SFIDARE ZONE ROSSE
O
SOTTRARSI ALLE ZONE GRIGIE?
di Vincenzo Guagliardo
La teoria abolizionista del sistema
penale si è diffusa nell'Europa del Nord ed è ancora poco conosciuta in quella
meridionale. In Italia in particolare, la critica del diritto è anzi dominata
dalla scuola del <<diritto penale minimo>>. I minimalisti sono in
generale degli accademici che, per ciò stesso, fanno parte a pieno titolo del
sistema penale (università, contributi al potere legislativo ecc.). Attualmente,
per esempio, uno dei più noti minimalisti, il prof. Eligio Resta, è presente
nell'organo supremo del potere giudiziario - il Consiglio superiore della magistratura
(CSM). Anche un'associazione come Antigone, che da anni difende i diritti dei
detenuti, è largamente orientata in senso minimalista.
Chi, non importa se in nome del realismo verso l'<<inevitabile>>
o della fede verso ciò che sarebbe <<giusto>>, accetta o difende
l'idea di pena come forma di sanzione, si pone però necessariamente come difensore
della violenza politica. L'abolizionismo ritiene che il conflitto sia invece
positivo in sé, e che perciò sia possibile, liberandolo, farlo evolvere verso
forme sempre più coscienti, ossia meno alienate e violente. Esso si presenta
dunque come esempio di strategia non-violenta per la soluzione dei conflitti.
E proprio qui, di fronte alla questione della violenza e dei suoi tanti inconsci
sostenitori, sorgono le difficoltà di comprendere questo movimento: se è relativamente
semplice immaginare una pratica non-violenta, più difficile è elaborare un sistema
di pensiero libero dalla violenza.
I minimalisti, per esempio, si presentano come una
nuova scuola di riformatori. D'altronde ogni riforma si presenta come novità;
e tutta la storia dell'evoluzione del sistema penale vive anzi delle teorie
dei riformatori volte a umanizzare-ridurre la pena mentre proprio così, in realtà,
la pena si estende sempre di più quale assurda volontà di dis-soluzione
dei conflitti. Anche Beccaria e John Howard erano dei minimalisti del loro tempo,
e perciò sono i fondatori del sistema penitenziario moderno nel diciottesimo
secolo. La pena funziona infatti esattamente come un cancro; è così che si rinnova,
si estende e coopta sempre nuove figure nel suo sistema, aumentando in pari
tempo i suoi fallimenti rispetto agli intenti dichiarati dai suoi teorici riformatori.
Spunti una pena di qua, e rispunta di là in altra forma, insidiosa come le metastasi
del cancro. Ad alcuni dei sempre nuovi riformatori umanizzanti dobbiamo ormai
anche concetti come quello di premio che cancella già di per sé, per definizione,
il concetto di diritto, in nome di una contorta teoria della <<flessibilità>>
della pena: che elimina quindi ogni <<certezza>> non già della pena,
ma del diritto. Il risultato è che sono aumentate le lunghe pene, quindi il
numero complessivo dei reclusi, e infine i tipi di pena.
Di fronte a questo fenomeno tumorale poco più che bicentenario
la proposta pratica abolizionista è, almeno all'apparenza, quanto mai moderata:
spostare sempre più la sanzione dal campo del diritto penale a quello civile.
Ma dietro a questa moderata proposta c'è l'abbandono di una mentalità punitiva,
c'è uno sguardo che prova a interrogarsi invece di trovare ogni volta un capro
espiatorio, l'<<altro>> su cui riversare ogni spiegazione della
<<situazione-problema>> (termine di Louk Hulsman): ciò mette in
discussione una civiltà, vale a dire la sua cultura. Lo scopo del sistema penale
è infatti quello di... fallire riguardo a quanto dichiara di voler realizzare;
in questo fallimento esso non solo paradossalmente si estende sempre di più,
ma funge da cemento morale della comunità, costruisce il centro della sua scala
di valori: il perpetuarsi del rito del capro espiatorio per ricostruire il senso
di appartenenza alla comunità. Solo che via via, il <<Tutti contro uno
(per salvare il tutto)>> va diventando <<Tutti contro tutti (che
minaccia il tutto)>>...
Qualche superficialone potrebbe già pensare, in base
a quanto ho detto fin qui, che la colpa della mancanza di un movimento abolizionista
in Italia sia da attribuire ai minimalisti, dato che essi costituiscono la teoria
stessa del sistema penale. No, la responsabilità principale di una tale situazione
è da attribuire invece proprio ai <<rivoluzionari>>, agli <<antagonisti>>,
alla sinistra in generale: a tutti coloro cioè che affermano di militare contro
le ingiustizie sociali e le logiche repressive. Essi non sono all'altezza di
quel che credono di essere già, e non si distinguono affatto dai minimalisti
che lavorano alla costante autoriforma del sistema penale. Del resto, i minimalisti
fanno anch'essi parte di questo movimento.
Lungo è l'elenco delle responsabilità anzitutto, potremmo
dire, per omissione di soccorso. Provo ad elencarne alcune.
Ecco una classica litania di sinistra: in galera ci
stanno le persone sbagliate (i poveri invece dei ricchi, o i comunisti invece
dei fascisti, ecc.): l'essenziale è salvaguardare l'istituto della galera, e
dietro a essa il bisogno profondo del capro espiatorio, centro morale dell'inconscio
collettivo della civiltà attuale. C'è così un dato di fatto in Italia: il paese
europeo che ha forse conosciuto le maggiori esperienze di protesta sociale (con
il più grande PC d'Occidente, il più vasto movimento d'estremismo di sinistra
ecc.) è tra quelli con le più lunghe pene da scontare, uno dei più indietro
nel rispetto dell'affettività dei carcerati, e ora abbiamo raggiunto il traguardo
dei 100 detenuti per centomila abitanti in una prospettiva che promette solo
di peggiorare verso il modello americano. E tutto questo con una legge penitenziaria
fra le più premiali d'Europa, che lascia imperare un arbitrio ai confini della
follia. Un simile risultato dimostra che in Italia l'opposizione è stata quanto
mai ambigua sul fronte punitivo.
I meccanismi di cui si sta qui parlando in modo necessariamente
schematico, sono molto sottili. Intanto, anche fra i militanti più radicali,
l'istituzione penale viene vista come una questione tra tante altre, non certo
come una priorità, dato che nessuno riconosce in essa il più grande monumento
eretto per celebrare la religione comune che guida l'inconscio collettivo della
società. Ma ecco che anche chi decide di mobilitarsi sul carcere, per esempio,
individua in generale sempre delle priorità a mio avviso sbagliate. Vengono
ignorati proprio i casi più significativi, la base dell'iceberg, e ci si muove
solo sugli aspetti che coinvolgono i grandi numeri. Ci si preoccupa per esempio
(giustamente, per carità) della grande massa di reclusi che entrano ed escono
e rientrano in galera, ma si trascura completamente che tutto ciò è il risultato
del fatto che in Italia c'è una minoranza in aumento di persone che scontano
pene tra le più lunghe d'Europa. La differenza tra i primi e i secondi è che
quelli sono considerati meritevoli di comprensione (emarginati innocenti) mentre
questi hanno spesso compiuto atti considerati odiosi. Eppure non ci vuole molto
a capire che se si abolisse il vertice della scala (l'ergastolo), anche tutte
le altre pene andrebbero a scalare. In Germania l'ergastolano finisce la
sua pena dopo 15 anni, in Francia dopo 19, in Svizzera e in Europa del Nord
prima ancora. Qui da noi capita d'incontrare un non ergastolano in carcere
ancora dopo 30 anni (devo però dire che da qualche tempo va in permesso...).
Non è forse poi un luogo comune dire che i <<terroristi>> sono tutti
fuori grazie al pentitismo, alla dissociazione e poi alla Gozzini?
Credo che questo non voler vedere sia la base fondante
del sistema penale.
Perché non
si vuol vedere?
Intanto, notiamo che a sinistra come a destra, tutti
amano attribuire gli <<eccessi>> del sistema penale all'avversario,
alla sua ideologia. I lager sono colpa dei nazisti, cioè del nazismo; il gulag
è colpa dei comunisti per la destra e della controrivoluzione stalinista per
la sinistra. Sembra di dire un'ovvietà. Io credo che le cose siano al tempo
stesso più complicate e più semplici da capire.
I nazisti furono da subito razzisti antisemiti. All'inizio
pensavano di poter deportare tutti gli ebrei nell'isola di Madagascar... Solo
dopo, durante la guerra, prevalse l'idea della <<soluzione finale>>:
Perché i nazisti erano dei nazisti? O perché, di emergenza in emergenza, gli
risultò come un <<ovvio>> dato di fatto, quale via di liberazione
del loro <<problema>>, ciò che il mondo penitenziario offriva già
in modo praticamente spontaneo fra brutalità di norma e spesso assassine, fatiche
e denutrizioni? Per il semplice fatto di dover andare avanti nelle <<difficili>>
condizioni di guerra, il campo di concentramento non provocava forse la morte
facile di molte persone? Il resto non poteva avvenire, dopo, come unica decisione
<<realistica>> di gente che già era così ben predisposta con i suoi
miti gerarchico-razzisti?
In Urss non c'era la stessa filosofia aprioristicamente
razzista, ma l'estensione del sistema penale in nome della lotta ai <<controrivoluzionari>>
produsse risultati altamente catastrofici per la vita di tanti esseri umani
(e lo stesso avvenne in Cina).
L'Occidente liberale ama oggi denunciare questi orrori
imputandoli alle ideologie nazista e comunista. Il liberalismo nasconde così
la lunga, normale storia dei massacri sistematici (li si chiami olocausti o
genocidi, se si vuole), e dei campi di concentramento (li si chiami lager o
gulag, se si vuole), che precede e segue le esperienze germanica e sovietica.
Nell'esperienza coloniale, tanto per fare un solo esempio.
La mia tesi è semplice: in ogni carcere esiste, come
suo centro nascosto, l'embrione del peggio. Il suo ulteriore sviluppo dipende
soltanto da <<circostanze esterne>>, <<emergenze>> eccetera.
E tutti i sistemi sociali e le ideologie che abbiamo conosciuto potevano accettare,
hanno accettato e ancora accettano le presunte necessità che il rito espiatorio
richiede. Perciò io non do del nazista, del liberista o del comunista a chi
è forcaiolo o indifferente ai casi significativi e poco visibili della sofferenza
umana prodotta dalla mentalità punitiva. So che questa sarebbe un'accusa superficiale,
un modo di essere complice di tutto ciò che oggi bisogna denunciare: si demonizza
qualcuno per affermare la sua unicità e non dover vedere cosa c'è in comune
tra lui e noi. Non voglio dunque banalizzare le cause dei lager, del gulag,
dei campi di concentramento costruiti dall'Occidente del capitalismo liberale,
dei massacri sistematici che non sono solo l'Olocausto degli ebrei (dal trattamento
dei nativi d'America, alla <<Tratta Atlantica>> che ha sconvolto
l'Africa per 150 anni di rapimenti e morte per la schiavitù, al successivo colonialismo
imperialista, alla sorte che vivono i palestinesi da oltre 50 anni, la storia
è lunga).
La mia tesi è semplice, ripeto: ogni volta che vedi
una prigione, là dentro c'è un'isola, qualche caso che è già , da sempre
e come realtà comunemente accettata, quell'orrore che denunci solo come caso
estremo, solo quando lo vedi estendersi in dimensioni che vanno verso il cosidetto
<<genocidio>>. Lì dentro, alcune persone conoscono il lager,
il gulag, il <<genocidio>> o la <<deportazione>>. Il
carcere fa da cordone protettivo a questa realtà, da maschera, da vivaio eccetera.
Ma per te, questi casi significativi, dato che non fanno alto numero a causa
della disseminazione delle prigioni, non sono una <<priorità politica>>.
Hai altro a cui pensare, tu. E' come per gli alberi: si vedono il tronco, i
rami, le foglie, i frutti; non le radici.
Oggi però, con poco sforzo, queste radici si possono
vedere meglio. Le antiche minacce che si credevano confinabili (e perciò sepolte)
perché imputabili al <<nazismo>> e al <<comunismo>>
secondo la vulgata neoliberale, stanno tornando. Perciò della barbarie del sovraffollamento
carcerario si parla come se fosse una notiziola fra le altre, ignorando che
lo Stato sociale in crisi trova il suo... naturale sostituto nello Stato penale,
che quest'ultimo tende cioè a diventare la nuova politica per i poveri, e che
ciò costituisce un aspetto strategico nella politica delle grandi multinazionali.
Meno asili più galera, insomma, è l'ultima metastasi. Ora, che in questa civiltà
tale tendenza trovi persino l'entusiastica approvazione di tanti, è normale,
dato quel che si è accennato finora sul bisogno <<religioso>> del
principio vittimario. E' semmai opportuno riflettere sulla scarsa attenzione
dedicata a questa minaccia sociale (ché di questo ormai si tratta) dal <<movimento
dei movimenti>> (i No Global). Esso si muove su contenuti molto avanzati:
non più ossessionato dal tema della conquista del potere politico (come fu per
eredità resistenziale ai tempi della mia generazione) può entrare in conflitto
in termini <<pacifici>> e al tempo stesso scoprire e criticare con
delle pratiche intelligenti, come ha fatto, il modello di vita che le aziende
multinazionali impongono. Eppure, nonostante questi due vantaggi rispetto a
una trentina d'anni fa, la critica al principio vittimario latita troppo.
Le ragioni di questa scarsa attenzione mi sembramo
discutibili dal punto di vista logico, ma anche comprensibili da un punto di
vista storico. Vorrei accennare alle due principali.
La non-violenza . Dopo Genova alcuni provano già a dire che il dilemma non è violenza o non-violenza; altri affermano che è assurdo far ripiegare un movimento così ricco di contenuti sull'obiettivo (difensivo) del diritto a manifestare. Purtroppo, piaccia o meno, è difficile sfuggire a questo problema in una società come la nostra. L'avversario cerca di portarti sul suo terreno, che è la violenza, e tu perciò devi scegliere se essere violento o no. Il guaio è che spesso dalle nostre parti si spacciano per non-violenti tanti moderati . Di riflesso, all'interno cioè dello stesso gioco di specchi, vi sono altri che giocano con la <<violenza rivoluzionaria>> (a volte più che altro simulandola) e non si rendono conto che questo gioco ha conseguenze pericolose. Questi due giochi fanno ignorare che la vera non-violenza richiede anzitutto un coraggio e un rischio maggiori di quanto non richieda la violenza, dato che l'unica arma di cui si dispone è la propria vita. Accettare il rischio di farsi schiacciare da un blindato senza reagire non è facile... Occorrono dei militanti ancora più disciplinati e organizzati di un guerrigliero, e soprattutto coinvolti in una concezione ancora più <<globale>>... E' allora abbastanza naturale che la maggior parte delle persone sia poco portata a fare delle riflessioni così scomode e ripieghi su una più o meno vera accettazione della violenza <<contro>>. E se lo fa, per giustificarsi, deve demonizzare l'avversario, astraendolo in una sua isola che lo renda altro da lui, ben diverso eccetera. Ma è proprio così facendo che si deve allora soprassedere su molte questioni, diventando simile all'avversario intorno al principio vittimario, in un costante circolo vizioso. La non-violenza è anzitutto una radicale non-collaborazione culturale, una sottrazione di ruolo.
La falsa memoria . L'altra
ragione, forse meno importante, ma che rafforza la precedente nella difficoltà
a capire le dinamiche vittimarie, è che dai luoghi di sofferenza legale difficilmente
possono giungere molte testimonianze veritiere. Esse esistono, ma per lo più
sono condannate alla diffusione underground, oppure sono fraintese.
La storia dei lager in Germania ci è stata raccontata
dai sopravvissuti, molti dei quali dovettero accettare terribili compromessi
per farcela, a spese dei propri compagni. Primo Levi, ben conosciuto per la
sua testimonianza e al tempo stesso persona lucida e corretta che sottolinea
l'esistenza delle <<zone grige>> della collaborazione, è un caso
fortunato (per noi) e non così frequente. Non è facile per i testimoni disvelare
poi le dinamiche che da sempre comprendono la complicità degli oppressi nel
realizzarsi del processo vittimizzante. Demonizzare l'avversario dopo serve
allora a nascondere questa triste realtà e così a rinnovarla per mancanza di
coscienza. Essere non-violenti in carcere vuol dire non collaborare, sottrarsi
a questa complicità inevitabilmente pretesa da chi ti opprime; vuol dire difendere
la propria dignità e lo si paga diventando dei sepolti vivi, o dei cadaveri,
a seconda dei casi.
Ci vuole una nuova mentalità, una grande com-passione
per ammettere che anche gli antinazisti, per esempio, contribuirono, dal basso
e sotto ricatto, a creare i lager. Ma quelli che ricostruiscono il senso della
storia lo fanno sempre da duri e puri: il loro inconscio deve salvaguardare
l'istituto della pena e perciò <<assolvere>> le debolezze dell'<<io>>
e attribuire tutto e solo ai demoni, all'Altro.
Sotto questo profilo - fornire il senso della storia
- le cose non sono cambiate se non in peggio. Sono cambiate nelle forme per
estendersi, e per raffinarsi nella sostanza. La menzogna avanza e con essa,
una crudeltà non più riconosciuta come tale, in una spirale distruttiva e suicida
per l'umanità.
Vincenzo Guagliardo
Opera, agosto 2001
scrivici a
out.out@libero.it