Intervista con Nicola Valentino trasmessa da Radiondarossa il 12 Giugno 2001
Perche' avete scelto di intitolare il vostro ultimo libro Nella citta' di Erech?
La citta' di Erech fa parte delle storie piu' antiche del mondo e risale al
IV millennio A. C. (si puo' leggere a tale proposito il bel libro di Gaster
T.H. Le piu' antiche storie del mondo) e racconta la lotta tra il re Gilgamesh,
per meta' uomo e per meta' dio, ed Enkidu, selvaggio come un animale perche'
mai entrato nella citta'. Questo mito-archetipo della citta' di Erech racconta
un dispositivo di inclusione/esclusione originario della nostra civilta' e tuttora
operante: al di qua del muro della citta' gli inclusi, al di la' del muro gli
esclusi.
Inclusi ed esclusi non si trovano su un piano orizzontale, bensi' in un rapporto
di potere gerarchizzato che de-umanizza gli esclusi, tanto che Enkidu e' un
selvaggio escluso dalla specie. Nel dispositivo di inclusione/esclusione sono
coinvolti anche gli inclusi perche' nel processo di adattamento e conformizzazione
alle istituzioni ordinarie che caratterizzano la citta' essi devono aderire
a codici omologanti e costruire identita' di adattamento a questi codici e cosi'
facendo sacrificano altre componenti identitarie che vengono messe da parte.
L'identita' di adattamento sacrifica infatti la vastita' identitaria di cui
tutti noi siamo fatti. Questa dinamica adattativa che noi tutti viviamo e' all'origine
del malessere della vita quotidiana, quello che noi chiamiamo il malessere della
normalita'.
Quale percorso di ricerca precede questo libro?
Nella citta' di Erech si colloca all'interno di un lavoro di ricerca avviato
gia' dall'inizio degli anni 80. Nel 1990, dopo un decennio di attivita' di ricerca,
insieme a Renato Curcio e Stefano Petrelli scrivemmo Nel bosco di Bistorco.
All'epoca eravamo tutti e tre, a tutti gli effetti dentro un'istituzione totale
che era il carcere.
Nel bosco di Bistorco si interrogava sui dispositivi relazionali tipici delle
istituzioni totali e sulle risposte e risorse vitali che le persone mettono
in atto per non morire e rispondere ai dispositivi mortificanti dell'istituzione
totale. Ci interrogavamo con quel libro sull'esperienza che noi stessi stavamo
vivendo dentro l'istituzione totale, diventando partecipanti-osservatori del
contesto in cui ci trovavamo. Questa operazione di partecipazione-osservazione
dell'istituzione totale vanta peraltro una tradizione diffusa e illustre tra
le persone rinchiuse nei campi di concentramento e nei manicomi che hanno maturato
un'esperienza di dissociazione di presenza a quel contesto, ovvero mentre una
parte della persona vive un'esperienza di sofferenza, un'altra parte osserva
se stessa e gli altri che come lei vivono e rispondono a quel contesto di sofferenza.
Questo lavoro di documentazione e osservazione su noi stessi ha portato al nostro
primo libro Nel bosco di Bistorco che fonda la nostra ricerca sull'esperienza
umana nelle istituzioni totali e sulle risposte vitali ai loro dispositivi mortificanti.
Insieme a questo libro abbiamo fatto nascere la cooperativa Sensibili alle foglie
e la linea editoriale che continua questo lavoro di raccolta di documentazione.
Contemporaneamente nasce anche l'Archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata
che oggi raccoglie oltre cinquecento opere (dipinti, disegni, manoscritti) per
un totale di cento autori.
Nella citta' di Erech estende la vostra analisi alle istituzioni ordinarie,
quali differenze e quali analogie ci sono tra queste e le istituzioni totali?
Per istituzioni totali intendiamo il carcere, il manicomio, l'ospedale psichiatrico
giudiziario, i campi di concentramento; quando invece parliamo di istituzioni
ordinarie facciamo riferimento alla scuola, alla famiglia, alle istituzioni
ospedaliere e sanitarie e piu' in generale alle istituzioni delle relazioni
sociali che governano la nostra vita.
La nozione di istituzione totale risale al sociologo americano Ervin Goffman,
autore di Asylums in cui afferma che: "Uno degli aspetti fondamentali della
societa' moderna e' che l'uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in
luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorita' e senza alcuno
schema razionale di carattere globale". La caratteristica principale delle
istituzioni totali per Goffman e' la rottura delle barriere che abitualmente
separano le tre sfere principali della vita di ogni individuo: la famiglia,
il lavoro, il divertimento.
Altri ricercatori - Michel Foucault e Franco Basaglia in particolare - hanno
successivamente messo in evidenza un dispositivo disciplinare e di potere che
unifica alla radice quelle "sfere della vita". Foucault, ad esempio,
enfatizza il potere disciplinare, vale a dire quell'insieme di pratiche e di
conoscenze orientate sugli individui allo scopo di renderli conformi a determinati
codici di comportamento. Un potere distribuito ed articolato in tutte le istituzioni,
dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alla prigione e al manicomio. Soprattutto
un potere che lavora per indurre in tutte le persone che ricadono sotto il suo
dominio una forte interiorizzazione o internalizzazione di valori, modelli identitari,
contenuti di significato riferibili alla normalita' e che tratta gli incorreggibili
per recuperarli alla conformita', per rinormalizzarli.
Basaglia articola ulteriormente questo sguardo e mette al centro della sua riflessione
la divisione dei ruoli e la relazione di potere che ad essa corrisponde. Secondo
Basaglia "Famiglia, scuola, fabbrica, universita', ospedale, sono istituzioni
basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore,
maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore
e organizzato). Cio' significa che quello che caratterizza le istituzioni e'
la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si puo' ancora
dedurre che la suddivisione dei ruoli e' il rapporto di sopraffazione e violenza
fra potere e non potere, che si tramuta nell'esclusione da parte del potere,
del non potere; la violenza e l'esclusione sono alla base di ogni rapporto che
s'instauri nella nostra societa'".
La differenza tra le istituzioni ordinarie e le istituzioni totali consiste
allora nel fatto che nelle istituzioni considerate ordinarie (famiglia, scuola,
azienda, banche, partiti, ospedali, centri sociali, ecc.) la dialettica istituente/istituito
prevede per tutti gli attori della relazione la possibilita' di esercitare una
azione istituente in conflitto con l'istituto. Nelle micro-dimensioni, nelle
dinamiche molecolari, gli attori che subiscono le torsioni esercitate da chi
si erge a guardiano dell'istituito possono opporre azioni che istituiscono processi
avversativi alla richiesta correzionale o di conformazione: processi di istituzionalizzazione.
Le istituzioni ordinarie mantengono dunque un certo grado di elasticita' e porosita'
in modo tale da non escludere, almeno potenzialmente, un esito trasformativo
dell'azione dell'istituente ordinario.
Nelle istituzioni totali viceversa, questo orizzonte che ammette mutamenti non
e' affatto presente. Processi avversativi ordinari alle richieste di correzione,
adeguamento e rinormalizzazione che i guardiani dell'istituito impongono hanno
scarsissime possibilita' di decollare per via ordinaria. Se una trasformazione
qualitativa essenziale puo' prodursi essa, in genere, dipende da istituenti
straordinari (movimenti sociali, rivoluzioni, ecc.) che investono con la loro
azione collettiva le macrodimensioni della formazione sociale.
Le istituzioni totali in cui si viene rinchiusi contro la propria volonta' -
ergastolo, manicomio giudiziario, carcere, ospedale psichiatrico, campo di concentramento
- hanno la caratteristica di esercitare un controllo assoluto dello spazio,
del tempo (presente e futuro), della quantita' e della qualita' delle relazioni
che puo' vivere la persona internata. Sono anelastiche e non porose. La relazione
tra gli attori che le fanno vivere e' gerarchica, unidirezionale, intransitiva
e resistente ad ogni dialettica ordinaria. Esercitano costitutivamente una torsione
relazionale mortificante sull'attore recluso.
Oltre agli effetti sulle persone che si trovano all'interno, come si pongono
le istituzioni nei confronti della societa' nel suo complesso?
Verso l'esterno istituzioni ordinarie e totali agiscono creando il bisogno di
se'. La salvaguardia dell'istituzione viene garantita dal mito che l'istituzione
riesce a creare di se stessa, indicando i valori su cui si fonda, e dalla capacita'
di creare nella societa' la percezione di una carenza di questi valori.
A fondamento della legittimazione delle istituzioni, sia ordinarie che totali,
nella societa' occidentale, almeno a partire dal XVIII secolo e dai suoi ottimismi
illuministi, sta la nozione di trattamento che ha come suo orizzonte il controllo.
L'esistenza delle istituzioni e della loro azione e' giustificata dallo scopo
trattamentale che esse perseguono. Famiglia e scuola si occupano del trattamento
educativo; ospedali e centri psichiatrici svolgono un trattamento di tipo terapeutico;
carcere e manicomio hanno lo scopo di esercitare trattamento rinormalizzante
e risocializzante. L'azione trattamentale opera per indurre una forte interiorizzazione
del mito identitario, dei valori, dei modelli, dei contenuti di significato,
riferibili alla normalità. Essa si considera ben riuscita quando il controllato
si e' trasformato in un buon controllore di se stesso.
Accanto al modello trattamentale, negli ultimi scorci del 900 - a partire dagli
anni '70 e segnatamente negli anni '90 - si afferma un orientamento del controllo
sociale, che, da un termine della matematica applicata alle assicurazioni, viene
definito attuariale. Le categorie sociali riferite a quest'area (immigrati,
nomadi, consumatori di droghe illegali) essendo sempre piu' considerate fonti
potenziali di rischio criminale soggiacciono a strategie intese a neutralizzarle
preventivamente. La differenza specifica rispetto al modello trattamentale consiste
nel fatto che il primo coltiva l'utopia della rinormalizzazione dei soggetti
devianti, mentre il modello attuariale sposta l'attenzione dai soggetti singoli
alle categorie di soggetti classificando queste ultime secondo le potenzialita'
di rischio che vengono ad esse attribuite. Le istituzioni che incarnano il controllo
attuariale sono i centri di permanenza temporanea per stranieri irregolari,
i campi nomadi, le comunita' terapeutiche chiuse e altri raccoglitori per persone
povere, anziane, con handicap, con lunghe detenzioni manicomiali alle spalle,
i circuiti per "nuovi cronici". Nonostante la novita' delle categorie
sociali e dei luoghi istituzionali cui viene applicato il modello attuariale
rimanda alla stagionata nozione di "pericolosita' sociale" che e'
stata a fondamento delle reclusioni senza reato nei campi di concentramento
ad ovest come a est.
Cosa vi ha spinto a occuparvi non solo della sofferenza nelle istituzioni totali,
ma anche del malessere della normalita'?
A partire dal 1994 alcuni fattori modificano il nostro lavoro e innescano quella
fase di ricerca che ci ha condotto oggi a scrivere Nella citta' di Erech. Due
tipi di sollecitazioni ci spingono a estendere il nostro interesse al di la'
delle istituzioni totali. Una sollecitazione di tipo interno derivante dalla
nostra diversa collocazione nella vita e nella societa' e una sollecitazione
proveniente dall'esterno nel corso degli incontri seminariali con operatori
istituzionali coinvolti nella nostra attivita' di ricerca.
Nella citta' di Erech viene scritto quando Renato e' uscito dal carcere e io
mi trovo in una condizione di semireclusione. Entrambi siamo sulla soglia-confine
tra il mondo delle istituzioni totali e quello delle istituzioni ordinarie che
frequentiamo e che organizzano socialmente la nostra vita all'interno della
citta' globalizzata. Ci troviamo in un certo senso sull'uscio della citta',
ma anche sull'uscio del carcere. Entrambi abbiamo alle spalle una lunga esperienza
detentiva in un'istituzione totale (24 anni di carcere nel caso di Renato, 22
anni nel mio) che ci porta a interrogarci sull'ombra lunga che l'istituzione
totale getta sulla vita della persona che vi e' stata anche dopo che essa e'
uscita. La sollecitazione interna della nostra condizione di vita ci spinge
a indagare le difficolta' che la persona incontra nel vivere l'esperienza di
de-istituzionalizzazione, difficolta' che derivano da come la societa' ti accoglie
e da come l'esperienza dell'istituzione totale continua ad agire.
Quali sono state le sollecitazioni esterne a indirizzare la vostra analisi
verso le istituzioni ordinarie?
Il secondo tipo di sollecitazione e' venuto dagli operatori che abbiamo incontrato
in questi anni. Portando in giro la nostra esperienza umana e la nostra ricerca
sulle istituzioni totali attraverso i nostri lavori seminariali itineranti in
tutta Italia rivolti a operatori istituzionali che lavorano sia nelle istituzioni
totali sia in quelle ordinarie (operatori sociali, culturali, didattici, sanitari)
e attraverso la produzione di libri abbiamo incontrato persone che ci dicevano
che in realta' i dispositivi mortificanti delle istituzioni totali spesso vengono
incontrati e sono all'opera anche nelle istituzioni della vita ordinaria, nella
famiglia, nelle istituzioni ospedaliere, nella scuola, nel mondo del lavoro.
Cio' che stiamo scoprendo con questo tipo di ricerca e' che il malessere della
normalita' e' dovuto in gran parte all'esistenza nelle istituzioni ordinarie
di dispositivi che mortificano la persona e che sono molto vicini ai dispositivi
delle istituzioni totali.
Ad esempio una nostra amica di Milano che ha lavorato per trent'anni in un supermercato
ci ha detto: "Guardate che una parte di questi dispositivi totalizzanti
di cui parlate io li ho vissuti per trent'anni lavorando alla Standa di Milano".
Come lei altre persone ci hanno stimolato a ricercare gli elementi in comune
tra le istituzioni totali e le istituzioni scolastiche, sanitarie, familiari
e lavorative.
Questo tipo di sollecitazione che ci e' pervenuta durante gli incontri seminariali
ci ha spinto a guardare la relazione di analogia e differenza che c'e', e se
c'e' dove essa risiede, tra queste istituzioni. In particolare questa sollecitazione
si e' organizzata in modo piu' serio e approfondito, con caratteristiche che
potremmo definire scientifiche, nel corso di due seminari: il primo fatto con
un gruppo di insegnanti di un istituto professionale di Bagnoli, alla periferia
di Napoli e durante un incontro con operatori sanitari della CGIL Funzione Pubblica
del Lazio. Da parte di questi operatori didattici e sanitari ci e' giunto l'invito
a fare una ricerca applicata ai casi specifici della scuola della periferia
di Napoli e del centro per anziani Villa delle querce che si trova nel Lazio.
L'istituto professionale di Napoli e' una situazione limite, quella che si definisce
una scuola di frontiera, con una percentuale di dispersione scolastica che supera
il 50%. Nella scuola del napoletano la ricerca e' stata indirizzata a vedere
fino a che punto la dispersione scolastica di quell'istituto professionale non
fosse dovuta all'esperienza reclusiva che gli alunni vivevano quotidianamente
dentro l'istituto. Gli insegnanti ci hanno chiesto di indagare se non era l'organizzazione
stessa della scuola a spingere i ragazzi ad abbandonarla, perche' questi ragazzi
continuamente, attraverso scritte e documenti vari, testimoniano di percepire
l'istituzione scolastica come una galera. Per la casa di cura per anziani Villa
delle querce il lavoro e' consistito nel verificare fino a che punto l'istituzione
sanitaria riproduce i dispositivi tipici dell'istituzione totale.
Questo nostro lavoro di analisi istituzionale svolto con la scuola della periferia
di Napoli e la casa di cura per anziani sta proseguendo in altre istituzioni
ordinarie. Dobbiamo avviare questo lavoro in alcune case famiglia, per quanto
riguarda la de-istituzionalizzazione manicomiale; in un ex Albergo dei poveri
di Bergamo che oggi e' diventata un'istituzione di accoglienza dei nuovi poveri
e in un centro sociale occupato di Torino. Quindi applicheremo la nostra ricerca
anche ad un'istituzione antagonista come un centro sociale che molto coraggiosamente
ci ha chiesto di fare questo lavoro di specchio analizzatore per vedere se anche
un'istituzione che si propone di combattere le dimensioni totalizzanti non riproduca
in realta' i dispositivi mortificanti per la persona tipici delle istituzioni
totali.
Che metodologia utilizzate nello svolgere il vostro lavoro di ricerca e analisi
istituzionale?
La relazione tra istituzioni ordinarie e totali puo' essere vista mettendo l'istituzione
ordinaria allo specchio con i dispositivi mortificanti dell'istituzione totale
e vedendo dove esse sono sovrapponibili e dove differiscono. La metodologia
di lavoro e' semplice e consiste nel fare da specchio analizzatore di quella
istituzione. Noi cioe' portiamo i dispositivi delle istituzioni totali mortificanti
per la persona e le risorse vitali da parte delle persone internate come specchio
analizzatore di quella specifica istituzione. Forniamo agli operatori che lavorano
in quella istituzione uno specchio per vedere fino a che punto i dispositivi
operanti in quella situazione non combacino con i dispositivi propri delle istituzioni
totali. Avviare una relazione di ricerca significa, per noi, anzitutto portare
e "gettare" nella relazione in questione una trama di storie paradigmatiche,
raccolte nelle istituzioni totali, capaci di offrire ai committenti l'opportunita'
di rispecchiarsi in esse e guardare in questo specchio impietoso, ma a prima
vista rassicurante per la sua "lontananza", le procedure che essi
stessi mettono in atto nella consuetudine delle loro interazioni istituzionali.
Storie che agiscono, quindi, come dispositivi analizzatori essendo finalizzate
a perturbare deliberatamente la situazione e a decostruire i mascheramenti di
cui si ammantano le consuetudini ordinarie.
E' un lavoro di ricerca sistematica su come e' organizzato il tempo, lo spazio,
la sessualita', il rispetto della persona dentro le istituzioni ordinarie della
vita. Quello che noi verifichiamo in questo lavoro e' che molte istituzioni
che non si definiscono istituzioni totali, ma che esistono nella vita di tutti
i giorni, sono poi in realta' delle istituzioni totali, o almeno ne riproducono
i dispositivi mortificanti. Ad esempio le case-famiglia, che sono istituzioni
post-manicomiali, nonostante il nome richiami un luogo accogliente, spesso riproducono
i dispositivi mortificanti e infantilizzanti dell'istituzione manicomiale.
Utilizzare i dispositivi dell'istituzione totale come analizzatori non e' un
lavoro esterno, astratto, concettuale, ma un intervento attivo nella situazione
che cerca di "far emergere" quelle dinamiche relazionali nascoste
di una scuola, di un ospedale, di un'associazione, i cui dispositivi sono analoghi
a quelli operanti in un carcere, in un manicomio o in un campo di concentramento.
E consente in tal modo agli attori istituzionali di quella scuola, di quell'ospedale
o di quella associazione, di entrare in una doppia relazione con le procedure
di cui praticamente si servono: in quanto attori direttamente implicati che
le subiscono o le impongono, e in quanto osservatori distaccati che lucidamente
le analizzano. Da questa doppia relazione puo' prendere avvio, pensiamo, una
rinnovata azione istituente e la possibilita' di una trasformazione che ha come
implicazione prospettica un'ecologia della vita di relazione.
Il lavoro di specchio comporta che noi operatori di Sensibili alle foglie non
ci trasformiamo in operatori interni alle istituzioni, quanto piuttosto sollecitiamo
gli operatori che gia' vi lavorano a diventare partecipanti-osservatori della
loro situazione. D'altro canto dare corso a una relazione di ricerca chiede
a noi stessi un lavoro di presenza e di scrittura. In sostanza cio' significa
istituire un "diario di presenza" da restituire ai committenti come
dispositivo analizzatore della relazione che hanno istituito con noi.
Quando parlate delle reazioni e risorse vitali che le persone mettono in atto
in relazione alle istituzioni e ai loro dispositivi mortificanti affrontate
il tema della dissociazione identitaria.
Abitualmente accostiamo la parola dissociazione all'idea di un fenomeno patologico.
E' un'abitudine che ci viene dalla psichiatria, ma che trova ampio spazio anche
nel sentire comune: si dice dissociazione per intendere schizofrenia, patologia.
Numerose ricerche avviate gia' nell'800 che hanno attraversato l'Europa e negli
anni 70 del XX secolo sono state riprese negli Stati Uniti considerano i fenomeni
dissociativi come fenomeni non patologici, ma che appartengono costitutivamente
alla specie umana, fenomeni ordinari che possono anche essere risorse pratiche
nella vita quotidiana.
Ad esempio un fenomeno dissociativo comune a molte persone e' quello che permette
di guidare l'automobile pensando ai fatti propri o conversando con altre persone.
Si tratta in questo caso di un'esperienza dissociativa: l'automatismo della
guida ha creato nella persona una componente che e' in grado di guidare autonomamente.
E' una risorsa che permette di risparmiare energie, guidare senza un eccessivo
stress e consente a un'altra parte della persona di distrarsi e conversare con
chi le sta a fianco.
Un altro fenomeno dissociativo molto importante e diffuso e' quello dello scarabocchio.
Succede a molte persone di scarabocchiare su un foglio quando stanno al telefono
o sul lavoro o a scuola. E' un modo per rispondere alle afflizioni che derivano
ad esempio da una lezione scolastica noiosa: una parte di noi ascolta la lezione,
mentre un'altra parte automaticamente comincia a tracciare dei segni su un foglio
di carta. Le due parti non comunicano tra loro, non sanno l'una dell'altra.
Se ci troviamo al telefono, ad esempio, quando la parte di noi che conversa
getta l'occhio sul foglio di carta si sorprende dei segni tracciati.
I fenomeni dissociativi rientrano nell'idea della persona vista non come identita'
monolitica, idea molto diffusa nella cultura occidentale, bensi' un insieme
di esistenze psicologiche simultanee. Siamo cioe' un insieme di identita' che
giocano simultaneamente dentro di noi. Di fronte a questa molteplicita' identitaria
la dissociazione non solo e' un fenomeno ordinario, ma puo' costituire una risorsa
vitale importantissima sia di fronte alle condizioni estreme delle istituzioni
totali, sia per affrontare il malessere della normalita'.
Le diverse fenomenologie di risposte dissociative che trattiamo nel libro sono
importanti risorse vitali per affrontare la difficolta' a vivere nelle istituzioni
totali e in quelle ordinarie. Le risposte dissociative sottrattive a un contesto
doloroso sono comuni alle istituzioni totali e alla vita quotidiana. In carcere
molte persone per affrontare il primo impatto con la reclusione passano intere
giornate a dormire di un sonno profondo, quasi catalettico. La risposta dissociativa
di assentamento e' molto frequente anche nella vita di tutti i giorni. L'uso
massiccio di sostanze farmacologiche sottrattive al dolore e' un indicatore
di questa situazione.
Cosa intendete invece per risposte dissociative di presenza?
Nell'ultima parte del libro raccontiamo delle storie, delle esperienze umane
maturate in condizioni di vita estreme che ci propongono un altro tipo di fenomenologia
dissociativa che secondo noi e' quella che meglio consente alla persona di affrontare
sia il dolore estremo sia la sofferenza derivante dal malessere della normalita':
la risposta dissociativa di presenza. Quella che noi chiamiamo la risorsa della
presenza differisce significativamente dalle risposte dissociative di sottrazione
e di assentamento rispetto al contesto.
Noi pensiamo che una delle risorse piu' importanti per affrontare sia le istituzioni
totali sia il malessere della normalita' consista nella risorsa della presenza
e della consapevolezza, cioe' non chiudere gli occhi sui contesti del disagio,
della sofferenza e del malessere, ma aprirli e istituire un'identita' di presenza
e di consapevolezza. Per farlo ci sono diverse strade e nell'ultima parte del
libro raccontiamo sette storie di presenza a se stessi: la via dei sogni, della
meditazione, della creativita', degli scarabocchi.
Nello schema della risposta dissociativa di assenza la persona che si trova
di fronte a un contesto doloroso cerca, e puo' farlo in tanti modi, di sottrarsi
a quel contesto e di dire: "Non voglio vedere, non voglio sentire il dolore
che sto vivendo". Non potendo cambiare la situazione cerca di anestetizzare
il dolore. Il limite di questa risposta e' che non consente alla persona di
elaborare creativamente la situazione in cui si trova. Inoltre quando la persona
esce da questa risposta di assentamento e riapre gli occhi sul contesto il meccanismo
mortificante si ripropone.
Secondo noi una delle risposte piu' importanti e' quella della presenza, aprire
gli occhi sul contesto. Si tratta ugualmente di una risposta dissociativa, perche'
la persona che vive un'esperienza di sofferenza osserva se stessa in questa
condizione di difficolta' e accoglie se stessa con tutte le varie risposte al
disagio. Si tratta di un lavoro di presenza e consapevolezza costante della
propria condizione e delle risposte che si danno al dolore.
Un lavoro di auto-osservazione l'hanno fatto diverse persone nei campi di concentramento,
tra i piu' noti Primo Levi, Bruno Bettelheim e tutte quelle persone che si sono
interrogate e hanno proposto socialmente le loro riflessioni sull'esperienza
del disagio estremo.
La funzione disciplinare delle istituzioni che si esercita attraverso il trattamento
produce quella che voi chiamate una torsione.
Il termine torsione gia' viene utilizzato nel Bosco di Bistorco. Dall'inizio
della nostra analisi per descrivere il trattamento che la persona subisce nelle
istituzioni totali abbiamo preferito utilizzare la parola torsione rispetto
alla parola deprivazione, che invece viene utilizzata comunemente nella ricerca
sulle istituzioni totali e in particolare quella carceraria. Deprivazione potrebbe
far pensare che per effetto dell'azione esercitata dall'istituzione totale la
persona riceva meno stimoli, possibilita' di relazione, sollecitazioni relazionali
e ambientali. Una descrizione simile non ci sembra sufficiente perche' la persona
non e' solo deprivata di qualcosa, ma e' anche trattata, manipolata.
Noi utilizziamo il termine torsione perche' si avvicina, anche etimologicamente,
al termine tortura. Come nel caso della tortura il corpo e' nelle mani del carnefice,
cosi' il corpo di una persona sottoposta a trattamento nelle istituzioni totali
e' nelle mani dell'istituzione che su quel corpo agisce, opera, esercita delle
azioni.
Per comprendere meglio la differenza tra deprivazione e torsione consideriamo
ad esempio il tatto e la sensibilita' cutanea. Una persona che sta in un'istituzione
totale non viene semplicemente privata degli stimoli tattili, ma viene continuamente
manipolata, perquisita. Mani di sorveglianti, di reclusori, di agenti di custodia
quotidianamente, anche piu' volte durante il giorno, manipolano, perquisiscono
il corpo della persona reclusa. Non c'e' quindi solo una deprivazione tattile,
ma un'invasione del tatto sulla sensibilita' cutanea. La persona per rispondere
a questa invasione tattile si desensibilizza, cerca di anestetizzare la propria
pelle. Le persone recluse che subiscono una perquisizione rispondono dissociativamente:
mentre il corpo della persona e' sottoposto alla perquisizione del sorvegliante,
un'altra parte della persona si disloca in un altrove, pensa ad altre cose.
Questo dislocamento consente alla persona di non avvertire piu' le mani del
reclusore che la toccano. Questo anestetizzarsi consente di affrontare le tante
perquisizioni. Questo fenomeno di risposta dissociativa alla torsione del corpo
ha pero' un suo ritorno di malessere. Dopo anni di risposta anestetizzante alle
torsioni la persona ha serie difficolta' a ri-attivare la propria sensibilita'
cutanea.
Tra le risposte adattative al trattamento c'e' quella che voi chiamate la transe
dell'attore.
La persona che viene acciuffata e messa dentro un'istituzione totale deve adeguarsi
a una serie di dispositivi disciplinanti. Ci sono anche molte persone che dicono
no e si uccidono dopo pochi giorni dall'ingresso o si lasciano morire. Chi invece
da' una risposta adattativa costruisce progressivamente un'identita' che si
adegua ai dispositivi disciplinari e al contesto dell'istituzione totale, ma
anche nelle istituzioni ordinarie lavorative, scolastiche, familiari, ecc. Costruisce
una propria identita' di recluso modello, perche' in realta' sa che solo costruendo
questa identita' di adattamento puo' in qualche modo uscire da quella istituzione.
E' l'istituzione che dice alla persona: "Solo se ti disciplini e ti comporti
in un certo modo hai la possibilita' di uscire". Quindi il recluso crea
una identita' adattativa che poi si struttura dentro la persona e diventa il
carceriere interiorizzato di quella persona. Questo processo non e' semplice,
nel senso che questa identita' adattativa che la persona costruisce e' un'identita'
di sofferenza, perche' l'adeguamento ai dispositivi disciplinari e mortificanti
dell'istituzione totale e' doloroso. Quindi per affrontare questa situazione
dolorosa la persona costruisce anche delle altre identita' che sono identita'
di resistenza.
Questa identita' di recluso modello e' una vera e propria transe dell'attore
nel senso che non e' una recitazione vuota, la persona deve entrare nella parte
che il reclusore vuole che interpreti e deve farlo controllando totalmente le
emozioni. La transe dell'attore richiede da parte della persona reclusa un controllo
rigoroso del proprio comportamento. Questa transe riguarda il rapporto che in
carcere le persone per poter uscire instaurano con educatori, psicologi, assistenti
sociali; o nelle istituzioni psichiatriche con psichiatri e infermieri. Tutti,
sia gli operatori sia i reclusi, sono consapevoli di questo meccanismo relazionale.
Per aderire al modello che l'istituzione propone la persona reclusa comincia
non solo a comportarsi, ma anche a parlarsi con le parole che l'istituzione
impone. Ha luogo cioe' una torsione del linguaggio cui si risponde adeguandosi
al linguaggio dell'istituzione.
Per quanto riguarda l'adattamento al malessere della normalita' voi parlate
dell'instaurarsi di una identita' minima di sopravvivenza.
Molti filoni di ricerca per spiegare i fenomeni che attraversano la societa'
hanno cominciato a tracciare un'analogia tra le risposte alle dinamiche sociali
e la categoria di sopravvivenza, ampiamente utilizzata nello studio delle risposte
delle persone alle condizioni estreme dei campi di concentramento.
Nel nostro lavoro di ricerca e analisi utilizziamo la categoria dell'identita'
minima di sopravvivenza per cercare di capire e avvicinarci al malessere della
normalita'. Quando una persona entra in una delle istituzioni ordinarie che
regolano la vita sociale viene sottoposta comunque a una forma di trattamento,
le istituzioni ordinarie sono cioe' anch'esse istituzioni trattamentali. Si
pensi all'istituzione scolastica o a quella familiare, dove il bambino, lo scolaro
viene trattato dentro dispositivi, codici, canoni educativi. All'interno di
quel meccanismo trattamentale dell'istituzione ordinaria la persona costruisce
una sua identita' di adattamento a quel tipo di istituzione. Questo omologarsi
comporta pero' un malessere dovuto al fatto che nel costituire questa identita'
di adattamento la persona e' costretta a sacrificare altre identita', altre
parti della sua molteplicita' identitaria. Queste parti vengono dissociate,
poste in una situazione di latenza, stigmatizzate e riprovate in quel contesto.
Questa sorta di dissociazione sacrificale di parti di se' costituisce la dinamica
del malessere della normalita' insito nei processi adattativi alla vita di tutti
i giorni e alle istituzioni ordinarie che la organizzano.
Gli autori
RENATO CURCIO ricercatore sugli stati modificati
di coscienza per la cooperativa "Sensibili alle foglie"
NICOLA VALENTINO direttore dell'Archivio di scritture,
scrizioni e arte ir-ritata di "Sensibili alle foglie"
scrivici a:
outout@usa.net