Dietro la globalizzazione
 

La persistente moltiplicazione dei profitti realizzati in borsa dai capitali investiti nel mercato finanziario non deve distrarci dal cogliere la tendenza di fondo che risiede dietro questo fenomeno. Analogamente, ed in qualche forma in collegamento, neppure deve ingannarci il decennio di crescita economica americana contestualmente al suo “unicismo” in termini di egemonia mondiale. L’esame dei dati economici, politici e storici sul medio e lungo periodo ci mostrano un altro tipo di realtà, la quale trova anche conferma nelle analisi più ravvicinate che abbiamo pubblicato sui precedenti numeri di Comunicazione Antagonista. Intendiamo proporre la riflessione su due aspetti.
1)La crescita del mercato dei capitali avviato nel ventennio precedente (secondo un procedere di eventi di cui abbiamo già parlato anche nel numero scorso: ved. “La miseria della globalizzazione”) e maturato nel decennio appena concluso, rappresenta un periodo di sovraccumulazione di capitale, da cui scaturisce la crescente esigenza del medesimo di trovare – e bruciare – continui sbocchi di remunerazione. La caratteristica più evidente di questi sbocchi è il loro esaurirsi in tempi assai più rapidi che in passato, costringendo perciò il sistema economico capitalistico ad uno stato di tensione permanente tra crisi sistemica ed espansione: l’assorbimento dei capitali eccedenti ora nella ristrutturazione industriale, quindi nel riarmo reaganiano, poi nell’apertura dell’est europeo, quindi negli anni ‘90 con la globalizzazione di produzione e commercio ed ora anche nel commercio telematico, da un lato rappresentano la necessità strutturale del capitalismo di aprire incessantemente nuove vie di remunerazione, dall’altro determinano un tasso di crescita del capitale stesso che allarga via via in dimensioni più ampie (e quindi più preoccupanti) il livello di sovraccumulazione e di conseguenza le necessità di allocazione in avanti del medesimo.
2)Gli Stati Uniti, pur avendo guadagnato il primato politico-militare mondiale alla fine degli anni ’80 ed avendo riaffermato più volte, negli interventi militari che conosciamo, questa autorità, tuttavia scontano un declino storico della propria egemonia lungo una linea discendente che in modo manifesto è apparsa agli occhi di tutti nei primi anni ’70 e in modo meno manifesto ha continuato ad incedere. Questa crisi di egemonia è direttamente collegabile all’esaurirsi del ciclo di accumulazione che gli Usa hanno ereditato dalla Gran Bretagna, ciclo che taluni, in modo in verità riduttivo, definiscono “fordismo”. L’esaurimento dell’equilibrio su cui poggiava questo ciclo di accumulazione è la storia degli ultimi trent’anni, come anche è già stato scritto nello scorso numero. Da allora gli Stati Uniti hanno perso, perfino repentinamente, il controllo della liquidità mondiale; il controllo degli altri due fattori fondamentali per la supremazia capitalistica, potere militare e materie prime fondamentali, non le bastano per dettare incontrastabilmente legge, per quanto possa apparentemente sembrare che sia così: il suo essere la maggiore potenza le permette di dettare spesso legge, ma non sempre e non su qualunque aspetto. Valgano, a titolo di esempio, queste constatazioni:
a) a partire dalla metà degli anni ’70, dopo la disfatta di Saigon, la crisi del petrolio e il tramonto della parità aurea del dollaro, ossia nel momento di massima crisi visibile del sistema statunitense, vengono fatte uscire dal letargo le istituzioni di Bretton Woods, fino ad allora non particolarmente importanti sulla scena mondiale: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e lo stesso ONU; è da allora che questi enti godono di crescente protagonismo. Se è pur vero che sono pienamente sotto il controllo americano, il loro nuovo ruolo testimonia senza dubbio il fatto che gli Stati Uniti, da allora in poi, tendenzialmente non intendono più – e quindi non possono permettersi più – di farsi carico da soli dell’interezza delle vicende mondiali. In Corea, come in Vietnam si mossero da soli, dal lato economico fornivano moneta a tutto il mondo e ne tenevano il cambio ed i tassi d’interesse stabili. Senza stare a narrare i complessi mutamenti che hanno modificato il quadro, il dato generale è comunque chiaro: la richiesta, adesso, al mondo occidentale di una collegialità, seppur in posizione supina, affinché parte degli oneri (ma non degli onori, a giudizio degli americani, già fruiti con gli aiuti dei decenni precedenti) del governo mondiale venissero redistribuiti. In tal senso, per esempio, la guerra del golfo (1991) è una sorta di paradigma, ma loè anche il modo in cui è stato risolto il crack di borsa del novembre 1987, praticamente scaricato sulle banche giapponesi.
b) Se è un dato incontestabile che Wall Street sia il principale centro di scambio finanziario mondiale, vero è anche che, per un conto non è il solo e gli altri non sono affatto poco importanti, per un altro è pur vero che ospitare i maggiori scambi di capitale del pianeta non vuole dire controllare quegli scambi e quei capitali, ed infatti non è così. I capitali sono realmente liberi di spaziare verso le regioni di maggior remunerazione e a New York vi opereranno fintanto che converrà loro, non un minuto in più. Ed è verità anche che, nella classifica delle prime venti banche del pianeta, tra le prime dieci buona parte sono giapponesi, mentre la prima americana si trova intorno alla quindicesima posizione. Questo dato rivela una sola cosa ed è ciò che accennavamo prima: gli Stati Uniti non hanno più il controllo della liquidità mondiale, il che si traduce nel non poter decidere, come stato, determinati investimenti in titoli di debito pubblico o determinati investimenti diretti; ma non solo, significa anche che la perdita dei cordoni della borsa fa sì che la sua posizione di debitore mondiale non possa essere politicamente sottovalutata. Questa linea di ragionamento non deve tuttavia far pensare che siamo in attesa del crollo del colosso americano o che esso non conti più così tanto. Diciamo anzi che conta ancora anche più di quanto dovrebbe contare, in ragione dello scarso peso dei suoi concorrenti, Europa in testa (e con la guerra del Kosovo ce ne siamo accorti molto bene) ed Europa soprattutto: questa infatti non ha peso decisionale in alcuno dei tre fattori che abbiamo evidenziato sopra e quindi è costretta a soddisfare l’amico americano. Il Giappone invece, detenendo uno dei tre poteri, è meno subalterno all’imperio, anche se non per questo è sciolto dal giogo; ed è un dato dimostrato che nella crisi finanziaria giapponese ci sono state dietro manovre di boicottaggio americano che rivelano una guerra profonda tra Stati Uniti e Giappone; la stessa crisi asiatica (1997), che ha colpito profondamente capitali giapponesi ed europei, è stata innescata da una “imprudenza” del presidente della Federal Reserve nell’annunciare un’inversione di politica dei tassi d’interesse. Potremmo narrare altri episodi, ma bastino questi, il senso dovrebbe essere chiaro: il gigante, se è ferito, comunque non è grave ed è ancora in grado di fare male. E soprattutto non molla. Negli ultimi venti anni è tornato ad atteggiamenti isolazionisti, ma con l’abilità ed il potere di trarre per sé ogni vantaggio scaricando sugli altri ogni conseguenza. Per sé gli Stati Uniti bastano ed avanzano, è per tutti che non possono più farcela né mostrano di averne più l’intenzione, ma a non comandare non ci stanno.
Per chiudere: la “globalizzazione” in definitiva è lo stato presente della forma dell’accumulazione; con essa il capitale incrementa esponenzialmente le sue capacità di remunerazione, e questo è ciò che si registra dall’osservazione quotidiana dei mercati finanziari. In definitiva, il problema del capitale è se stesso, ed anche quest’altro dato è visibile dall’osservazione quotidiana delle borse: una massa di capitali eccedenti che si ingrossa e cerca remunerative collocazioni e, così facendo, rende sempre meno controllabile (stabile) il sistema e le istituzioni politiche sempre più piccole di fronte ad essi.