Intervista con Nicola Valentino trasmessa da Radiondarossa il 12 Giugno 2001
 
  Perche' avete scelto di intitolare il vostro ultimo libro Nella citta' di Erech? 
  
  La citta' di Erech fa parte delle storie piu' antiche del mondo e risale al 
  IV millennio A. C. (si puo' leggere a tale proposito il bel libro di Gaster 
  T.H. Le piu' antiche storie del mondo) e racconta la lotta tra il re Gilgamesh, 
  per meta' uomo e per meta' dio, ed Enkidu, selvaggio come un animale perche' 
  mai entrato nella citta'. Questo mito-archetipo della citta' di Erech racconta 
  un dispositivo di inclusione/esclusione originario della nostra civilta' e tuttora 
  operante: al di qua del muro della citta' gli inclusi, al di la' del muro gli 
  esclusi. 
  Inclusi ed esclusi non si trovano su un piano orizzontale, bensi' in un rapporto 
  di potere gerarchizzato che de-umanizza gli esclusi, tanto che Enkidu e' un 
  selvaggio escluso dalla specie. Nel dispositivo di inclusione/esclusione sono 
  coinvolti anche gli inclusi perche' nel processo di adattamento e conformizzazione 
  alle istituzioni ordinarie che caratterizzano la citta' essi devono aderire 
  a codici omologanti e costruire identita' di adattamento a questi codici e cosi' 
  facendo sacrificano altre componenti identitarie che vengono messe da parte. 
  L'identita' di adattamento sacrifica infatti la vastita' identitaria di cui 
  tutti noi siamo fatti. Questa dinamica adattativa che noi tutti viviamo e' all'origine 
  del malessere della vita quotidiana, quello che noi chiamiamo il malessere della 
  normalita'.
Quale percorso di ricerca precede questo libro?
  Nella citta' di Erech si colloca all'interno di un lavoro di ricerca avviato 
  gia' dall'inizio degli anni 80. Nel 1990, dopo un decennio di attivita' di ricerca, 
  insieme a Renato Curcio e Stefano Petrelli scrivemmo Nel bosco di Bistorco. 
  All'epoca eravamo tutti e tre, a tutti gli effetti dentro un'istituzione totale 
  che era il carcere.
  Nel bosco di Bistorco si interrogava sui dispositivi relazionali tipici delle 
  istituzioni totali e sulle risposte e risorse vitali che le persone mettono 
  in atto per non morire e rispondere ai dispositivi mortificanti dell'istituzione 
  totale. Ci interrogavamo con quel libro sull'esperienza che noi stessi stavamo 
  vivendo dentro l'istituzione totale, diventando partecipanti-osservatori del 
  contesto in cui ci trovavamo. Questa operazione di partecipazione-osservazione 
  dell'istituzione totale vanta peraltro una tradizione diffusa e illustre tra 
  le persone rinchiuse nei campi di concentramento e nei manicomi che hanno maturato 
  un'esperienza di dissociazione di presenza a quel contesto, ovvero mentre una 
  parte della persona vive un'esperienza di sofferenza, un'altra parte osserva 
  se stessa e gli altri che come lei vivono e rispondono a quel contesto di sofferenza. 
  
  Questo lavoro di documentazione e osservazione su noi stessi ha portato al nostro 
  primo libro Nel bosco di Bistorco che fonda la nostra ricerca sull'esperienza 
  umana nelle istituzioni totali e sulle risposte vitali ai loro dispositivi mortificanti. 
  Insieme a questo libro abbiamo fatto nascere la cooperativa Sensibili alle foglie 
  e la linea editoriale che continua questo lavoro di raccolta di documentazione. 
  Contemporaneamente nasce anche l'Archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata 
  che oggi raccoglie oltre cinquecento opere (dipinti, disegni, manoscritti) per 
  un totale di cento autori.
Nella citta' di Erech estende la vostra analisi alle istituzioni ordinarie, 
  quali differenze e quali analogie ci sono tra queste e le istituzioni totali?
  Per istituzioni totali intendiamo il carcere, il manicomio, l'ospedale psichiatrico 
  giudiziario, i campi di concentramento; quando invece parliamo di istituzioni 
  ordinarie facciamo riferimento alla scuola, alla famiglia, alle istituzioni 
  ospedaliere e sanitarie e piu' in generale alle istituzioni delle relazioni 
  sociali che governano la nostra vita.
  La nozione di istituzione totale risale al sociologo americano Ervin Goffman, 
  autore di Asylums in cui afferma che: "Uno degli aspetti fondamentali della 
  societa' moderna e' che l'uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in 
  luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorita' e senza alcuno 
  schema razionale di carattere globale". La caratteristica principale delle 
  istituzioni totali per Goffman e' la rottura delle barriere che abitualmente 
  separano le tre sfere principali della vita di ogni individuo: la famiglia, 
  il lavoro, il divertimento. 
  Altri ricercatori - Michel Foucault e Franco Basaglia in particolare - hanno 
  successivamente messo in evidenza un dispositivo disciplinare e di potere che 
  unifica alla radice quelle "sfere della vita". Foucault, ad esempio, 
  enfatizza il potere disciplinare, vale a dire quell'insieme di pratiche e di 
  conoscenze orientate sugli individui allo scopo di renderli conformi a determinati 
  codici di comportamento. Un potere distribuito ed articolato in tutte le istituzioni, 
  dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alla prigione e al manicomio. Soprattutto 
  un potere che lavora per indurre in tutte le persone che ricadono sotto il suo 
  dominio una forte interiorizzazione o internalizzazione di valori, modelli identitari, 
  contenuti di significato riferibili alla normalita' e che tratta gli incorreggibili 
  per recuperarli alla conformita', per rinormalizzarli.
  Basaglia articola ulteriormente questo sguardo e mette al centro della sua riflessione 
  la divisione dei ruoli e la relazione di potere che ad essa corrisponde. Secondo 
  Basaglia "Famiglia, scuola, fabbrica, universita', ospedale, sono istituzioni 
  basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, 
  maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore 
  e organizzato). Cio' significa che quello che caratterizza le istituzioni e' 
  la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si puo' ancora 
  dedurre che la suddivisione dei ruoli e' il rapporto di sopraffazione e violenza 
  fra potere e non potere, che si tramuta nell'esclusione da parte del potere, 
  del non potere; la violenza e l'esclusione sono alla base di ogni rapporto che 
  s'instauri nella nostra societa'".
  La differenza tra le istituzioni ordinarie e le istituzioni totali consiste 
  allora nel fatto che nelle istituzioni considerate ordinarie (famiglia, scuola, 
  azienda, banche, partiti, ospedali, centri sociali, ecc.) la dialettica istituente/istituito 
  prevede per tutti gli attori della relazione la possibilita' di esercitare una 
  azione istituente in conflitto con l'istituto. Nelle micro-dimensioni, nelle 
  dinamiche molecolari, gli attori che subiscono le torsioni esercitate da chi 
  si erge a guardiano dell'istituito possono opporre azioni che istituiscono processi 
  avversativi alla richiesta correzionale o di conformazione: processi di istituzionalizzazione. 
  Le istituzioni ordinarie mantengono dunque un certo grado di elasticita' e porosita' 
  in modo tale da non escludere, almeno potenzialmente, un esito trasformativo 
  dell'azione dell'istituente ordinario.
  Nelle istituzioni totali viceversa, questo orizzonte che ammette mutamenti non 
  e' affatto presente. Processi avversativi ordinari alle richieste di correzione, 
  adeguamento e rinormalizzazione che i guardiani dell'istituito impongono hanno 
  scarsissime possibilita' di decollare per via ordinaria. Se una trasformazione 
  qualitativa essenziale puo' prodursi essa, in genere, dipende da istituenti 
  straordinari (movimenti sociali, rivoluzioni, ecc.) che investono con la loro 
  azione collettiva le macrodimensioni della formazione sociale.
  Le istituzioni totali in cui si viene rinchiusi contro la propria volonta' - 
  ergastolo, manicomio giudiziario, carcere, ospedale psichiatrico, campo di concentramento 
  - hanno la caratteristica di esercitare un controllo assoluto dello spazio, 
  del tempo (presente e futuro), della quantita' e della qualita' delle relazioni 
  che puo' vivere la persona internata. Sono anelastiche e non porose. La relazione 
  tra gli attori che le fanno vivere e' gerarchica, unidirezionale, intransitiva 
  e resistente ad ogni dialettica ordinaria. Esercitano costitutivamente una torsione 
  relazionale mortificante sull'attore recluso.
Oltre agli effetti sulle persone che si trovano all'interno, come si pongono 
  le istituzioni nei confronti della societa' nel suo complesso?
  Verso l'esterno istituzioni ordinarie e totali agiscono creando il bisogno di 
  se'. La salvaguardia dell'istituzione viene garantita dal mito che l'istituzione 
  riesce a creare di se stessa, indicando i valori su cui si fonda, e dalla capacita' 
  di creare nella societa' la percezione di una carenza di questi valori. 
  A fondamento della legittimazione delle istituzioni, sia ordinarie che totali, 
  nella societa' occidentale, almeno a partire dal XVIII secolo e dai suoi ottimismi 
  illuministi, sta la nozione di trattamento che ha come suo orizzonte il controllo. 
  L'esistenza delle istituzioni e della loro azione e' giustificata dallo scopo 
  trattamentale che esse perseguono. Famiglia e scuola si occupano del trattamento 
  educativo; ospedali e centri psichiatrici svolgono un trattamento di tipo terapeutico; 
  carcere e manicomio hanno lo scopo di esercitare trattamento rinormalizzante 
  e risocializzante. L'azione trattamentale opera per indurre una forte interiorizzazione 
  del mito identitario, dei valori, dei modelli, dei contenuti di significato, 
  riferibili alla normalità. Essa si considera ben riuscita quando il controllato 
  si e' trasformato in un buon controllore di se stesso.
  Accanto al modello trattamentale, negli ultimi scorci del 900 - a partire dagli 
  anni '70 e segnatamente negli anni '90 - si afferma un orientamento del controllo 
  sociale, che, da un termine della matematica applicata alle assicurazioni, viene 
  definito attuariale. Le categorie sociali riferite a quest'area (immigrati, 
  nomadi, consumatori di droghe illegali) essendo sempre piu' considerate fonti 
  potenziali di rischio criminale soggiacciono a strategie intese a neutralizzarle 
  preventivamente. La differenza specifica rispetto al modello trattamentale consiste 
  nel fatto che il primo coltiva l'utopia della rinormalizzazione dei soggetti 
  devianti, mentre il modello attuariale sposta l'attenzione dai soggetti singoli 
  alle categorie di soggetti classificando queste ultime secondo le potenzialita' 
  di rischio che vengono ad esse attribuite. Le istituzioni che incarnano il controllo 
  attuariale sono i centri di permanenza temporanea per stranieri irregolari, 
  i campi nomadi, le comunita' terapeutiche chiuse e altri raccoglitori per persone 
  povere, anziane, con handicap, con lunghe detenzioni manicomiali alle spalle, 
  i circuiti per "nuovi cronici". Nonostante la novita' delle categorie 
  sociali e dei luoghi istituzionali cui viene applicato il modello attuariale 
  rimanda alla stagionata nozione di "pericolosita' sociale" che e' 
  stata a fondamento delle reclusioni senza reato nei campi di concentramento 
  ad ovest come a est. 
Cosa vi ha spinto a occuparvi non solo della sofferenza nelle istituzioni totali, 
  ma anche del malessere della normalita'?
  A partire dal 1994 alcuni fattori modificano il nostro lavoro e innescano quella 
  fase di ricerca che ci ha condotto oggi a scrivere Nella citta' di Erech. Due 
  tipi di sollecitazioni ci spingono a estendere il nostro interesse al di la' 
  delle istituzioni totali. Una sollecitazione di tipo interno derivante dalla 
  nostra diversa collocazione nella vita e nella societa' e una sollecitazione 
  proveniente dall'esterno nel corso degli incontri seminariali con operatori 
  istituzionali coinvolti nella nostra attivita' di ricerca.
  Nella citta' di Erech viene scritto quando Renato e' uscito dal carcere e io 
  mi trovo in una condizione di semireclusione. Entrambi siamo sulla soglia-confine 
  tra il mondo delle istituzioni totali e quello delle istituzioni ordinarie che 
  frequentiamo e che organizzano socialmente la nostra vita all'interno della 
  citta' globalizzata. Ci troviamo in un certo senso sull'uscio della citta', 
  ma anche sull'uscio del carcere. Entrambi abbiamo alle spalle una lunga esperienza 
  detentiva in un'istituzione totale (24 anni di carcere nel caso di Renato, 22 
  anni nel mio) che ci porta a interrogarci sull'ombra lunga che l'istituzione 
  totale getta sulla vita della persona che vi e' stata anche dopo che essa e' 
  uscita. La sollecitazione interna della nostra condizione di vita ci spinge 
  a indagare le difficolta' che la persona incontra nel vivere l'esperienza di 
  de-istituzionalizzazione, difficolta' che derivano da come la societa' ti accoglie 
  e da come l'esperienza dell'istituzione totale continua ad agire.
Quali sono state le sollecitazioni esterne a indirizzare la vostra analisi 
  verso le istituzioni ordinarie?
  Il secondo tipo di sollecitazione e' venuto dagli operatori che abbiamo incontrato 
  in questi anni. Portando in giro la nostra esperienza umana e la nostra ricerca 
  sulle istituzioni totali attraverso i nostri lavori seminariali itineranti in 
  tutta Italia rivolti a operatori istituzionali che lavorano sia nelle istituzioni 
  totali sia in quelle ordinarie (operatori sociali, culturali, didattici, sanitari) 
  e attraverso la produzione di libri abbiamo incontrato persone che ci dicevano 
  che in realta' i dispositivi mortificanti delle istituzioni totali spesso vengono 
  incontrati e sono all'opera anche nelle istituzioni della vita ordinaria, nella 
  famiglia, nelle istituzioni ospedaliere, nella scuola, nel mondo del lavoro. 
  
  Cio' che stiamo scoprendo con questo tipo di ricerca e' che il malessere della 
  normalita' e' dovuto in gran parte all'esistenza nelle istituzioni ordinarie 
  di dispositivi che mortificano la persona e che sono molto vicini ai dispositivi 
  delle istituzioni totali. 
  Ad esempio una nostra amica di Milano che ha lavorato per trent'anni in un supermercato 
  ci ha detto: "Guardate che una parte di questi dispositivi totalizzanti 
  di cui parlate io li ho vissuti per trent'anni lavorando alla Standa di Milano". 
  Come lei altre persone ci hanno stimolato a ricercare gli elementi in comune 
  tra le istituzioni totali e le istituzioni scolastiche, sanitarie, familiari 
  e lavorative.
  Questo tipo di sollecitazione che ci e' pervenuta durante gli incontri seminariali 
  ci ha spinto a guardare la relazione di analogia e differenza che c'e', e se 
  c'e' dove essa risiede, tra queste istituzioni. In particolare questa sollecitazione 
  si e' organizzata in modo piu' serio e approfondito, con caratteristiche che 
  potremmo definire scientifiche, nel corso di due seminari: il primo fatto con 
  un gruppo di insegnanti di un istituto professionale di Bagnoli, alla periferia 
  di Napoli e durante un incontro con operatori sanitari della CGIL Funzione Pubblica 
  del Lazio. Da parte di questi operatori didattici e sanitari ci e' giunto l'invito 
  a fare una ricerca applicata ai casi specifici della scuola della periferia 
  di Napoli e del centro per anziani Villa delle querce che si trova nel Lazio.
  L'istituto professionale di Napoli e' una situazione limite, quella che si definisce 
  una scuola di frontiera, con una percentuale di dispersione scolastica che supera 
  il 50%. Nella scuola del napoletano la ricerca e' stata indirizzata a vedere 
  fino a che punto la dispersione scolastica di quell'istituto professionale non 
  fosse dovuta all'esperienza reclusiva che gli alunni vivevano quotidianamente 
  dentro l'istituto. Gli insegnanti ci hanno chiesto di indagare se non era l'organizzazione 
  stessa della scuola a spingere i ragazzi ad abbandonarla, perche' questi ragazzi 
  continuamente, attraverso scritte e documenti vari, testimoniano di percepire 
  l'istituzione scolastica come una galera. Per la casa di cura per anziani Villa 
  delle querce il lavoro e' consistito nel verificare fino a che punto l'istituzione 
  sanitaria riproduce i dispositivi tipici dell'istituzione totale.
  Questo nostro lavoro di analisi istituzionale svolto con la scuola della periferia 
  di Napoli e la casa di cura per anziani sta proseguendo in altre istituzioni 
  ordinarie. Dobbiamo avviare questo lavoro in alcune case famiglia, per quanto 
  riguarda la de-istituzionalizzazione manicomiale; in un ex Albergo dei poveri 
  di Bergamo che oggi e' diventata un'istituzione di accoglienza dei nuovi poveri 
  e in un centro sociale occupato di Torino. Quindi applicheremo la nostra ricerca 
  anche ad un'istituzione antagonista come un centro sociale che molto coraggiosamente 
  ci ha chiesto di fare questo lavoro di specchio analizzatore per vedere se anche 
  un'istituzione che si propone di combattere le dimensioni totalizzanti non riproduca 
  in realta' i dispositivi mortificanti per la persona tipici delle istituzioni 
  totali.
Che metodologia utilizzate nello svolgere il vostro lavoro di ricerca e analisi 
  istituzionale?
  La relazione tra istituzioni ordinarie e totali puo' essere vista mettendo l'istituzione 
  ordinaria allo specchio con i dispositivi mortificanti dell'istituzione totale 
  e vedendo dove esse sono sovrapponibili e dove differiscono. La metodologia 
  di lavoro e' semplice e consiste nel fare da specchio analizzatore di quella 
  istituzione. Noi cioe' portiamo i dispositivi delle istituzioni totali mortificanti 
  per la persona e le risorse vitali da parte delle persone internate come specchio 
  analizzatore di quella specifica istituzione. Forniamo agli operatori che lavorano 
  in quella istituzione uno specchio per vedere fino a che punto i dispositivi 
  operanti in quella situazione non combacino con i dispositivi propri delle istituzioni 
  totali. Avviare una relazione di ricerca significa, per noi, anzitutto portare 
  e "gettare" nella relazione in questione una trama di storie paradigmatiche, 
  raccolte nelle istituzioni totali, capaci di offrire ai committenti l'opportunita' 
  di rispecchiarsi in esse e guardare in questo specchio impietoso, ma a prima 
  vista rassicurante per la sua "lontananza", le procedure che essi 
  stessi mettono in atto nella consuetudine delle loro interazioni istituzionali. 
  Storie che agiscono, quindi, come dispositivi analizzatori essendo finalizzate 
  a perturbare deliberatamente la situazione e a decostruire i mascheramenti di 
  cui si ammantano le consuetudini ordinarie.
  E' un lavoro di ricerca sistematica su come e' organizzato il tempo, lo spazio, 
  la sessualita', il rispetto della persona dentro le istituzioni ordinarie della 
  vita. Quello che noi verifichiamo in questo lavoro e' che molte istituzioni 
  che non si definiscono istituzioni totali, ma che esistono nella vita di tutti 
  i giorni, sono poi in realta' delle istituzioni totali, o almeno ne riproducono 
  i dispositivi mortificanti. Ad esempio le case-famiglia, che sono istituzioni 
  post-manicomiali, nonostante il nome richiami un luogo accogliente, spesso riproducono 
  i dispositivi mortificanti e infantilizzanti dell'istituzione manicomiale.
  Utilizzare i dispositivi dell'istituzione totale come analizzatori non e' un 
  lavoro esterno, astratto, concettuale, ma un intervento attivo nella situazione 
  che cerca di "far emergere" quelle dinamiche relazionali nascoste 
  di una scuola, di un ospedale, di un'associazione, i cui dispositivi sono analoghi 
  a quelli operanti in un carcere, in un manicomio o in un campo di concentramento. 
  E consente in tal modo agli attori istituzionali di quella scuola, di quell'ospedale 
  o di quella associazione, di entrare in una doppia relazione con le procedure 
  di cui praticamente si servono: in quanto attori direttamente implicati che 
  le subiscono o le impongono, e in quanto osservatori distaccati che lucidamente 
  le analizzano. Da questa doppia relazione puo' prendere avvio, pensiamo, una 
  rinnovata azione istituente e la possibilita' di una trasformazione che ha come 
  implicazione prospettica un'ecologia della vita di relazione. 
  Il lavoro di specchio comporta che noi operatori di Sensibili alle foglie non 
  ci trasformiamo in operatori interni alle istituzioni, quanto piuttosto sollecitiamo 
  gli operatori che gia' vi lavorano a diventare partecipanti-osservatori della 
  loro situazione. D'altro canto dare corso a una relazione di ricerca chiede 
  a noi stessi un lavoro di presenza e di scrittura. In sostanza cio' significa 
  istituire un "diario di presenza" da restituire ai committenti come 
  dispositivo analizzatore della relazione che hanno istituito con noi.
Quando parlate delle reazioni e risorse vitali che le persone mettono in atto 
  in relazione alle istituzioni e ai loro dispositivi mortificanti affrontate 
  il tema della dissociazione identitaria.
  Abitualmente accostiamo la parola dissociazione all'idea di un fenomeno patologico. 
  E' un'abitudine che ci viene dalla psichiatria, ma che trova ampio spazio anche 
  nel sentire comune: si dice dissociazione per intendere schizofrenia, patologia. 
  Numerose ricerche avviate gia' nell'800 che hanno attraversato l'Europa e negli 
  anni 70 del XX secolo sono state riprese negli Stati Uniti considerano i fenomeni 
  dissociativi come fenomeni non patologici, ma che appartengono costitutivamente 
  alla specie umana, fenomeni ordinari che possono anche essere risorse pratiche 
  nella vita quotidiana. 
  Ad esempio un fenomeno dissociativo comune a molte persone e' quello che permette 
  di guidare l'automobile pensando ai fatti propri o conversando con altre persone. 
  Si tratta in questo caso di un'esperienza dissociativa: l'automatismo della 
  guida ha creato nella persona una componente che e' in grado di guidare autonomamente. 
  E' una risorsa che permette di risparmiare energie, guidare senza un eccessivo 
  stress e consente a un'altra parte della persona di distrarsi e conversare con 
  chi le sta a fianco.
  Un altro fenomeno dissociativo molto importante e diffuso e' quello dello scarabocchio. 
  Succede a molte persone di scarabocchiare su un foglio quando stanno al telefono 
  o sul lavoro o a scuola. E' un modo per rispondere alle afflizioni che derivano 
  ad esempio da una lezione scolastica noiosa: una parte di noi ascolta la lezione, 
  mentre un'altra parte automaticamente comincia a tracciare dei segni su un foglio 
  di carta. Le due parti non comunicano tra loro, non sanno l'una dell'altra. 
  Se ci troviamo al telefono, ad esempio, quando la parte di noi che conversa 
  getta l'occhio sul foglio di carta si sorprende dei segni tracciati.
  I fenomeni dissociativi rientrano nell'idea della persona vista non come identita' 
  monolitica, idea molto diffusa nella cultura occidentale, bensi' un insieme 
  di esistenze psicologiche simultanee. Siamo cioe' un insieme di identita' che 
  giocano simultaneamente dentro di noi. Di fronte a questa molteplicita' identitaria 
  la dissociazione non solo e' un fenomeno ordinario, ma puo' costituire una risorsa 
  vitale importantissima sia di fronte alle condizioni estreme delle istituzioni 
  totali, sia per affrontare il malessere della normalita'. 
  Le diverse fenomenologie di risposte dissociative che trattiamo nel libro sono 
  importanti risorse vitali per affrontare la difficolta' a vivere nelle istituzioni 
  totali e in quelle ordinarie. Le risposte dissociative sottrattive a un contesto 
  doloroso sono comuni alle istituzioni totali e alla vita quotidiana. In carcere 
  molte persone per affrontare il primo impatto con la reclusione passano intere 
  giornate a dormire di un sonno profondo, quasi catalettico. La risposta dissociativa 
  di assentamento e' molto frequente anche nella vita di tutti i giorni. L'uso 
  massiccio di sostanze farmacologiche sottrattive al dolore e' un indicatore 
  di questa situazione.
Cosa intendete invece per risposte dissociative di presenza?
  Nell'ultima parte del libro raccontiamo delle storie, delle esperienze umane 
  maturate in condizioni di vita estreme che ci propongono un altro tipo di fenomenologia 
  dissociativa che secondo noi e' quella che meglio consente alla persona di affrontare 
  sia il dolore estremo sia la sofferenza derivante dal malessere della normalita': 
  la risposta dissociativa di presenza. Quella che noi chiamiamo la risorsa della 
  presenza differisce significativamente dalle risposte dissociative di sottrazione 
  e di assentamento rispetto al contesto.
  Noi pensiamo che una delle risorse piu' importanti per affrontare sia le istituzioni 
  totali sia il malessere della normalita' consista nella risorsa della presenza 
  e della consapevolezza, cioe' non chiudere gli occhi sui contesti del disagio, 
  della sofferenza e del malessere, ma aprirli e istituire un'identita' di presenza 
  e di consapevolezza. Per farlo ci sono diverse strade e nell'ultima parte del 
  libro raccontiamo sette storie di presenza a se stessi: la via dei sogni, della 
  meditazione, della creativita', degli scarabocchi.
  Nello schema della risposta dissociativa di assenza la persona che si trova 
  di fronte a un contesto doloroso cerca, e puo' farlo in tanti modi, di sottrarsi 
  a quel contesto e di dire: "Non voglio vedere, non voglio sentire il dolore 
  che sto vivendo". Non potendo cambiare la situazione cerca di anestetizzare 
  il dolore. Il limite di questa risposta e' che non consente alla persona di 
  elaborare creativamente la situazione in cui si trova. Inoltre quando la persona 
  esce da questa risposta di assentamento e riapre gli occhi sul contesto il meccanismo 
  mortificante si ripropone.
  Secondo noi una delle risposte piu' importanti e' quella della presenza, aprire 
  gli occhi sul contesto. Si tratta ugualmente di una risposta dissociativa, perche' 
  la persona che vive un'esperienza di sofferenza osserva se stessa in questa 
  condizione di difficolta' e accoglie se stessa con tutte le varie risposte al 
  disagio. Si tratta di un lavoro di presenza e consapevolezza costante della 
  propria condizione e delle risposte che si danno al dolore.
  Un lavoro di auto-osservazione l'hanno fatto diverse persone nei campi di concentramento, 
  tra i piu' noti Primo Levi, Bruno Bettelheim e tutte quelle persone che si sono 
  interrogate e hanno proposto socialmente le loro riflessioni sull'esperienza 
  del disagio estremo. 
La funzione disciplinare delle istituzioni che si esercita attraverso il trattamento 
  produce quella che voi chiamate una torsione.
  Il termine torsione gia' viene utilizzato nel Bosco di Bistorco. Dall'inizio 
  della nostra analisi per descrivere il trattamento che la persona subisce nelle 
  istituzioni totali abbiamo preferito utilizzare la parola torsione rispetto 
  alla parola deprivazione, che invece viene utilizzata comunemente nella ricerca 
  sulle istituzioni totali e in particolare quella carceraria. Deprivazione potrebbe 
  far pensare che per effetto dell'azione esercitata dall'istituzione totale la 
  persona riceva meno stimoli, possibilita' di relazione, sollecitazioni relazionali 
  e ambientali. Una descrizione simile non ci sembra sufficiente perche' la persona 
  non e' solo deprivata di qualcosa, ma e' anche trattata, manipolata.
  Noi utilizziamo il termine torsione perche' si avvicina, anche etimologicamente, 
  al termine tortura. Come nel caso della tortura il corpo e' nelle mani del carnefice, 
  cosi' il corpo di una persona sottoposta a trattamento nelle istituzioni totali 
  e' nelle mani dell'istituzione che su quel corpo agisce, opera, esercita delle 
  azioni. 
  Per comprendere meglio la differenza tra deprivazione e torsione consideriamo 
  ad esempio il tatto e la sensibilita' cutanea. Una persona che sta in un'istituzione 
  totale non viene semplicemente privata degli stimoli tattili, ma viene continuamente 
  manipolata, perquisita. Mani di sorveglianti, di reclusori, di agenti di custodia 
  quotidianamente, anche piu' volte durante il giorno, manipolano, perquisiscono 
  il corpo della persona reclusa. Non c'e' quindi solo una deprivazione tattile, 
  ma un'invasione del tatto sulla sensibilita' cutanea. La persona per rispondere 
  a questa invasione tattile si desensibilizza, cerca di anestetizzare la propria 
  pelle. Le persone recluse che subiscono una perquisizione rispondono dissociativamente: 
  mentre il corpo della persona e' sottoposto alla perquisizione del sorvegliante, 
  un'altra parte della persona si disloca in un altrove, pensa ad altre cose. 
  Questo dislocamento consente alla persona di non avvertire piu' le mani del 
  reclusore che la toccano. Questo anestetizzarsi consente di affrontare le tante 
  perquisizioni. Questo fenomeno di risposta dissociativa alla torsione del corpo 
  ha pero' un suo ritorno di malessere. Dopo anni di risposta anestetizzante alle 
  torsioni la persona ha serie difficolta' a ri-attivare la propria sensibilita' 
  cutanea. 
Tra le risposte adattative al trattamento c'e' quella che voi chiamate la transe 
  dell'attore.
  La persona che viene acciuffata e messa dentro un'istituzione totale deve adeguarsi 
  a una serie di dispositivi disciplinanti. Ci sono anche molte persone che dicono 
  no e si uccidono dopo pochi giorni dall'ingresso o si lasciano morire. Chi invece 
  da' una risposta adattativa costruisce progressivamente un'identita' che si 
  adegua ai dispositivi disciplinari e al contesto dell'istituzione totale, ma 
  anche nelle istituzioni ordinarie lavorative, scolastiche, familiari, ecc. Costruisce 
  una propria identita' di recluso modello, perche' in realta' sa che solo costruendo 
  questa identita' di adattamento puo' in qualche modo uscire da quella istituzione. 
  E' l'istituzione che dice alla persona: "Solo se ti disciplini e ti comporti 
  in un certo modo hai la possibilita' di uscire". Quindi il recluso crea 
  una identita' adattativa che poi si struttura dentro la persona e diventa il 
  carceriere interiorizzato di quella persona. Questo processo non e' semplice, 
  nel senso che questa identita' adattativa che la persona costruisce e' un'identita' 
  di sofferenza, perche' l'adeguamento ai dispositivi disciplinari e mortificanti 
  dell'istituzione totale e' doloroso. Quindi per affrontare questa situazione 
  dolorosa la persona costruisce anche delle altre identita' che sono identita' 
  di resistenza.
  Questa identita' di recluso modello e' una vera e propria transe dell'attore 
  nel senso che non e' una recitazione vuota, la persona deve entrare nella parte 
  che il reclusore vuole che interpreti e deve farlo controllando totalmente le 
  emozioni. La transe dell'attore richiede da parte della persona reclusa un controllo 
  rigoroso del proprio comportamento. Questa transe riguarda il rapporto che in 
  carcere le persone per poter uscire instaurano con educatori, psicologi, assistenti 
  sociali; o nelle istituzioni psichiatriche con psichiatri e infermieri. Tutti, 
  sia gli operatori sia i reclusi, sono consapevoli di questo meccanismo relazionale. 
  Per aderire al modello che l'istituzione propone la persona reclusa comincia 
  non solo a comportarsi, ma anche a parlarsi con le parole che l'istituzione 
  impone. Ha luogo cioe' una torsione del linguaggio cui si risponde adeguandosi 
  al linguaggio dell'istituzione.
Per quanto riguarda l'adattamento al malessere della normalita' voi parlate 
  dell'instaurarsi di una identita' minima di sopravvivenza.
  Molti filoni di ricerca per spiegare i fenomeni che attraversano la societa' 
  hanno cominciato a tracciare un'analogia tra le risposte alle dinamiche sociali 
  e la categoria di sopravvivenza, ampiamente utilizzata nello studio delle risposte 
  delle persone alle condizioni estreme dei campi di concentramento. 
  Nel nostro lavoro di ricerca e analisi utilizziamo la categoria dell'identita' 
  minima di sopravvivenza per cercare di capire e avvicinarci al malessere della 
  normalita'. Quando una persona entra in una delle istituzioni ordinarie che 
  regolano la vita sociale viene sottoposta comunque a una forma di trattamento, 
  le istituzioni ordinarie sono cioe' anch'esse istituzioni trattamentali. Si 
  pensi all'istituzione scolastica o a quella familiare, dove il bambino, lo scolaro 
  viene trattato dentro dispositivi, codici, canoni educativi. All'interno di 
  quel meccanismo trattamentale dell'istituzione ordinaria la persona costruisce 
  una sua identita' di adattamento a quel tipo di istituzione. Questo omologarsi 
  comporta pero' un malessere dovuto al fatto che nel costituire questa identita' 
  di adattamento la persona e' costretta a sacrificare altre identita', altre 
  parti della sua molteplicita' identitaria. Queste parti vengono dissociate, 
  poste in una situazione di latenza, stigmatizzate e riprovate in quel contesto. 
  Questa sorta di dissociazione sacrificale di parti di se' costituisce la dinamica 
  del malessere della normalita' insito nei processi adattativi alla vita di tutti 
  i giorni e alle istituzioni ordinarie che la organizzano. 
  
Gli autori
  RENATO CURCIO ricercatore sugli stati modificati 
  di coscienza per la cooperativa "Sensibili alle foglie"
  NICOLA VALENTINO direttore dell'Archivio di scritture, 
  scrizioni e arte ir-ritata di "Sensibili alle foglie"
scrivici a:
outout@usa.net