articolo tratto da Le Monde Diplomatique
la società dei consumatori, uniforme e universale
Cultura McWorld contro democrazia
La cultura globale americana la cultura McWorld non è tanto
ostile quanto indifferente alla democrazia: il suo obiettivo è
la creazione di una società universale dei consumi, senza tribù
né cittadini tutti potenziali cattivi clienti ma costituita
solo da quella nuova razza di uomini e di donne che sono i
consumatori. Questa nuova cultura globalizzante mette fuori
gioco non solo coloro che la criticano da un punto di vista
reazionario, ma anche i suoi oppositori democratici, che sognano
una società civile internazionale costituita da cittadini liberi
provenienti dalle culture più diverse.
di Benjamin R. Barber
I colonizzati e le culture locali che vogliono minimizzare il
loro grado di dipendenza insieme ai colonizzatori e ai mercati
mondiali che vogliono relativizzare la portata della loro
egemonia cospirano nell'illusione che esista tra loro un
rapporto di reciprocità. Ma, in questa reciprocità, il potere
reale si situa da una sola parte, come nella storia del pitone
che divora la lepre. Allo stesso modo del pitone, McWorld assume
per un attimo i colori delle culture che fagocita: la pop music,
ravvivata dai ritmi latino e reggae nei ghetti di Los Angeles;
il Big Mac, servito a Parigi con birra francese o confezionato
con carne bulgara in Europa dell'Est; Topolino che parla
francese a Eurodisney. Ma, in fin dei conti, Music Television
(Mtv), McDonald's e Disneyland sono innanzitutto icone della
cultura americana, cavalli di Troia degli Stati uniti nelle
culture delle altre nazioni.
McWorld è un'America che si proietta verso un futuro plasmato da
forze economiche, tecnologiche ed ecologiche che esigono
integrazione e uniformità. Un futuro che unisce tutti i paesi in
una cultura globale omogenea, messa integralmente in rete dalle
tecnologie informatiche, dagli scambi commerciali e
dall'industria dello spettacolo. McWorld risulta vincente anche
in quegli ambienti in cui incontra l'opposizione delle forze
della religione e del tribalismo. Gli integralisti iraniani, se
tendono un orecchio ai mullah che li incitano alla guerra santa,
con l'altro ascoltano i programmi di Star television,
l'emittente di Rupert Murdoch che ritrasmette per l'ennesima
volta gli episodi di Dynasty via satellite.
In Europa, in Asia e in America, i mercati hanno già eroso le
sovranità nazionali e dato vita ad una nuova cultura, quella
delle banche internazionali, delle organizzazioni commerciali,
delle lobby transnazionali, come l'Organizzazione dei paesi
esportatori di petrolio (Opec), dei servizi mondiali di
informazione (Cnn e Bbc) e delle multinazionali. Sono questi i
nuovi padroni di un mondo in cui gli stati-nazione non sono più
in grado di governare la loro economia e ancor meno di
controllare i movimenti di capitali sui mercati planetari.
Questi mercati, sebbene non producano né interessi comuni né una
legislazione comune, esigono non soltanto una moneta comune, il
dollaro, ma anche una lingua comune: l'inglese. Inoltre,
generano comportamenti identici ovunque, quelli di una vita allo
stesso tempo urbana e cosmopolita. I piloti di linea, i
programmatori informatici, i registi cinematografici, i
banchieri internazionali, le celebrità dello spettacolo, gli
esperti di ecologia, i petrolieri, i demografi, i contabili, gli
avvocati e gli atleti costituiscono una nuova specie di uomini e
di donne per i quali la religione, la cultura e l'appartenenza
etnica sono elementi marginali: la loro identità è innanzitutto
professionale.
I beni della nuova cultura planetaria sono sia immagini sia
forme materiali, sono un'estetica ma anche una gamma di prodotti.
E' una cultura ridotta allo stato di merce, in cui l'abito fa
il monaco e il look diventa una specie di ideologia. I centri
commerciali, le piazze "pubbliche" privatizzate, e i quartieri
senza vicini delle periferie residenziali sono i nuovi santuari
di questa civiltà di mercato. I nuovi prodotti non sono tanto
beni di consumo quanto immagini, destinate a creare un gusto
unico planetario, per mezzo di logo, personaggi famosi, canzoni,
marchi e sigle pubblicitarie. I rapporti di forza diventano
forze di seduzione; l'ideologia si trasforma in una sorta di
"videologia" i cui elementi primari sono i bit e i videoclip.
La videologia è più sfumata dell'ideologia politica tradizionale,
ed è quindi più efficace per instillare i valori richiesti dai
mercati mondiali. Questi valori non vengono imposti da governi
autoritari o da sistemi educativi coercitivi, ma immessi nella
cultura attraverso prodotti pseudo-culturali film o pubblicità
legati a una vasta gamma di beni materiali, accessori di moda e
giochi. Il Re leone, Jurassic Park e Titanic non sono semplici
film, ma vere e proprie macchine per commercializzare prodotti
alimentari, musica, vestiti e giocattoli.
La cultura globale americana di McWorld è pressoché
irresistibile. In Giappone, per esempio, gli hamburger e le
patatine hanno praticamente sostituito i noodle e i sushi,
mentre gli adolescenti, per sembrare più "cool", si combattono a
suon di espressioni inglesi di cui colgono a malapena il
significato. In Francia, dove meno di dieci anni fa i puristi
della cultura dichiaravano guerra alle depravazioni del
"franglese", la salute dell'economia nazionale si misura oggi
anche dal successo di Eurodisney. L'improvvisa comparsa di
Halloween come nuova festa francese per stimolare le vendite nel
periodo di stasi pre-natalizia è solo l'esempio più sconcertante
di questa tendenza all'americanizzazione.
Certo, non si può parlare solo di omogeneizzazione. Di fronte
alla persistente realtà degli scontri tribali, del terrorismo,
dell'integralismo religioso, del fanatismo di estrema destra e
delle guerre civili, le profezie sulla fine della storia, stile
Fukuyama (1), hanno fatto fiasco. Ma, anche se persistono le
micro-guerre, l'omologazione prodotta dai mercati di McWorld
riuscirà probabilmente ad instaurare una macro-pace, propizia al
trionfo del commercio e del consumismo e capace di dare ai
padroni dell'informazione, della comunicazione e del
divertimento il controllo ultimo sulla cultura... e sul destino
dell'umanità. Il che significa che i timori di Paul Kennedy sul
declino dell'America (2), provocati dal declino della sua
economia tradizionale a base di beni materiali, sono
assolutamente infondati. Appare più verosimile lo scenario di
una nuova egemonia basata sul potere dell'informazione e della
tecnologia e non più su quello del volume del prodotto interno
lordo o del potenziale del settore manifatturiero (si legga alle
pagine 1, 22 e 23 l'articolo di Herbert I. Schiller).
Esiste un'attività intrinsecamente più globalizzante del
commercio, un'ideologia più indifferente al destino delle
nazioni del capitalismo, una sfida alle frontiere più audace del
mercato? Per molti aspetti, i colossi del mercato ricoprono
spesso, nel commercio internazionale, un ruolo più importante
delle nazioni e dei gruppi etnici. Noi li chiamiamo
"multinazionali", ma gli appellativi "post-nazionali" o
"anti-nazionali" sarebbero forse più appropriati. Essi rifiutano
ogni idea di frontiera o di provincialismo, che limiterebbero la
loro azione nel tempo e nello spazio. "Sul pianeta Reebook
recita la strombazzante campagna pubblicitaria delle scarpe da
ginnastica non ci sono frontiere".
Negli Stati uniti, su un famoso adesivo a favore del
protezionismo si poteva leggere: "I veri americani comprano
americano", e molti statunitensi credono che l'Accordo di libero
scambio nord-americano (Nafta) abbia svenduto gli interessi dei
lavoratori. Ma quale sarebbe la macchina più "americana"? La
Chevy, fabbricata in Messico con pezzi importati da altri paesi,
poi riesportata negli Stati uniti per consumatori che credono di
"comprare americano"? La Ford, costruita in Germania da
manodopera turca per essere esportata in Nigeria? Sul mercato
mondiale, i fattori determinanti non sono più né il capitale, né
il lavoro, né le materie prime, ma piuttosto il modo in cui
questi tre elementi vengono manipolati dall'informazione, dalla
comunicazione e dall'amministrazione, le vere leve della nuova
economia.
Queste leve, più virtuali che concrete, resistono alle
regolamentazioni fisiche e territoriali degli organi di
controllo pubblici, già ostacolati dall'ideologia dello stato
minimo. Oggi, moltissimi analisti danno per scontato il concetto
di "impresa virtuale" che, quando venne lanciato, qualche anno
fa, da Robert Kuttner, sembrava piuttosto innovativo. Kuttner
pensava ad un'impresa che non era più un'entità fisica, con una
missione o una localizzazione stabile, ma un complesso, in
costante evoluzione, di rapporti temporanei, interconnessi da
una rete di computer, telefoni e fax.
Come può la globalizzazione, definita in questi termini, essere
compatibile con la concezione tradizionale della sovranità
nazionale e democratica? I nuovi vincoli dei mercati sono, è
vero, invisibili, addirittura gradevoli, assortiti da una
piacevole retorica di libertà di scelta e libertà del
consumatore. "Vi diamo la libertà, proclama la pubblicità di una
catena di produzione di patate al forno del Midwest americano,
perché vi facciamo scegliere la salsa di condimento!". La
libertà mondiale somiglia sempre più alla scelta della salsa di
condimento per l'unico piatto disponibile.
Negli anni 60, Herbert Marcuse profetizzava la riduzione
dell'individuo ad un'unica sfaccettatura: un conformismo
provocato dalla tecnologia più che dal terrore, in cui la
civiltà sarebbe stata ormai in grado di produrre solo un "uomo a
una dimensione" (3). Ma, all'epoca, l'altro versante della
dialettica di Marcuse il potere della contestazione era
dominante e la sua profezia sembrava esagerata. Anche se vedeva
crescere le tendenze totalizzanti, se non totalitarie, della
cultura industriale, prevedeva la nascita di forze che avrebbero
potuto rompere quell'isolamento (si legga, alle pagine 26 e 27,
l'articolo di Gilles Chëtelet).
Oggi, vista la capacità del mercato di assimilare ogni
differenza e contestazione e di offuscare ogni opposizione
ideologica la linea di demarcazione tra informazione e
spettacolo essendo quanto mai vaga i timori di Marcuse
acquistano rinnovata attualità. Il consumismo mondiale fa
incombere la minaccia di una società dove il consumo diventa
l'unica attività umana, e quindi definisce l'essenza
dell'individuo. L'unidimensionalità acquisisce una realtà
geospaziale tangibile nell'architettura dei centri commerciali,
dove le piazze pubbliche sono sostituite da spazi privati
destinati ad ottimizzare il commercio. Questi sono gli elementi
più caratteristici di Privatopia, questa nuova città che,
distaccata dalla più vasta società delle masse volgare,
multirazziale e pericolosa offre un'oasi di quiete e sicurezza
posta sotto stretta sorveglianza.
I sostenitori del libero mercato continuano a considerare questo
tipo di critiche come una trita rimasticatura delle profezie di
Herbert Marcuse. Molti sostengono che, in una società dei
consumi, si moltiplicano le possibilità di scelta, anche se a
scapito del gusto, e si viene a creare in tal modo una
democrazia dei consumatori. Ma i rapporti che si stabiliscono a
livello del mercato non possono essere un semplice surrogato dei
rapporti sociali. Il problema non riguarda il capitalismo in
quanto tale, ma l'idea che il capitalismo possa, da solo,
soddisfare tutti i bisogni dell'uomo e fornire la soluzione di
tutti i problemi. E così, come in passato alcuni progressisti
credevano che un governo paternalista potesse risolvere tutti i
problemi, i conservatori anti-statalisti di oggi sono convinti
non solo che lo stato non possa risolvere alcun problema umano,
ma anche che il mercato possa riuscire laddove lo stato ha
fallito.
Si è venuta a creare una confusione disastrosa tra
l'affermazione ragionevole e largamente fondata che una
regolamentazione flessibile del mercato sia lo strumento più
efficace per la produttività economica e l'accumulazione della
ricchezza, e la pretesa delirante secondo cui un mercato
completamente deregolamentato sarebbe l'unico mezzo per produrre
e distribuire tutto ciò che desideriamo: dai beni durevoli ai
valori spirituali, dalla riproduzione del capitale alla
giustizia sociale, dalla redditività del presente alla
protezione dell'ambiente per il prossimo secolo, da Disneyland
alla cultura alta, dal benessere individuale al bene comune.
Seguendo tale pretesa, alcuni propugnano il trasferimento al
settore privato di settori dall'indiscutibile carattere pubblico,
come l'istruzione, la cultura, la piena occupazione, la
previdenza sociale e la tutela dell'ambiente. E perché allora
non affidare a società commerciali anche la gestione delle
esecuzioni capitali?
Il governo che viene smantellato in nome dei cittadini è l'unico
garante della nostra libertà e dei nostri interessi comuni.
Distruggerlo non vuol dire emanciparci, ma piegarci al giogo
delle imprese mondiali e del materialismo consumista. Anche
politici conservatori americani, come William Bennett e Pat
Buchanan, hanno riconosciuto l'evidenza di tale affermazione. I
mercati non devono assolvere i compiti che spettano alle
comunità democratiche. Ci permettono, in quanto consumatori, di
dire ai produttori ciò che vogliamo. O meglio, permettono ai
produttori, attraverso la pubblicità e la persuasione culturale,
di dirci ciò che vogliamo. In ogni caso, ci impediscono di
discutere tra noi, in quanto cittadini, delle conseguenze
sociali delle scelte che facciamo come privati consumatori. Un
qualsiasi individuo può, come consumatore, volere una macchina
che raggiunga i 220 km/h, e allo stesso tempo, come cittadino,
votare un limite di velocità che permetta di risparmiare benzina
e di aumentare la sicurezza sulle strade.
I mercati sono contrattuali, più che comunitari. Solleticano il
nostro ego individuale, ma lasciano insoddisfatte le nostre
aspirazioni al bene comune. Offrono prodotti durevoli e sogni
effimeri, ma non creano identità o adesioni collettive. E così
spianano la strada a forme non democratiche di identificazione
collettiva, come il tribalismo. Se non siamo in grado di
garantire alle comunità democratiche l'espressione del loro
bisogno d'appartenenza, allora il vuoto creatosi verrà riempito
da comunità non democratiche, a scapito della libertà e
dell'uguaglianza. Le bande rimpiazzeranno le associazioni di
quartiere, le tribù legate dal sangue prenderanno il posto delle
aggregazioni di tipo spontaneo.
I mercati forniscono, a chi ne ha i mezzi, i beni materiali, ma
non la vita che desidera; la prosperità per alcuni, la
disperazione per molti e la dignità per nessuno. Le circa 26.000
organizzazioni internazionali non governative non possono tener
testa alle 500 maggiori società multinazionali di McWorld
recensite dalla rivista americana Fortune. Cos'è il Pentagono,
paragonato a Disneyland? Il Pentagono ha paura di rischiare la
vita di un singolo soldato americano, mentre Disney si concede
ogni audacia: la società ha fondato una "comunità" di villaggi
residenziali a Celebration, in Florida, ha recuperato
rendendola asettica Times Square a New York, e ha tentato di
riprodurre i campi di battaglia della guerra di Secessione sugli
"inutili" terreni ove ebbero realmente luogo i combattimenti nel
secolo scorso.
L'oasi di Privatopia
La United States Information Agency (Usia) è forse più abile di
Hollywood a promuovere l'immagine dell'America? Che peso hanno
le Nazioni unite o il Fondo monetario internazionale (Fmi) sulla
crisi finanziaria asiatica, in confronto ai 1500 miliardi di
dollari che transitano quotidianamente sui mercati dei cambi?
Incapaci di soddisfare i bisogni delle comunità democratiche, i
mercati non riescono più a regolarsi per sopravvivere. Non sono
in grado di produrre gli anticorpi necessari per proteggersi dai
virus, da loro stessi generati, del monopolio e dell'avidità.
Abbandonati a se stessi, si lanciano in opere di
ristrutturazione che li portano a licenziare non solo i loro
dipendenti, ma anche i loro consumatori, senza rendersi conto
che i due, come aveva ben capito Henry Ford, costituiscono un
tutt'uno. E' questo il paradosso di McWorld: distrugge la base
finanziaria dei consumatori di cui ha bisogno vendendo prodotti
a prezzi più competitivi; produce beni in eccedenza e
sotto-produce occupazione, incapace di cogliere
l'interconnessione tra i due.
I fautori delle privatizzazioni sostengono che i mercati sono
per natura democratici. Essi confondono, ancora una volta, le
scelte private del consumatore con le scelte civiche del
cittadino. La libertà di scegliere tra ventisette varietà di
aspirina e quella di optare per un sistema sanitario universale
non sono paragonabili. Ma la presunta autonomia dei consumatori
permette ai mercati di portare avanti un discorso populista: se
non vi piace l'uniformità di McWorld, non prendetevela con i
suoi fornitori, ma con i suoi consumatori.
Come se i circa 200 miliardi di dollari spesi negli Stati uniti
per la pubblicità siano stati destinati solo all'allestimento
delle vetrine! Come se i gusti dei consumatori siano stati
creati dal nulla! Come se i desideri e i bisogni su cui
prosperano i mercati non siano essi stessi generati e
condizionati dai mercati stessi! Come se quella che un recente
saggio pubblicato dal New Yorker ha chiamato "la scienza
dell'acquisto" non sia diventata un attività lucrosa per i
consulenti dei consumi, che insegnano ai venditori come disporre
i propri articoli in maniera strategica e invogliare i clienti
all'acquisto!
Con la saturazione dei mercati tradizionali e la
sovrapproduzione di beni (4), il capitalismo non può più
permettersi di soddisfare soltanto i bisogni reali dei
consumatori. Questi bisogni sono creati di sana pianta con la
promozione, il condizionamento, la pubblicità e la persuasione
culturale, in modo da assorbire l'offerta industriale. Mentre
la vecchia economia dei beni materiali prendeva di mira il corpo,
la nuova economia dei servizi immateriali punta allo spirito e
alla mente. "Non voglio che i clienti abbiano l'impressione di
trovarsi in un negozio di vestiti, spiega la stilista Dona Karen,
voglio che abbiano l'impressione di passeggiare in un ambiente
di tipo nuovo, che li sottrae alle loro esistenze quotidiane per
far vivere loro un'esperienza che non ha nulla a che vedere con
i vestiti e che permetta loro di esprimere la loro identità in
quanto individui".
Per promuovere una domanda mondiale di prodotti americani, è
necessario creare un sistema di bisogni su scala planetaria. Per
le grandi marche Coca-Cola, Marlboro, Nike, Hershey, Levi's,
Pepsi, Wrigley o McDonald's vendere prodotti americani vuol
dire vendere l'America: la sua cultura popolare, la sua presunta
prosperità, il suo immaginario e anche la sua anima. Il
marketing riguarda tanto i simboli quanto i beni materiali, e
non mira a vendere prodotti, ma stili di vita e immagini: il
cittadino agiato, il cowboy austero, le stelle di Hollywood, un
giardino dell'Eden senza frontiere, la coscienza sociale, il
"politicamente corretto", un universo commerciale invaso e
spesso dominato con somma ironia dalle immagini della vita dei
neri nei ghetti. Ma i neri raffigurati sono del tipo rappers
disinvolti, alla Michael Jordan, non certo gli emarginati che
vivono di sussidi e sono probabilmente destinati al carcere.
Le vendite di Cola-Cola non hanno grande futuro tra i
consumatori di tè: in Asia, la ditta di Atlanta ha dichiarato
guerra alla cultura indiana del tè. La tradizione dei lunghi
pasti fatti in casa nei paesi mediterranei costituisce un
ostacolo allo sviluppo dei fast-food: le catene che si vanno
attualmente stabilendo in questi paesi mimano i "valori della
famiglia" quanto i film d'azione hollywoodiani. Nella cultura
del fast-food, la priorità è data al lavoro, mentre le relazioni
sociali sono secondarie, il rapido prende il sopravvento sul
lento, il semplice prevale sul complesso.
Allo stesso modo, un servizio di trasporti pubblici efficiente
frena le vendite di automobili e danneggia anche le industrie
dell'acciaio, del cemento, della gomma e del petrolio. Lo stile
di vita tradizionale delle campagne (alzarsi all'alba, lavorare
nei campi fino al tramonto e coricarsi al crepuscolo) è
difficilmente compatibile con il consumo televisivo. Le persone
che non si interessano allo sport sul piccolo schermo comprano
poche scarpe da ginnastica. L'etica dell'austerità, che seduce i
veri cristiani e musulmani, così come gli asceti laici, è di
ostacolo alla logica economica del consumo. I produttori di
sigarette devono puntare sui giovani, visto che i loro prodotti
tendono a decimare i consumatori più anziani.
La maggior parte dei nuovi gadget tecnologici, che dovrebbero
"liberarci" dall'ufficio, ci imprigionano in realtà in una zona
di lavoro in costante espansione. I fax, i telefoni cellulari, i
modem per i computer, che dovrebbero renderci più autonomi, non
ci inchiodano forse con i loro tentacoli elettronici ad una
concezione del lavoro "sempre e dovunque"? Anche il walkman,
invito ad ascoltare la musica al lavoro o durante il tempo
libero, ci spinge a comprare cassette per ventiquattro ore
d'ascolto quotidiane. E induce poi altre forme di consumo legate
al jogging, come le scarpe da ginnastica. Inversamente, le
scarpe da ginnastica fanno vendere walkman e cassette.
Nel McWorld dominato dai mercati, i dirigenti delle grandi
imprese non sono forse condannati a essere cittadini
irresponsabili? E, per smerciare tutto ciò che deve essere
venduto, alcuni cittadini a tempo parziale non devono forse
trasformarsi in consumatori a tempo pieno? Ecco perché le
vecchie piazze e i centri storici delle città dalle attività
diversificate vengono disertati a vantaggio dei centri
commerciali, che non sanno offrire altro che beni di consumo.
Questi complessi si sforzano di creare un "uomo nuovo" adatto
alla loro ossessione per il profitto.
I centri commerciali sono le capitali e i parchi tematici
dell'universo in espansione di McWorld. Qui non ci sono né
teatri di quartiere, né ambulatori per l'infanzia, né aree da
cui arringare i passanti, né luoghi di culto, né municipi, né
cooperative agricole, né scuole... Soltanto una serie di negozi
che ci chiedono di disfarci di ogni identità, che non sia quella
di consumatori, e di rinunciare alla nostra cittadinanza per
assaporare meglio il piacere solitario dello shopping.
Che ne sarà dei cittadini?
Esiste un'illusione più fondamentale e più antica di quella
riguardante l'autonomia del consumatore: quella secondo la quale
i mercati sono democratici e ancor più liberi dei consumatori
stessi. Tuttavia, una concorrenza capitalista più o meno leale
ha cominciato a esistere solo sotto l'occhio vigile dei governi
democratici che praticavano politiche di tipo keynesiano.
Abbandonati a se stessi, i mercati sono incapaci di giungere a
tale risultato. Ciò equivale a dire che, in quest'epoca di
deregulation e di arretramento dello stato, la vitalità
competitiva dei mercati è più minacciata che mai. Soprattutto
quando uno stesso settore economico mette insieme allo stesso
tempo informazione, spettacolo e telecomunicazioni, il "settore
televisivo dell'informazione-spettacolo", in cui fusioni e
monopoli sono la norma (5).
Dopo aver addomesticato Il Re Leone e annesso Times Square, la
Disney ha rilevato Capital Cities/Abc per 19 miliardi di dollari
e possiede la squadra di baseball degli Anaheim Angels. La News
Corporation di Rupert Murdoch ha acquistato la squadra dei Los
Angeles Dodgers per animare il suo circuito televisivo, la Fox
Television Network, e per far concorrenza agli Atlanta Braves di
Ted Turner (vice-presidente di Time-Warner) e ai Florida Marlins
di Wayne Huizinga (Blockbuster Video). In effetti non avrebbe
senso possedere reti di diffusione o tv via cavo senza programmi
da trasmettere...
Il concetto in nome del quale si costruisce questa frenetica
integrazione verticale porta il nome di "sinergia". Un modo
elegante per dire "monopolio". Come la maggior parte dei
conglomerati di McWorld, Disney non possiede soltanto studi di
produzione, parchi tematici, squadre sportive, ma anche case
editrici, emittenti televisive, giornali, nuove città... Un
manager si è meravigliato della strategia commerciale di Disney
che, comprando Abc, ha raggiunto una dimensione più che
mondiale: universale. Sullo stesso modello, Paramount ha
acquistato Simon and Schuster che detiene Madison Square Garden
e una squadra di basket (Knicks) e di hockey (Rangers) poco
prima di essere a sua volta rilevata da Viacom. Il pesce grosso
è stato mangiato da uno ancora più grosso...
I produttori di hardware devono comprare software; i padroni di
emittenti televisive devono acquistare cataloghi di film: è
quanto hanno fatto Ted Turner, che ha comprato e "colorato" il
listino di film della Mgm, e Bill Gates, il padrone della
Microsoft, che ha acquistato i diritti delle collezioni di vari
musei, presto disponibili sui suoi Cd-rom.
Bill Gates ha installato gratuitamente Internet Explorer, il suo
browser per navigare in rete, su tutti i computer venduti col
suo software Windows, in modo da mettere fuori gioco il suo
avversario Netscape. Tanto che il ministero di giustizia è
dovuto uscire dal suo abituale torpore per prendere misure
anti-trust (si legga, a pag. 22, l'articolo di Philippe Rivière)
(6). La News Corporation di Rupert Murdoch si è servita della
sua casa editrice (Harper Collins) per estendere il suo impero
in Cina: recentemente, un contratto firmato con l'ex governatore
di Hong Kong, Christopher Patten, è stato annullato poiché il
manoscritto è stato giudicato troppo critico nei confronti di
Pechino. Nel McWorld, la teoria del pluralismo dei valori e
della libertà di scelta viene pesantemente smentita dalla
pratica.
Un tempo, tra i poli dello stato e del mercato, esisteva la
possibilità vitale di una terza via. Era sulla società civile
che si appoggiava, nei primi tempi, l'energia democratica e
l'attivismo civico americano. Una delle sue grandi virtù era di
condividere con lo stato il senso della cosa pubblica e il
rispetto dell'interesse generale e del bene comune. La società
civile potrebbe mediare tra lo stato e il settore privato, tra
l'identità, ferocemente difesa, di una tribù chiusa su se stessa
e quella, in via di estinzione, del consumatore solitario. Tra
Jihad e McWorld. In assenza di questa terza via tra lo stato e
il mercato, sopravviveremo forse come consumatori, ma cesseremo
di esistere come cittadini.
note:
*Direttore del Centro Walt Whitman per la cultura e la politica
della democrazia della Rutgers University (Stati uniti). Autore
di Démocratie forte (Desclée de Brouwer, Parigi, 1977) e di
Jihad versus McWorld. How the Planet is both Falling apart and
Coming together, Times Books, 1995.
torna al testo (1) Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo,
Rizzoli 1996.
torna al testo (2) Paul Kennedy, Ascesca e declino delle grandi potenze,
Garzanti, 1989.
torna al testo (3) Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino,
1967.
torna al testo (4) Si legga William Greider, One World, Ready or Not: The Manic
Logic of Global Capitalism, Simon & Schuster, New York, 1997.
torna al testo (5) Cfr. Frédéric Clairmont, "Le 200 società che controllano il
mondo" e Ignacio Ramonet, "Apocalypse Media", le Monde
diplomatique/il manifesto, aprile 1997.
torna al testo (6) Si legga anche Ralph Nader e James Love, "Microsoft,
monopolio del prossimo secolo", le Monde diplomatique/il
manifesto, novembre 1997.
(Traduzione di S.L.)
articolo tratto da Le Monde Diplomatique