No OCSE


Nel 1977 il Congresso americano con il Foreign Corrupt Practices Act prese misure punitive contro quelle aziende che pagavano delle tangenti ai funzionari pubblici di paesi stranieri per ottenere favori nel commercio.

Il problema che si pone oggi non è semplicemente quello della corruzione, che sfavorisce alcune aziende e ne favorisce altre. E' molto più grave, perché riguarda le condizioni di lavoro, di salario, di vita e di libertà dei lavoratori dei paesi poveri che sono occupati in aziende occidentali (grandi in alcuni casi, ma anche piccole e medie in molti altri) con salari di fame, con orari che sarebbero inaccettabili nei paesi sindacalizzati, e in condizioni di sicurezza tali da far rimpiangere l'epoca dello schiavismo.

Qui di seguito elenchiamo un certo numero di esempi che ci permettono di comprendere come le aziende occidentali (piccole e medie, non solo grandi) sfruttino il lavoro dei paesi poveri, con una considerazione della vita umana pari a zero.

Massacro: le condizioni di lavoro


Nel 1993 in una fabbrica di giocattoli presso Bangkok scoppiò un incendio.
188 operaie furono uccise, 469 furono ferite gravemente. Alcune operaie avevano meno di 13, lavoravano all'assemblaggio di pezzi di bambolotti per i bambini americani. Un aspetto macabro della faccenda sta nel fatto che negli USA quasi nessuno ne fu informato, anche se i giocattoli erano venduti da tutti i grandi magazzini come Walmart e Toys 'R' Us. Eppure il massacro sorpassò il numero di vittime della calamità industriale più grave nella storia americana, cioè l'incendio del Triangle Shirtwaist Factory del 1911, pur assomigliandogli fin nei dettagli: le uscite erano bloccate o inadeguate, le porte erano chiuse a chiave, materiali infiammabili erano immagazzinati in maniera casuale.
Non erano rispettate neppure le più elementari norme antincendio. Le operaie saltavano dalle finestre dei magazzini dei piani alti, come avevano fatto le operaie americane 82 anni prima.

In Cina, nel 1994 morirono 93 operaie e ne furono ferite 1690 in una fabbrica tessile di Zhuhai, per un incendio. Nel 1993 erano morte alla fabbrica Zhili vicina a Shenzhen. Nel 1991 erano bruciate 72 persone in una fabbrica di Dongguan.
Nel 1993, nella provincia di Fuzhou morirono sessantun operai in una fabbrica tessile.

Il giornale di Pechino Economic Daily protestò con le seguenti parole: "perché si ripetono queste tragedie? Questi investitori stranieri ignorano i regolamenti internazionali, le nosre regole nazionali e agiscno in modo illegale e immorale." Bisogna dire però che il governo cinese è completamente complice di questi crimini di massa.
Si noti il nome delle province in cui avviene lo sterminio: Shenzhen, Fuzhou, Dongguan. Si tratta di città che si trovano nelle cosiddette zone economiche speciali, le quattordici regioni incui, dal 1984 in poi il governo cinese ha permesso alle aziende straniere di investire, concedendo implicitamente licenza di uccidere. I funzionari e i dirigenti politici cinesi si vendono in cambio di mance e tangenti, e permettono agli imprenditori (tedeschi, americani, inglesi, italiani) di disporre della vita dei proletari cinesi.

Ancora l'anno scorso a Shenzhen (questa città è un simbolo dello sviluppo economico accelerato della nuova Cina, ma è anche il luogo nel quale gli incidenti mortali sul lavoro sono all'ordine del giorno) alla Zhimao Electronics morirono 24 operai e ne furono feriti 40.

E chi ha dimenticato quel che accadde a Bhopal nel 1984?
Nel 1984 una fabbrica di pesticidi della Union Carbide (azienda americana) provocò la morte di migliaia di persone (cinquemila furono accecati, e decine di migliaia furono feriti in vario modo) nella città indiana di Bhopal. Una nube tossica fuoriuscì dalla fabbrica, che non rispettava le più elementari norme di sicurezza.

Miseria: i salari


Nel 1998 il National Labor Committee ha rilevato che queste sono le condizioni dei lavoratori in 21 fabbriche cinesi che producono alcuni prodotti tessili di largo consumo negli USA: observed these working conditions first-hand while Orari che vanno dalle 10 alle 15 ore Orari settimanali tra le 60 e le 90 Settimana lavorativa di 6 o 7 giorni.
Salari che vanno dai 13 ai 28 centesimi di dollaro all'ora ( fra le 200 e le 500 lire) ambienti di lavoro insalubri alloggio in dormitori sovraffollati.
sorveglianza ventiquattro ore su 24.

La Wal Mart (una catena di negozi americani) produce una linea di borse nella fabbrica Liang Shi in una fabbrica cinesi in cui gli operai lavorano 10 ore al giorno sei giorni alla settimana per un salario di $0.12 l'ora.
Le giacche Ralph Lauren, che costano $88 in the US, sono fatte da giovani donne che lavorano 12 ore al giorno per 23 centesimi l'ora. Le giacche Ann Taylor che costano 200 dollari l'una, sono fatte da operaie che lavorano 12 ore al giorno per 14 centesimi l'ora.

Salario minimo planetario


Queste cifre e queste informazioni spiegano la ragione per cui noi prendiamo posizione nei giorni del convegno dell'OCSE. I paesi ricchi aumentano continuamente il loro vantaggio economico sui paesi poveri grazie ad un meccanismo semplicissimo: grazie alla caduta delle barriere doganali, e degli ostacoli tecnici e informativi per il commercio, grazie alla globalizzazione, possono sfruttare il lavoro di operai che non hanno le difese culturali, sindacali e legislative dei lavoratori dell'occidente.

Queste aziende, sia quelle di grandi dimensioni sia le piccole e medie aziende come quelle emiliane e romagnole, possono imporre le loro condizioni salariali a popolazioni affamate. Ma i loro investimenti non portano niente ai paesi ospitanti, e succhiano il tempo di lavoro in cambio di salari che stanno ai limiti minimi dei livelli di sussistenza.

Non è possibile fare niente?
E' possibile fare molte cose.
Negli ultimi anni campagne di protesta e di pressione sono state condotte, negli Stati Uniti, contro quelle aziende (come la Nike, la Reebox) che investono nei paesi orientali o sudamericani in condizioni di puro sfruttamento. Queste campagne, consistenti nel blocco dei negozi in cui si vendono i loro prodotti, nella contropubblicità nei campus e nelle scuole, ha prodotto alcuni risultati. Diverse aziende hanno reso pubblici i dati sui loro investimenti esteri, alcune hanno iniziato una bonifica delle condizioni dei loro stabilimenti.

Ma la questione andrà affrontata nel futuro in termini più radicali. La prospettiva del salario minimo planetario è all'ordine del giorno, è il grande obiettivo di civiltà che si può delineare all'orizzonte. Bisogna premere sui governi perché impongano alle aziende che vendono sul loro territorio di rispettare certe condizioni, prima fra tutte quella di un salario minimo.
Poniamo 500 dollari di salario minimo per ogni operaio che lavora nel mercato mondiale.
Questo vorrebbe dire mettere in moto un effettivo processo di redistribuzione della ricchezza globale, un allargamento effettivo della istruzione e della sanità, insomma un progresso per tutti e non solo per la minoranza occidentale.

E' un obiettivo realistico?
Nell'immediato non è un obiettivo realistico, perché la politica delle organizzazioni internazionali di ispirazione occidentale (il G7, il WTO la World bank, il IMF, l'OECD) punta ad ottimizzare il profitto delle aziende occidentali e subordina ogni altra questione a questo obiettivo.

Ma nel medio periodo una pressione verso il salario minimo planetario è destinata a crescere.
Il movimento che è nato a Seattle viene spesso identificato con lo slogan stop globalization. Ma questo è riduttivo. Noi non siamo contro la globalizzazione, intesa come messa in rete della comunicazione e della produzione su scala planetaria.

Noi vogliamo che i diritti umani fondamentali siano altrettanto globali quanto lo è lo scambio di merci.





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