ABOLIZIONISMO
di Vincenzo Guagliardo
Per fortuna ormai un pò di gente arriva a dire che è in atto da anni una
regressione dallo Stato sociale allo Stato penale, criminalizzando la
miseria, ovvero mettendo in galera il diseredato solo perché è tale e
neanche più per quello che ha potuto fare. Tendere a imprigionare la gente
per quel che è a prescindere da quel che ha fatto, è anche un passaggio,
come alcuni ricorderanno, dalla logica penitenziaria a quella del lager,
dove si finiva in quanto ebrei, zingari, omosessuali ...
Vincenzo Guagliardo scrivici a
Questa tendenza, auspicata da tanti e denunciata da pochi, vive dagli anni
di Reagan, in pratica da un ventennio, e ha invaso tutto l'Occidente. Essa
richiede una riflessione che non si limiti a dire che è in atto una svolta
repressiva contro i poveri; richiede una riflessione in grado di capire che
questa è la conclusione di una lunga storia. Quanto avviene in questi due
decenni è l'epilogo grave, l'ultima evoluzione d'una civiltà fondata sul
dominio ed è perciò che bisogna cominciare a parlare di abolizionismo: di
movimento per l'abolizione di tutto il sistema penale, dal diritto penale
alle prigioni; e non nella società del domani in testa a qualcuno, ma in
questa.
Almeno in Italia, l'attuale svolta non cominciò considerando ogni emarginato
un potenziale colpevole, ma colpendo con meccanismi inquisitoriali. Tizio e
Caio vennero puniti più di altri se volevano pensare con la loro testa. Già
qui non importava più quel che si era fatto; fu l'epoca dei pentiti e delle
dissociazioni, ovvero delle delazioni e abiure a pagamento, in nome
dell'emergenza antiterrorista. E' da quella fase tipo gulag che si è poi
arrivati all'inizio di questa nuova, tipo lager. Naturalmente i due principi
continuano a coesistere; se il primo storicamente prepara il secondo, il
secondo comprende il primo. E se ci si pensa, non è la prima volta che
questo processo si verifica nella storia della nostra civiltà. Solo che
questa volta, tale processo, unito ad altri fattori degenerativi, rischia di
travolgere tutto e tutti con beate incoscienze e diffuse partecipazioni.
Il rito del capro espiatorio è stato e resta a fondamento della nostra
cultura, la base su cui si è costruito ogni potere prima, quindi ogni
dominio e infine ogni sistema di sfruttamento. E' la costante, il fattore K.
E' utile rileggersi cosa fu il massacro degli eretici fino alla definitiva
sconfitta dei catari nel Duecento, e poi vedere non già esaurirsi, ma
rilanciarsi l'Inquisizione che lì era nata, per darsi al massacro nella
cosiddetta "caccia alle streghe" durante i secoli successivi. Vi si scopre
che tante novità non sono tali, appunto. Anche allora ci fu un passaggio dal
modello tipo gulag verso gli eretici e i mondi sociali che rappresentavano,
a quello tipo lager contro le streghe, donne mandate al rogo non più per
quello che pensavano (se non nell'immaginario degli inquisitori) ma per ciò
che costituivano: l'indipendenza di un mondo fondato sulla sussistenza,
fuori dalla logica invadente del mercato. Oggi, nel regno liberista, tutto
questo avviene però in un giorno, invece che in qualche secolo. Ecco che chi
fa l'abiura delle lotte per la liberazione sociale - riducendola a vicende
da KGB e di subordinazione al regime dittatoriale dell'URSS - manda negli
stessi giorni il grande messaggio della lotta alla criminalità: in pratica
contro i più deboli dei deboli, quei 50 mila in carcere che sono già,
comunque, il doppio di alcuni anni fa.
Ancora una volta, dunque: ancora una volta vediamo che offrire vittime
sacrificali serve ad ogni potere a "limitare" la violenza e a controllarla a
suo uso e consumo. La si indirizza contro qualcuno per evitare che tutti si
scannino contro tutti mossi dall'invidia, dal risentimento, dato che
comunque si tratta di salvare un sistema basato sull'ingiustizia e non certo
sull'amorevolezza ... Questo antichissimo meccanismo permette di cooptare
chiunque, anche il ribelle, perché è la via più facile per spiegarsi le
cose. E' infatti più facile vedere la pagliuzza nell'occhio altrui che la
trave nel proprio; soprattutto è più comodo. E non è forse vero che anche i
rivoluzionari hanno spesso mantenuto questo vizio, "tradendo" così ogni
volta ogni rivoluzione? In un breve scritto poco conosciuto, Gramsci si
entusiasmò per la nuova profonda autenticità della rivoluzione bolscevica
perché il primo atto che la contraddistinse fu la liberazione dei
prigionieri a Riga. La rivoluzione francese ha ancora oggi come simbolo la
presa della Bastiglia. Ma poi arrivano quelli della rivoluzione diventata
potere ... e sappiamo che Stalin fece fuori per primi proprio i bolscevichi
suoi compagni, e poi instaurò un immenso sistema penale che giunse a
incarcerare anche i dodicenni (sì, come Blair). E nella rivoluzione francese
quando, pochi anni dopo, furono assalite delle carceri, fu per massacrare i
prigionieri!
Il principio della pena è l'unico valore, il centro della morale di questa
società. Essa non ha altro, e praticamente tutti partecipano al suo sistema,
da cui discendono modelli educativi, teorie psicologiche, concezioni
filosofiche, ecc. Quella della pena è la lingua in cui parliamo tutti, e fin
da piccoli. I benpensanti vogliono in galera i poveracci, gli altri i ricchi
o i "fascisti", ma tutti accettano quel centro, i ruoli previsti dalla
tragica sceneggiatura, il cui perno è la vittima sacrificale, demone per l'
uno o eroe per l'altro. La pena non è mai servita a reprimere realmente i
colpevoli; ogni storico serio lo riconoscerà. Serve a gratificare, a
cementare il senso d'appartenenza di quelli che la vogliono applicata ad
altri. La pena è dunque "inefficiente" per definizione, per la sua stessa
natura; e proprio così unisce tutti, amici e nemici.
Ma ora che, nella vita sempre più atomizzata del mondo attuale, tutte le sue
istituzioni implodono, è come se - per reazione - si tornasse sempre più
alle origini con l'esplosione del sistema penale. E' come se, dopo aver
distrutto via via tutto, non restasse più altro, come valore morale, che
questo atto fondatore di una comunità linciante. Perciò oggi la violenza
insita nel rito della vittima sacrificale non incontra più i confini, i
"limiti" stabiliti nel sacro da cui è nata e vediamo anzi la logica del
sistema penale diventare sempre più invadente: dominando la politica interna
(questione sociale = questione criminale), quella internazionale (dalla
crisi della diplomazia verso l'esaltazione di un tribunale penale
internazionale permanente), fino ad aver pericolosamente rovesciato
recentemente lo stesso senso "tradizionale" della guerra. Le guerre non sono
mai state definite come delle sentenze. La guerra convenzionale è una
sanzione violenta che pretende di raggiungere l'ordine che si è dato, come è
in fondo altro tipo di lotta violenta e non, dallo sciopero al boicottaggio.
Solo l'incarcerazione e la pena di morte hanno generalmente lo scopo di
punire la disobbedienza a un ordine e non di raggiungere l'obbiettivo per
cui esso è stato dato. Ma la guerra Nato condotta nei Balcani è stata frutto
di un ragionamento penale invece che guerresco vero e proprio.
In questo nuovo contesto, parlare di abolizionismo significa anzitutto
guardar se stessi prima di mettere in croce un altro (o volere che ci resti
come martire e faro di ribellione ... futura): perché si vada alla radice
della pena come centro della morale comune, onde definire una nuova
strategia dei conflitti non più fondata su una loro prevalente riduzione a
reati.
Tutto ciò apre il campo a molte riflessioni che non si possono affrontare
qui per ragioni, se non altro, di spazio. Ma una cosa mi è chiara: non tutti
gli abolizionisti saranno necessariamente dei rivoluzionari; ma, di sicuro,
chi non è abolizionista, rivoluzionario da oggi in poi non potrà più
esserlo.
Opera, ottobre 1999
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