Il petrolio, di cui la Nigeria è tra i primi sette produttori mondiali e
primo produttore dell’Africa Subsahariana, dovrebbe costituire la principale
fonte di arricchimento per la popolazione nigeriana, oltre 100 milioni di
abitanti, circa un sesto dell’intera popolazione africana.
Chi dai giacimenti petroliferi non guadagna proprio nulla sono gli
appartenenti alle oltre 250 diverse etnie che compongono la popolazione
nigeriana, in particolare i popoli che si trovano a risiedere nelle zone di
estrazione del petrolio, nell’area del delta del fiume Niger che corrisponde
grosso modo agli stati di Rivers, Bendel, Cross River (la Nigeria è uno
stato federale) ,nel sud-est del paese già teatro della guerra del Biafra
tra il 1967 e il 1970.
In questa zona, dove non esiste un’etnia dominante, le cosiddette minoranze
etniche, estremamente frammentate sono costrette a subire tutte le nocività
dell’attività di estrazione senza poter godere, neanche indirettamente,
delle ricchezze estratte nei loro territori dalla fine degli anni ’50.
Si tratta di popoli di pescatori-agricoltori che hanno da sempre mantenuto
un buon equilibrio con un ambiente estremamente delicato, costituito da un
intreccio di corsi d’acqua a forte salinità data la vicinanza del litorale,
in cui si sviluppano foreste di mangrovia. Il delicato ecosistema è stato
distrutto dall’attività estrattiva, un inquinamento da crimine provocato da
centinaia di perdite di greggio dai pozzi e dalla rete di condutture in
superficie, completamente arrugginite e usurate, (la logica richiederebbe
per lo meno l’interramento dei tubi degli oleodotti, ma evidentemente tutto
ciò potrebbe essere troppo dispendioso per le compagnie petrolifere) dalle
fughe di gas (prodotto secondario dell’estrazione di petrolio) che viene
lasciato bruciare così da illuminare sinistramente la notte nel mentre si
liberano miasmi asfissianti: tutto ciò ha provocato la morte di tutte le
specie ittiche della zona, di buona parte della fauna e l’inquinamento del
suolo coltivabile, distruggendo il sistema produttivo alla base della
sopravvivenza di questi popoli che non si vedono restituito il maltolto né
sotto forma di risarcimento, né sotto forma di vantaggi indiretti: nei
villaggi del delta non c’è luce, nonostante da qui parta energia per tutto
il pianeta, le vie di comunicazione con il resto del paese sono quasi
inesistenti, non ci sono sufficienti infrastrutture sociali come scuole o
ospedali, la mancanza di acqua potabile causa una disastrosa diffusione
della gastroenterite. Ironia della sorte, qui come in tutta la Nigeria, a
fasi alterne viene a mancare la possibilità di disporre di carburante.
Occorre considerare che, grazie alla compiacente e corrotta concessione del
governo nigeriano, potenzialmente tutto il territorio dell’area del delta è
soggetto a diritti di esplorazione e di estrazione che possono autorizzare
le compagnie petrolifere ad invadere le terre e le zone di pesca dei
villaggi: le concessioni sono state fatte dal governo centrale senza neanche
consultare le popolazioni interessate.
L’esproprio delle terre ha raggiunto proporzioni massicce: ogni pozzo viene
circondato per un’area di circa due ettari da un recinto per impedire l’
accesso agli abitanti del luogo ( i pozzi in questa zona sono centinaia),
altri espropri vengono effettuati per far passare gli oleodotti con il loro
carico di potenziale inquinamento.
Il “rimborso” per gli espropri, quando viene pagato, si riduce a cifre
ridicole; la legislazione anti-inquinamento, già ampiamente lacunosa viene
ignorata dalle compagnie petrolifere.
L’industria petrolifera, altamente automatizzata e richiedente personale
specializzato, è assolutamente incapace di assorbire questo surplus di forza
lavoro, eccetto che per i lavori più umili e duri. I tecnici, i direttori,
gli amministratori, i lavoratori specializzati sono per lo più stranieri:
sia nelle città che in prossimità dei pozzi si sono così sviluppate le
colonie di questi privilegiati che risiedono in costruzioni dotate di
elettricità, acqua potabile, con accesso a una rete di strade private,
scuole, centri medici, clubs, protetti da guardie private e dalla polizia
federale. L’alto livello di vita e il forte potere d’acquisto del personale
delle compagnie contrasta duramente con la miseria della popolazione.
A fronte di questa situazione le lotte delle etnie locali per l’affermazione
dei propri diritti, contro gli espropri della terra e contro l’inquinamento,
per la redistribuzione verso il basso della ricchezza rapinata si sono
manifestate con forza non appena ci si è reso conto che l’oro nero portava
solo disgrazie e che i petrodollari andavano a rafforzare il regime
dittatoriale e il dominio delle multinazionali.
E’ difficile reperire documentazione su episodi volutamente nascosti dai
media occidentali ma, grazie ad oppositori del regime qualcosa negli anni è
trapelato: si tratta di avvenimenti che fanno la storia dell’umanità, sono
parte del conflitto che oppone le classi subalterne al dominio imperialista
del capitale, allo “sviluppo” costruito solo nell’interesse del profitto,
conflitto tanto più importante e drammatico perché avviene nel cuore di una
delle zone dove l’interesse delle multinazionali è più forte.
La rivolta e le proteste della comunità Uzere tra la fine degli anni ’70 e l
’inizio degli anni ’80 era stata scatenata dall’esproprio della quasi
totalità del loro territorio coltivabile, del quale si era impossessata la
Shell per installare 39 pozzi di petrolio ed effettuare altre ricerche.
La rivolta degli Ogoni nella zona di Port Harcourt repressa nel sangue fino
all’assassinio di Ken Saro Wiwa e di altri 8 membri del Mosop (Movimento per
la Sopravvivenza del Popolo Ogoni), aveva raggiunto un livello di radicalità
e determinazione tali da costringere la Anglo-Dutch Shell ad abbandonare
temporaneamente l’Ogoniland dal 1993, con perdite, calcolate alla fine dello
scorso anno, pari a 315 milioni di dollari (500 miliardi di lire),
essenzialmente a causa delle interruzioni provocate dagli atti di sabotaggio
delle sue installazioni nell’Ogoniland.
Contro questa rivolta, politicamente matura e potenzialmente molto
pericolosa per il mantenimento complessivo degli interessi occidentali in
Nigeria, si era ricorsi da una parte al sostegno del conflitto interetnico,
dall’altra alla repressione diretta dell’esercito e della polizia. Riguardo
al primo aspetto, gli Ogoni sostengono che membri di villaggi o etnie vicine
siano stati armati e pagati per effettuare scorrerie e assalti contro gli
Ogoni in lotta: per il secondo aspetto, è utile ricordare che esistono le
prove di finanziamenti della Shell alle forze dell’ordine nigeriane per l’
acquisto degli armamenti antisommossa più all’avanguardia, mentre in più
occasioni si è verificato che elicotteri delle compagnie petrolifere abbiano
trasportato le truppe governative nelle zone del delta dove la popolazioni
si stavano mobilitando, al fine di difendere l’estrazione del petrolio, ad
ogni costo.
I problemi per gli abitanti originari del posto, sono gli stessi descritti
per tutti i villaggi e le comunità dell’area del delta del Niger interessate
all’estrazione.
Le proteste dei giovani Ijaw armati si è però rivolta anche massicciamente
contro l’entità che a tutti gli effetti detiene il potere politico ed
economico dell’area: la Royal Dutch Shell. Le rivendicazioni poste sono
quelle di un nuovo governo locale, la costruzione di ospedali strade e
scuole, la realizzazione di infrastrutture per acqua ed elettricità, e per
ottenere dei risultati i giovani armati hanno, fin dal 22 marzo 1998 imposto
la chiusura di 5 pozzi per una capacità di 110.000 barili al giorno. Poco
dopo, in seguito al rapimento di un centinaio di dipendenti nigeriani,
venivano chiusi 11 pozzi per un totale di 200.000 barili al giorno. All’
inizio di ottobre venivano occupati una quindicina di pozzi che riforniscono
i terminali della Shell di Forcados e Bonny, mentre altri attaccavano gli
oleodotti diretti al terminale dell’Agip di Brass River, portando alla
chiusura degli impianti. In seguito a questi attacchi la produzione di
petrolio ha subito una riduzione anche fino al 40-50%. E’ chiaro che, con
intelligenza, i ribelli sfruttano l’importanza strategica degli impianti per
ottenere degli immediati risultati.
Purtroppo la cronaca degli ultimi giorni riporta la notizia di un grave
disastro che ha portato alla distruzione dei villaggi di Jesse, Mossogar e
Oghara , sempre nella zona di Warri. I media si sono subito scandalizzati
per il fatto che l’incendio alla base della distruzione dei villaggi fosse
stato causato da una perdita in un oleodotto provocata dolosamente al fine
di poter rubare carburante: tutti i media di regime hanno taciuto la
situazione di degrado ambientale causata dalle installazioni petrolifere e
la povertà estrema della popolazione; altrettanto omertoso è stato il
silenzio mantenuto sul fatto che in Nigeria, nazione fondata sul petrolio,
manca il carburante e che per avere un po’ di benzina occorre mettersi in
fila ed attendere più giorni prima di potersi approvvigionare. In questa
situazione la perforazione di una tubatura diventa un fatto che per quanto
folle risulta normale.
Il Generale Abdusalam Abubakar, nuovo militare postosi a capo dello stato
africano e nel quale gli occidentali ripongono le speranze di
democratizzazione del paese, ha dichiarato che nulla farà per le famiglie
coinvolte nel disastro, in quanto gli abitanti dei villaggi si sono resi
colpevoli di furto: è una chiara indicazione del fatto che, anche se si avrà
in Nigeria un passaggio democratico (il che è per lo meno dubbio), questo
non sarà che una evoluzione di facciata, che lascerà le contraddizioni
economiche al punto in cui sono, mantenendo la Nigeria alla mercè dei voleri
e degli interessi delle grandi multinazionali.
Sta al movimento internazionalista e ambientalista europeo il compito di
portare solidarietà attiva ai popoli nigeriani, con il boicottaggio, nelle
sue diverse forme, delle compagnie petrolifere, Shell in testa, e con una
controinformazione puntuale del genocidio che sta avvenendo in questa parte
dimenticata del mondo.
Fonti:
In realtà gli unici a trarre vantaggio dalle estrazioni dai pozzi sulla
terraferma e off-shore sono da una parte le grandi multinazionali degli
idrocarburi, a cominciare dal colosso Shell che controlla circa la metà del
greggio complessivo, passando per le varie Total, Mobil, Elf , Texaco,
Chevron e la nostrana Agip: gli altri beneficiari degli introiti da
esportazione petrolifera sono la cricca di governanti ultra-corrotti pescati
regolarmente all’interno dell’elite di etnia hausa-fulani che nel periodo
coloniale ha fornito agli inglesi le basi per il governo indiretto, mentre
oggi costituisce la garanzia dello status quo (e il dominio economico delle
multinazionali) sotto forma di governo militare.
Il cosiddetto sviluppo, arrivato sotto forma di industria di estrazione e
lavorazione del petrolio, ha portato alle popolazioni del Delta miseria e
sottosviluppo: le operazioni industriali nell’area hanno fatto sì che i
produttori locali siano passati dalla produzione per l’esterno di beni
agricoli di consumo (olio di palma in primo luogo) alla esportazione della
loro mano d’opera, verso le megalopoli nigeriane o verso altri paesi
africani o occidentali, Italia compresa.
Contro le installazioni petrolifere si sono nel tempo andati moltiplicando
sia gli atti di sabotaggio che gli attacchi armati e le invasione delle
proprietà delle compagnie petrolifere : nel luglio 81 avvengono episodi di
un certo rilievo: oltre 10.000 abitanti di Rukpokwu, nell’area di Port
Harcourt bloccarono l’accesso a 50 pozzi di petrolio nell’installazione
Shell di Agbada 1, mentre gli abitanti di tre villaggi Egbema occupavano la
seconda, per grandezza e importanza, installazione petrolifera a Ebocha,
espellendo i lavoratori dell’Agip e fermando la produzione per tre giorni.
Gli Egbema protestavano contro la mancata assunzione di indigeni, la mancata
elettrificazione e fornitura d’acqua nei villaggi e perché fosse garantita
la scolarizzazione ai bambini. Il management dell’Agip da parte sua si era
contraddistinto per leggerezza e menefreghismo: la rivolta fu interrotta
dalla polizia antisommossa. Il governo nigeriano aveva emanato nel 1975 il
cosiddetto decreto antisabotaggio con il quale venivano puniti, fino alla
pena capitale, tutti gli atti volti a ostacolare l’estrazione e la
distribuzione di prodotti petroliferi, ma questo non si è rivelato un
deterrente sufficiente.COSA SUCCEDE A WARRI?
Nella zona di Warri si sta proponendo uno scenario sotto molti aspetti
simile: Warri così come il territorio intorno alla città di Port Harcourt,
è un punto nevralgico dell’industria petrolifera in quanto terminale di
stoccaggio e imbarco del greggio estratto nella zona. A Warri è situata una
delle quattro raffinerie del paese (gran parte del greggio è però raffinato
all’estero).
Qui la rivalità tra gruppi etnici è forte e a incentivarla contribuiscono
sicuramente la povertà e la disperazione causate dall’intervento delle
compagnie petrolifere.. Ultimamente la crisi si è inasprita a causa di una
nuova suddivisione, decisa dal governo federale nigeriano, delle aree in cui
è ripartito il governo locale e degli uffici corrispondenti: questi sono
stati trasferiti da una zona popolata dagli Ijaw a un insediamento di
Itshekerri. Gli Ijaw, un’etnia numerosa, con oltre 3 milioni di
appartenenti, si è sentita danneggiata dalla nuova ripartizione, mentre il
conflitto con le etnie Urhobo, Itshekerri e Ilajes si è riacceso con
violenza, un conflitto fatto di scontri armati e assalti ai villaggi con
distruzione delle abitazioni.
Eboe Hutchful : Oil companies and environmental pollution in Nigeria: in
Political Economy Of Nigeria. Ed by Claude Ake London-Lagos 1985.
Osita Nwajah : Nigeria: the Oil War: pubbl. in The News-Nigeria tradotto su
Internazionale n°256.
Vari quotidiani nazionali ed esteri.
e-mail: tactical@tmcrew.org