gli Stati liberali hanno fin qui limitato l'opera poliziesca a certi ambiti marginali della popolazione ai diritti dei quali l'inconscio collettivo dei cittadini non pensa affatto; salvo dire, in modo significativo e rivelatore, "non sono mica un delinquente (o un terrorista)" quando per caso incontrano i tipici modi polizieschi. Quando uno Stato perde le sue caratteristiche liberali, diventando per esempio una dittatura (che si tratti del Cile golpista o dell'Urss non importa), si dice molto giustamente che si ha che fare con uno Stato poliziesco: ci si accorge cioè di quel che è sempre la polizia perché essa ha allargato il suo consueto intervento marginale volto a definire, fabbricare e regolare l'ambito di vita dei criminali in collaborazione con l'insieme del sistema penale (università, legislatori, giudici ecc.). Solo allora ci si accorge che la polizia è come uno spettro che agisce nella nebbia. Spettro perché appare dovunque senza compiti ben definiti ai propri occhi; nebbia perché dove si muove crea indeterminatezza giuridica. La polizia non si limita, come si crede, a conservare e difendere i fini giuridici che una società si è data, ma ne modifica il quadro come la guerra, agisce al di fuori del rigido formalismo del diritto. Ecco perché uno Stato liberale poteva fare delle guerre senza per ciò essere necessariamente poliziesco, mentre uno Stato poliziesco sarà in guerra con tutti i suoi cittadini anche se non farà magari delle guerre verso l'esterno.
     Una guerra distruggeva sì il vecchio diritto (sovranità, proprietà ecc.) ma si doveva concludere ponendone uno nuovo attraverso una soluzione politica per gli sconfitti. Stabilire che sia invece un tribunale penale a regolare un conflitto di dimensione politica (addirittura internazionale), riguardante popoli e nazioni, vuol dire che si ritiene non vi sia nulla da ridefinire, che tutto è già dato a priori, che le cause del conflitto non vadano riconosciute, che si ha che fare, appunto, con una... "semplice vicenda criminale". Ed è questa ormai l'esigenza che si pone ai potenti dell'economia globale: agire in un contesto post-liberale.
     I pacifisti neo-penalisti, dunque, senza rendersene conto, offrono come rimedio un male peggiore di quello che intendono criticare. C'è però da dire che la loro proposta è al momento attuale poco realistica. Non vi sono ancora tutte le condizioni per costruire un superstato mondiale superpoliziesco retto da una Corte in sostituzione di politica, governi ed eventuali guerre fino a ieri riconosciute come tali. Certo, dall'indomani della seconda guerra mondiale, una tendenza del genere esiste ed è fortemente desiderata da molti potenti della terra, ma deve fare sempre i conti con le contraddizioni che sorgono dal basso, e a causa delle quali c'è sempre qualcosa da discutere o contrastare, ridefinire, non dare già per sancito... anche se non piace. Perciò la nuova proposta pacifista-penale segna soltanto una pagina grigia, dimostra la debolezza di tanta parte del "movimento" messosi superficialmente in sintonia con l'"utopia" di coloro che vogliono vedere solo crimini e non cause irrisolte di conflitto da discutere.
     Ma è anche evidente - e di questo conviene parlare - che la poco felice pagina emersa ad Assisi è a sua volta il riflesso di qualcosa di più grande: la crisi della politica nell'epoca attuale, politica che può essere ripresa solo da mani autenticamente non-violente e dal basso. Il sistema penale è una foglia di fico che cade, non una bandiera alla quale aggrapparsi. Finalmente emerge ciò che esso è sempre stato, benché ignorato perché, tanto, riguardava altri.

Intanto, ricordiamo che il sistema penale non ha mai realizzato gli intenti che ufficialmente proclama di avere, ha sempre fabbricato il contrario: emarginazione e criminalità per fornire capri espiatori al senso di appartenenza alla comunità - una comunità perciò sempre più illusoria. Tutte le sue illusioni ottiche e schizofrenie aumentano all'ennesima potenza quando vengono applicate a un terreno ancora più vasto, quello che finora competeva alla politica internazionale. Già con i tribunali costituiti ad hoc dal dopoguerra ad oggi, gli esempi abbondano: dal processo di Norimberga a quello del Giappone fino all'attuale tribunale dell'Aja. Se in una Corte "normale" prevale la morale dei forti contro il debole, in un'assise internazionale prevale la visione del vincitore sullo sconfitto. A tutto questo ora, con la costituzione di una sede permanente invece che ad hoc, si aggiungerebbe il rischio di mascherare come normale opera di giustizia la straordinarietà di un intervento militare in corso: fornendo lo pseudo nuovo diritto del "cammin facendo".
     Su questi terreni abbiamo già visto gente urlare perché degli ultraottantenni venissero messi in galera a oltre 50 anni di distanza dei fatti denunciati. Il nazista Rudolf Hess, dopo più di 40 anni di detenzione, non può neppure morire a casa sua e allora salvaguarda la dignità umana (non solo sua) ricorrendo alla morte volontaria. Il rito arcaico e sanguinario del capro espiatorio è riuscito a mascherarsi come grido di libertà contro il nazismo, la tirannia... trasformando chi lo lancia nel contrario di quel che crede di essere. Va invece detto chiaro e tondo: l'orrore è Priebke in galera. L'errore è che vi siano state in Europa più manifestazioni per punire Pinochet che per liberare quelli magari ancora in carcere per averlo combattuto. Un libertario dovrebbe manifestare per l'impunità di quelli come costoro, sotto il profilo penale, anche se non dovrebbe avere nulla in contrario verso un tribunale volto a ristabilire la verità. Questa affermazione è però tutt'altro che ovvia: proprio l'ipoteca penale distorce l'amore per la verità, essendo guidata dalla strumentalizzazione del risentimento della vittima invece che da una ricerca di soluzioni per regolare il conflitto. La vittima non è protagonista, ma ridotta a testimone, perché la ricostruzione giudiziaria del conflitto richiede una riduzione interpretativa che si concentri sul reato a prescindere da ogni contesto. Il processo riduzionista è evidente nella definizione stessa di "delinquente", sovraccaricato di responsabilità tanto individualizzate da esser decontestualizzanti, ossia deresponsabilizzanti per la comunità. Ma nella stessa logica "giudiziaria" - formale, astraente - agisce già ora la figura del "terrorista". Dietro alla parola "terrorismo", è tutta la "guerra dei poveri", con il suo carico sia di speranze che di contraddizioni disperate, a essere liquidata come modesto affare per un tribunale (magari militare, ad hoc...).
     Di fronte a questi nuovi scenari bisogna ricordare che i tribunali non penali, quelli della pace, sono possibili. Essendo anzitutto per la verità, essi sono l'esatto opposto di quelli penali, come cercò di essere quello "Bertrand Russell" ai tempi della guerra del Vietnam. Il loro nemico è la rimozione e possono venire in mente solo a chi sia perplesso già sulla validità del sistema penale in generale. Anche un tribunale della pace dà spazio al risentimento delle vittime, anzi, ne dà pure di più; ma non perché esse si sostituiscano ai carnefici per riprenderne il ruolo; esso "invita" l'oppressore a smettere di essere quel che è facendo riconoscere a tutti quel che è stato, perché il patrimonio di cui abbiamo realmente bisogno può e deve essere anche in negativo.
     Un tribunale penale può processare degli analfabeti fanatizzati, paradossalmente chiamati studenti (taliban). Un tribunale della pace denuncia chi, prima, li ha fatti sorgere come un fungo e, ora, vuole trasformare tutti noi in nuovi taliban per massacrare quelli. E' opportuno ricordare che la guerra del Vietnam terminò perché, accanto alla resistenza vietnamita, conobbe anche la non collaborazione di tanti giovani americani, informati, che non si fecero talibanizzare: si fecero forti di un patrimonio in negativo.

Vincenzo Guagliardo
Opera, novembre 2001

* nota bibliografica
Walter Benjamin, Per una critica della violenza (scritto nei primi anni del primo dopoguerra; in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962).

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