Abbiamo visto nel precedente fascicolo (storia 1° parte) lo stato di grave disagio in cui versavano i detenuti nelle carceri italiane alla fine della seconda guerra mondiale. Un disagio ampliato dall’aver visto vanificate tutte le aspettative che avevano accompagnato la"liberazione dal fascismo"e che aveva fatto sperare ai detenuti ed anche a tutto quel settore del proletariato delle città che vive ai margini della legalità- che la"liberazione"potesse intendersi anche liberazione da una vita di stenti condotta ai bordi della società civile.
Nulla di tutto ciò: la conduzione del carcere nel dopoguerra fu la stessa di quella in vigore in epoca fascista; in più c’era la fame del dopoguerra e le strette repressive di una situazione caotica da normalizzare. Abbiamo visto il decreto del 1945 emanato per aumentare il controllo nelle carceri e per stroncare le lotte e le rivolte che avevano accompagnato la fine della guerra. E abbiamo visto la commissione ministeriale istituita il 20 aprile del 1947 per verificare le condizioni delle carceri italiane e proporre una riforma secondo i criteri più moderni in vigore negli altri paesi europei. Un riforma che ha avuto un percorso lungo e tribolato, che è stata spesso insabbiata e boicottata e che per essere approvata ha avuto bisogno di numerose rivolte e lotte, con un costo in vite umane e anni di carcere altissimo.
Una riforma i cui risultati sono stati molto al di sotto delle più moderate aspettative.Ma andiamo con ordine.
Negli anni successivi al secondo dopoguerra rimase in vigore il regolamento penitenziario fascista del 1931. Come tutti i regolamenti carcerari era basato sulla dualità punizione/pre-mi, ma le punizioni erano prevalenti di gran lunga, al punto che si poteva dire che il vero premio era "non cadere sotto lo scudiscio della punizione".La filosofia che l’ispirava era totalmente "custodialista", ossia nel carcere ci si viene per starci e per patire, punto; tutto il resto sono chiacchiere.
Il regolamento elencava det-tagliatamente tutto ciò che era vietato e ne prevedeva la relativa punizione; ad esempio, erano vietati e puniti: i reclami collettivi, il contegno irrispettoso, l’uso di parole blasfeme, i giochi, il possesso delle carte da gioco, i canti, il riposo in branda durante il giorno non giustificato da malattie o altro, il rifiuto di presenziare alle funzioni religiose, il possesso di un ago, di un mozzicone di matita, la lettura o il possesso di testi o periodici di contenuto politico oppure con immagini di nudi o seminudi; era consentito di scrivere non più di due lettere alla settimana e non alla stessa persona (per scrivere una lettera bisognava chiedere alla guardia carta e penna e poi restituire tutto a fine lettera).
Inoltre era obbligatorio: indossare divise del carcere (quelle a strisce per i condannati definitivi), farsi trovare in piedi vicino alla branda chiusa e sistemata tutte le volte che le guardie entravano in cella per la conta o altro, c'era la censura sui giornali con il taglio degli articoli che la direzione riteneva 'non adatti' al carcerato. Il colloquio con i parenti era previsto con l'ascolto da parte delle guardie e con due reti metalliche distanziate frapposte tra il detenuto e chi lo veniva a trovare.Le punizioni andavano dall'ammonizione del direttore alle celle d'isolamento, ed erano previste sanzioni come il divieto di fumare, di scrivere, di lavarsi, di radersi per alcuni giorni; vi era poi l'interruzione dei colloqui, la sottrazione del pagliericcio, fino al letto di contenzione (non solo nei manicomi), la camicia di forza e la cella 'imbottita'.
Molte infrazioni avevano risvolti 'penali' ossia facevano scattare denunce e condanne che allungavano la pena spesso in maniera assai superiore a quella per scontare la quale si era venuti in carcere. L’entità delle punizioni era attribuita in maniera del tutto discrezionale dal personale di custodia e dalla direzione, il fine era quello di attuare un "condizionamento comportamentale" che spesso causava turbe psichiche; ma questo non preoccupava nessuno.
Il detenuto, nel suo percorso carcerario, era sempre seguito dalla"cartella biografica"personale, una vera e propria schedatura nella quale si annotano, oltre ai suoi comportamenti in carcere, anche i suoi precedenti personali e perfino quelli dei familiari, indagando se nella sua famiglia c’erano stati casi di pazzia, alcoolismo, sifilide, suicidio, o di prostituzione, vi erano segnalate le condizioni economiche e sopratutto le idee politiche di ogni parente.I benefici consistevano sostanzialmente nella possibilità di accedere al lavoro in carcere oppure nell'assegnazione a un carcere 'aperto'.
Sulla rivista"Il Ponte"del 1949 (n.3 a pag. 239), una rivista di intellettuali democratici e progressisti, in un articolo"Il regime carcerario italiano"Riccardo Bauer afferma:"Il criterio con cui è organizzato il carcere in Italia e a cui risponde la disciplina che in esso vige, è meramente burocratico. Il carcere è anzitutto e soprattutto, quasi esclusivamente custodia; e custodia significa rendere impossibile la fuga dei custoditi, ma anche evitare ogni grana per chi è responsabile della sorveglianza ... il detenuto dev’essere, per quanto possibile, cosa."
I lavori della commissione parlamentare negli anni ‘50 riescono soltanto a far approvare alcune norme cosidette "umanizzanti" come l’abolizione del taglio dei capelli e l’abolizione del numero di matricola (invece del nome).
Ma nel 1954 il governo, forse pensando che nelle carceri si stesse da nababbi, decretò un ulteriore peggioramento delle condizioni in base a questo ragionamento: "la vita del carcere non dev’essere tenuta ad un livello superiore a quella che la non elevata classe di appartenenza può offrire nella vita libera."Nonostante tutte queste tensioni immesse all’interno dell’universo carcerario dalla cecità reazionaria dei governanti, negli anni ‘50 e ‘60 si assiste ad una notevole diminuzione del numero di reati (tasso di criminalità). E’ un dato questo che va tenuto presente perchè fa chiarezza e spazza via l’affermazione cretina dei forcaioli di ieri e di oggi che cercano di convincere la cosidetta ‘opinione pubblica’ che tanta più gente si mette in carcere, tanto più si disincentiva a delinquere. E’ un’ affermazione stupida e falsa, poichè la quantità di reati dipende dalle condizioni economiche della società nel suo insieme e in particolare degli strati più poveri di essa. Difatti alla fine degli anni ‘50 e la prima metà dei ‘60 l’intenso sviluppo eco-nomico e l’aumento della produzione industriale ed anche una certa distribuzione della ricchezza, dovuta alle forti lotte dei lavoratori, riduce la disoccupazione ai minimi storici e fa salire il reddito della famiglia proletaria e sottoproletaria; e questa dinamica porta ad una diminuzione dei reati.
Fu un periodo breve; già sul finire degli anni ‘60 aumenta di nuovo la disoccupazione, iniziano nella grande industria i processi di ristrutturazione che riducono gli operai occupati, l’emarginazione coinvolge strati sempre più vasti di proletari e sottoproletari, tutto ciò accompagnato da una profonda crisi istituzionale che amplifica le difficoltà economiche; in questo periodo aumenta il"tasso di criminalità"e cambia anche la tipologia del reato (come vedremo più avanti).