Planton de Santiaguito, Messico - Marzo 2007Il Planton di Santiaguito e' un presidio permanente che dal maggio del 2006 resiste fuori le mura del carcere dove ancora sono imprigionati i/le fiorai che si ribellarono a San Salvador di Atenco alla costruzione di un ipermercato Wal Mart e al relativo sgombero del mercato tradizionale di fiori. Vi fu una violenta battaglia alla quale si sommarono pesanti abusi da parte delle forze dell'ordine. Oltre 200 manifestanti furono detenuti sommariamente, pestati a sangue, due compagni furono assassinati, la popolazione terrorizzata, le case del villaggio perquisite e distrutte, le donne violentate. Ma per le strane regole della giustizia neoliberista oggi, dopo quasi un anno, dietro le sbarre ci sono ancora coloro che gli abusi li subirono e che un tempo vendevano fiori. |
Una sorta di tendopoli si srotola lungo le mura e a ridosso dell'ingresso. Tutto intorno decine di strisciano gridano "Liber* Tutt* Subito". All'ingresso della galera due bandiera sventolano, una rossa con la falce e martello e un'altra nera con una A cerchiata e la scritta Liberta'. Una cucina ricoperta di teloni, un fuoco per scaldare chi monta il picchetto, un impianto stereo che alterna cumbia con canti di lotta e alcuni panni stesi al sole. Il posto emana un'atmosfera di logoro, ma anche di tenacia. Sono 11 mesi che sotto le intemperie o sotto il sole a picco i compagni e le compagne dell'Altra Campagna (un piano di lotta nazionale anticapitalista nato a seguito della Sesta dichiarazione della Selva Lacandona dell'EZLN) si danno il cambio nei turni per resistere fin quando l'ultimo detenuto non verra' scarcerato.
La ragione d'essere del presidio e' proprio questa: se toccano uno, toccano tutti/e. Dunque l'Altra Campagna decise di piazzarsi proprio la' sotto il filo spinato di Santiaguito, affinche' i/le prigionieri/e potessero vedere la quotidiana presenza dei/lle compagni/e e la denuncia fosse un atto costante. C'e' qualcosa che ci sfugge di fronte a tanta caparbieta' che a volte snerva ed evapora molte energie, ma sicuramente quella del "planton", del presidio permanente, e' una forma di lotta molto diffusa in Messico e ci adeguiamo incuriositi. Le persone che vivono al planton vengono dunque da diverse organizzazioni, anche se per quel che abbiamo potuto vedere ci sono essenzialmente zapatisti, anarchici e attivisti dei media indipendenti. Nel corso della settimana pero' vengono a dare il cambio e a fare i turni la notte compagn* dei piu' svariati collettivi di Citta' del Messico, che si trova a un paio d'ore di auto, o delle zone limitrofe. La vita del presidio e' scandita da tempi lenti e da un'atmosfera familiare che si instaura rapidamente tra i/le conviventi. Oltre ai turni di guardia la notte, i momenti sono scanditi dalla pulizia del planton e personale (per lavarsi bisogna raggiungere le acque fresche di un fiume a cinque chilometri di distanza), dalla spesa al mercato e dalla lunga preparazione dei pasti collettivi. Le ore scorrono cosi' discutendo con una pentola o una scopa fra le mani, mentre qualcuno registra interviste per le radio di movimento, qualcun'altro traduce, una studia e chi dipinge le pareti della cambusa o prepara qualche striscione. I commercianti delle bancarelle vicine ci regalano i loro scatoloni vuoti che vengono utilizzati per isolare l'umidita' o per farvi qualche scaffale. Quando non ci servono piu' li accostiamo per darli a due anziane indigene che a ogni alba passano, ci sorridono, prendono i cartoni da vendere al robivecchi e si incollano, sulle schiene curve, una montagna di legna. Nulla va sprecato e la solidarieta' popolare e' come un brulicare di formiche: tutti aiutano tutti, adattandosi a una economia di sopravvivenza. Il sabato e la domenica i ritmi del planton risultano sconvolti: dal venerdi' notte e dall'alba seguente centinaia di persone attendo in fila per ore per abbracciare i loro familiari incarcerati. Una folla di bambini si riversa nella nostra tendopoli e mentre il sole ancora tentenna opacamente a sorgere un gruppo di compagni organizza un laboratorio di giochi e disegni di gruppo. I bambini disegnano, colorano e ritagliano farfalle che attaccate a uno stecco le fanno volare. La loro primavera e le loro risate cristalline sgretolano le grigie mura della galera; i compagni raccontano di quando le guardie, stupide e tristi, volevano vietare l'ingresso di quei sogni colorati ma grazie alla determinazione di tutti i presenti, familiari e compagni, i bambini sono riusciti a portare dentro ai loro papa' i disegni. Il planton nei giorni di visita offre la custodia bagagli gratuita e una distribuzione a prezzi ridotti di riso, fagioli, zucchero e altri beni primari. La commedia umana che s'affolla fuori dalla galera dunque si mescola in un'atmosfera caotica con il presidio, divenendo un unico sospiro, un racconto corale di soprusi, lente burocrazie, discriminazioni che uniscono tanto i detenuti politici quanto i comuni. Il lavoro politico dei/lle compagn* del planton in questi momenti diventa eccezionale, genuinamente popolare e solidale. Poi immancabile cala la sera e i 2000 metri di altezza si fanno sentire tutto d'un tratto, appena il sole si nasconde dietro le cime all'orizzonte. I secondini entrano e escono a pochissimi metri, a testa bassa o sconcertati e incapaci di capire tanta testardaggine. Con lo sferragliare sinistro tipico di cancelli e manette traggono altri prigionieri. Spesso sono indigeni con faccie consumate dalla poverta' o giovani microcriminali tatuati con i simboli della "pandilla" di appartenenza. Una notte gli idioti in divisa si portano via pure un pupazzo di dimensioni umane posto sopra il filo spinato come un monumento all'evasione. Lo strappano, lo colpiscono, se lo portano dentro, poveri frustrati... l'indomani un nuovo pupazzo di legno, con l'uniforme da detenuto, nuovamente ricordera' a tutti/e che il desiderio di fuga si fermera' solo quando cesseranno di esistere le galere. La notte scorre ancora piu' lenta del giorno. Lo schioppettio del fuoco e l'incostante fragore dei Tir che sfrecciano a pochi metri fanno compagnia alle persone che montano la guardia. Avvolti in pesanti coperte, col riverbero azzurro della televisione sui volti, ci scambiamo esperienze, racconti, opinioni. Parla, con voce bassa e roca, una signora con una tuta: si avvicina al fuoco e ci narra del marito e del figlio prigionieri politici, delle tangenti astronomiche proposte per la loro liberazione, del marciume del sistema carcerario, della voglia che ha di tornare al suo villaggio con i suoi cari. Oppure la discussione s'infervora sulla scelta di un popolo indigeno della Baja California, nel nord del Messico, di autoestinguersi. Ai Cucapa' le e' stato proibito di pescare nelle loro acque ancestrali col bieco fine di annullare l'esistenza di questo piccolo popolo di pescatori e installarvi nella loro zona un insediamento turistico. Hanno distrutto le loro canoe, hanno sparato su di loro quando uscivano a pescare, li minacciano ripetutamente. Piuttosto che vivere senza le loro tradizioni preferiscono estinguersi, come protesta estrema, rifiutando di fare figli. L'Altra Campagna ha installato un planton anche lassu', per tutta la durata della stagione della pesca. Un'altra notte un documentario sopra la strage di Pasta de Chonchos riapre una delle ferite piu' recenti di un Messico dilaniato dall'ingiustizia: 66 minatori morirono in un esplosione a circa 400 metri sottoterra, nel febbraio del 2006. Gli stessi lavoratori, all'Encuentro Obrero a Citta' del Messico, avevano elecanto le pessime condizioni di lavoro e della miniera ma la compagnia proprietaria, la Minera Mexico - un'impresa nazionale privata, aveva risposto con minaccie di licenziamento verso tutti coloro che si sarebbero rifiutati di scendere a scavare. E cosi' i minatori di San Juan de Sabinas, dello stato di Coahuila, proseguirono a produrre l'energia necessaria ad accendere il 13% di tutte le lampadine del Messico. Perirono nelle viscere della terra mentre i padroni oggi viaggiano in Jet personali; dopo piu' di un anno solo due corpi sono stati recuperati e ancora non sono giunti i risancimenti economici. L'indignazione del villaggio cresce e oggi si organizza nell'Altra Campagna. A volte e' dura. C'e' chi piange al ricevere una lettera da dentro e chi ancora soffre delle umiliazioni e delle violenze sessuali subite nel maggio passato. Quelle mura certi momenti sembrano invalicabili e la giustizia federale prosegue a farsi beffe degli elementari diritti civili e umani. Ma poi un guizzo squarcia la notte, una voce da dentro i cancelli, dal braccio femminile, che grida "NE' DEBOLI, NE' SOTTOMESSE, COMPAGNE!!!"... e allora, rincuorato, il planton riprende vigore... |
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