Non dimenticare
di chiudere le porte
e aprire
quando
lascerai
queste mura
Non dimenticare
di incollare le buste
non avrai
più censure
Non dimenticare
di lavarti
e di mangiare
non dovrai più
chiedere
l'ora
Non dimenticarti
di ricordare
come si
comunica
senza farsi scoprire
Non dimenticarti di
condividere Non dimenticarti di scrivere Non dimenticarti di
scegliere lame adatte al rancore.
Geraldina Colotti
Carcere femminileLa storia del carcere femminile non è stata mai
veramente ricostruita da nessun@ storic@, criminolog@, sociolog@, soprattutto
non è stata mai ricostruita dal pensiero femminista, poiché, così com'è accaduto
per il carcere minorile, ad occuparsi di carcere sono state, inizialmente,
associazioni volontarie di donne colte e cattoliche che, spinte da un motivo
filantropico, si proponevano di proteggere soggetti considerati fragili e
perduti nel vizio, poiché esse erano pervase dalla logica moralistica maschile
che tuttora guarda alle donne come a soggetti incapaci di commettere reati e
capaci solo di commettere errori, sbagli, che hanno poi un costo penale.
Fu proprio il nascente movimento delle donne che,
in Inghilterra, chiese l'istituzione di carceri femminili che venissero gestite
da altre donne in modo che le detenute potessero essere protette dalla brutalità
delle guardie maschili. Si ottenne una diversa forma di violenza che,
sostanzialmente, disciplinò le donne della working class poiché da quel
contesto le donne ree provenivano. (Nota
1) In tempi più
lontani, donne e minori erano lasciate/i alla violenza di guardie e detenuti, ma
effettivamente, donne, minori e matti erano in maggioranza internati in conventi
dove si ritrovavano insieme poche donne che avevano commesso reati (quasi sempre
furti, infanticidi ed omicidi del padre o del marito) e molte altre donne che
avevano tradito il marito, abbandonato i figli, che avevano mendicato o si erano
prostituite. Vogliamo ricordare che in Italia sotto
il fascismo mendicare era un reato e l'esercizio della prostituzione non è più
reato nel nostro paese dal 1958; inoltre fino al 1990, nonostante la riforma
carceraria del '75, le superiori delle agenti penitenziarie erano le suore
cattoliche, che hanno gestito la detenzione femminile per svariati secoli.
La riforma carceraria del '75 ha sconvolto questo
mondo ed ha, in modo criticabile, avvicinato l'universo carcerario maschile a
quello femminile, nel senso che quest'ultimo è stato laicizzato ed il primo ha
assunto caratteristiche rieducative che permettono non tanto la
risocializzazione ma la rigenerazione morale del reo. Alle rivolte che in
numerose carceri italiane precedettero la riforma del '75 non parteciparono le
detenute che erano poche e sparse in diversi istituti e quindi impossibilitate
ad organizzarsi. L'unica rivolta che in quegli anni
coinvolse un carcere femminile si ebbe nel 1976 al San Vittore di Milano,
seguita da un documento di richieste di cambiamento di vita interna che le
detenute comuni, insieme alle detenute politiche, inoltrarono all'attenzione
delle parlamentari dei partiti socialista e comunista italiani dell'epoca.
La risposta alle loro domande arrivò alla fine
degli anni '80, con un'indagine parlamentare che andò a verificare le condizioni
in cui le donne vivevano nelle carceri italiane. In quell'occasione si appurò
che le detenute non accedono facilmente a tutte le agevolazioni previste dalle
due riforme, quella del 75 e la legge Gozzini dell'86, poiché nelle carceri e
nelle sezioni femminili vi è sì molto spazio e vi sono poche detenute, ma non si
svolgono né attività ricreative e culturali, né attività formative, né attività
risocializzanti per mancanza di operatori/trici, di volontari/e, di fondi
pubblici e di progetti. L'arrivo delle detenute
politiche dalla fine degli anni '60 in poi, portò ad un salto di qualità nei
termini di discussione sul carcere in generale, ma non sulla detenzione
femminile in particolare, nonostante i cambiamenti di tipologia dei reati
avvenuti nel corso degli anni '70 ed '80. A questo
proposito vogliamo fornire alcune cifre che rimandano a molti quesiti. In Italia
nel corso degli anni che vanno dalla fine della II guerra mondiale al 2000, la
percentuale di donne detenute è rimasta immutata, sono il 5% della totalità
della popolazione detenuta e sono sparse nelle sezioni femminili delle carceri
maschili ed in 6 carceri femminili che si trovano tutte, tranne un istituto, nel
centro/sud dell'Italia; invece la percentuale di donne recluse nei manicomi
(chiusi in Italia nel 1978 con la Legge 180 detta <<Basaglia>> ed
oggi oggetto di controriforma) è maggiore della presenza maschile.
- Il 33% delle donne recluse in Italia sono detenute per reati legati alle
sostanze stupefacenti, sono molto giovani e sono percentualmente più degli
uomini detenuti per gli stessi reati, le donne detenute per traffico di
stupefacenti sono quasi tutte straniere, le tossicodipendenti in maggioranza
italiane;
- Il 22% ha commesso reati contro il patrimonio, si tratta di donne
relativamente giovani che hanno cercato o di raggiungere un'autonomia
economica lontano dalla famiglia o devono sobbarcarsi l'onere dei figli
piccoli senza un compagno e senza il sostegno dei servizi sociali;
- Il 12% ha commesso reati contro le persone, è questa una percentuale bassa
rispetto a quella degli uomini rinchiusi per gli stessi reati;
- 33 donne in tutto sono dentro per reati di criminalità organizzata ed
anche questo è un dato particolare poiché le donne della mafia hanno coperto
sempre e solo un ruolo di madri e mogli esemplari;
- Il 50% delle detenute ha figli con cui hanno spezzato una relazione e
molte di loro, in particolare donne zingare, hanno bambini sotto i 3 anni che
vivono con loro la detenzione.
La questione mamma detenuta/figli@
propone una visione chiara del carcere, cioè di un luogo che offre un'immagine
speculare in cui, si riflette ribaltato, tutto quello che viene imposto come
valore positivo nel sociale e l'esempio storicamente più noto è quello del ruolo
della madre. Tenendoli ambedue detenuti (madre e figli@) si riconferma il
rapporto simbiotico ma spogliandolo di tutto e facendolo vivere nel completo
isolamento, dove la sola dimensione della donna è specchiarsi nel bambino in un
rapporto di reciproca oppressione. Nel corso degli anni si è intervenuti con
nuovi strumenti di legge che hanno permesso a madri e bambini di vivere la
detenzione in case famiglia o nella propria abitazione. (Nota
3) Noi vogliamo qui
riportare un caso emblematico che ha fatto incontrare per un momento diversi
soggetti: il movimento delle donne, le donne dei gruppi armati e le detenute
comuni. È il caso di Franca Salerno, ex militante dei NAP (Nuclei Armati
Proletari) oramai in libertà dopo aver scontato più di 15 anni di reclusione,
che in carcere partorì suo figlio. Poiché viveva una gravidanza a rischio di
morte, per sé e per il nascituro, si portò avanti una battaglia per un adeguato
trattamento sanitario. Un altro episodio
emblematico è la battaglia per la chiusura del carcere di Voghera, battaglia
portata avanti da diversi movimenti, incluso il movimento femminista, che hanno
caratterizzato la lunga stagione di lotte che in Italia si è protratta dal 68 al
78. Il carcere di Voghera (cittadina del nord Italia) nacque come carcere
speciale esclusivamente femminile, dove furono sperimentate particolari tecniche
di deprivazione sensoriale. Dentro il carcere non era consentito nessun tipo di
attività, si era costrette a restare 24 ore chiuse in cella, in isolamento, non
si potevano spedire o ricevere né lettere né pacchi, non si poteva usare un
fornelletto in cella, non si potevano ricevere libri o riviste, che si potevano
solo acquistare, le luci interne erano accese giorno e notte e i muri erano
insonorizzati, i locali docce erano provvisti di telecamere. In seguito ad una
battaglia per la chiusura del carcere (manifestazione nazionale a Voghera -
luglio 1983) furono aboliti solo alcuni divieti e Voghera ebbe anche una sezione
maschile; si estese quindi ai prigionieri ciò che era stato prima sperimentato
con le prigioniere.
L'ultimo argomento che qui proponiamo, lo prendiamo a prestito da una
sociologa italiana: Tamar Pitch che si è ampiamente occupata di carceri minorili
e femminili. Costatando che il carcere femminile è diverso da quello maschile,
ci si chiede: quale pena si addice alle donne?
Domanda che rimanda a un'altra questione: ci dev'essere pena? Ci dev'essere
carcere? Problemi che noi qui intendiamo solo suscitare e non risolvere. Quale
pena? La stessa che vale per gli uomini, diversa da quella che si applica agli
uomini, la stessa che vale per uomini e donne? Nel
primo caso il maschile è considerato norma cui adeguarsi, così che, quando le
donne pongono la questione dell'uguaglianza vengono assimilate alla norma
maschile. Nel caso della pena le donne chiedono di essere giudicate per i reati
commessi e non per i loro comportamenti che sono definiti patologici. Chiedono
inoltre di avere le stesse opzioni risocializzanti degli uomini. Queste domande
rimandano ad altre due questioni: quando si giudicano i reati e non i
comportamenti si allunga il tempo del carcere, quando si parla di opzioni
risocializzanti, bisognerebbe innanzi tutto mettere in discussione il loro
carattere premiale. Nel secondo caso, si assume che
l'intero sistema giustizia sia maschile tanto rispetto al personale lavorativo
quanto all'<<utenza>>. Se si incappa nel sistema maschile si è
sottoposte ad una sofferenza aggiuntiva, perché non sono prese in considerazione
le circostanze particolari in cui le donne commettono reati. In questo modo
l'uguaglianza è fonte di ulteriore disuguaglianza.
Nel terzo caso si muove da una critica riguardante due modelli criminologici
statunitensi: il justice model formalista, retributivo, che guarda ai
diritti ed è maggiormente interiorizzato dagli uomini, ed il care model,
orientato alla rieducazione ed alla presa in carico che guarda all'etica della
responsabilità di cui sarebbero portatrici le donne. Il primo modello è
garantista ma severo, il secondo è discrezionale e deresponsabilizzante. In
realtà i due modelli interagiscono e si supportano quando si passa
dall'astrattezza del soggetto penalmente responsabile all'applicazione della
pena ed allora così come avviene per matti, minori e donne, anche per gli uomini
adulti si tiene conto non del reato ma del colore della pelle, della loro età,
del contesto sociale da cui si proviene, e questo è ciò che la critica
femminista americana ha voluto mettere in luce. In
Italia il care model ha sotteso le riforme penitenziarie ('75 ed '86) nel
senso che ha favorito la logica dell'utilizzo dei permessi premio che dovrebbero
essere diritti e sono elargiti solo per buona condotta. Questo regime premiale
ha esteso agli uomini ciò che era stato costruito per donne, minori e matti, nel
senso che ha prodotto un trattamento differenziale che tiene conto del sesso,
dell'età, dello stato di salute, delle circostanze in cui è avvenuto il reato e,
soprattutto, dell'adesione al trattamento da parte del/la detenut@ ed è quindi
discrezionale e poco garantista. Tutti gli elementi
elencati, invece di sottrarre libertà, dovrebbero concretizzarla per tutti/e, se
si ponesse effettivamente la questione alternativa al carcere, poiché ciò che
finora d'alternativo ad esso è stato pensato, non l'ha sostituito ma si è solo
aggiunto. Bisognerebbe cominciare a pensare a sentenze di condanna senza
carcere, ossia a potenziare le offerte alternative sganciandole dalla logica
premiale.
Maria Carla, Olga, Leila del Martedì Femminista
Autogestito (Radio Onda Rossa - Roma) Nota
1 Tra il 1820/40 nacquero in Francia ed in Gran Bretagna i circoli
socialisti utopici che propugnavano l'uguaglianza tra i sessi. Oltre che nei
movimenti a carattere politico, le femministe si inserirono in alcune correnti
di dissidenza religiosa, in particolare negli USA e in Gran Bretagna. Le
correnti filantropiche e religiose di ispirazione anglosassone parlavano di
elevazione morale e di maternità spirituale e sociale che predisponevano
naturalmente le donne a svolgere lavori con un compito di missione sociale. La
virtù materna era vista come una virtù civica. torna
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Nota 2 Dati ISTAT 1991 e Scarceranda 2001. torna
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Nota 3 Al momento in cui scriviamo questo
documento l'ultima legge sulle detenute madri approvata in Italia è dell'8 marzo
2001. torna
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